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 2021  agosto 10 Martedì calendario

Il paradosso del lavorio Italia

Il paradosso del lavoro è ormai una malattia cronicizzata per l’Italia dove sono 2,5 milioni i giovani scoraggiati che non cercano lavoro e non studiano. Eppure, il lavoro c’è: 1,2 milioni di posizioni certificate da Unioncamere Excelsior. 

 
Il paradosso del lavoro è ormai una malattia cronicizzata per l’Italia dove sono 2,5 milioni i giovani scoraggiati che non cercano lavoro e non studiano. Eppure, il lavoro c’è: 1,2 milioni di posizioni certificate da Unioncamere Excelsior. 

Si tratta di opportunità in cerca di altrettanti lavoratori disposti a coglierle. E, per lo più, ancora introvabili.
Come dimostra l’inchiesta del Sole 24 Ore che comincia oggi i settori che possono creare occupazione sono molti: la ristorazione che trova nuovo ossigeno dopo il Covid, l’edilizia in pieno boom da superbonus, la logistica nelle diverse declinazioni dell’e-commerce per non parlare delle professioni legate all’innovazione digitale e alle esigenze di gestione del nuovo mondo dei big data. Su cui scommette anche la pubblica amministrazione senza riuscire per ora ad attrarre i talenti che vorrebbe. 
Creare le giuste correnti per far incontrare chi cerca e chi offre lavoro è il compito principale delle politiche attive. I navigator avrebbero dovuto fare questo difficile esercizio, ma non è stato possibile. La loro missione scontava un difetto di impostazione del reddito di cittadinanza e una commistione controproducente tra esigenze di assistenza sociale e di gestione del mercato, mai facce della stessa medaglia.
I tecnici lo chiamano mismatch tra domanda e offerta. Tradotto sta per scompenso, mancata corrispondenza. Nel caso del lavoro questo disallineamento ha diversi volti. C’è nelle qualifiche a basso valore aggiunto dove non si trovano operai più o meno specializzati e dove decisiva è l’immigrazione; c’è nelle qualifiche più alte dove contano titoli di studio e competenze ancora troppo rari in Italia. 
C’è un disallineamento nelle famiglie che ancora orientano la formazione dei figli verso professioni che non hanno futuro, e spesso nemmeno un presente. Magari in nome di un ascensore sociale fermo a un’idea da secolo scorso del lavoro. Una delle carenze più gravi è la mancanza di informazioni su quali siano i nuovi lavori tecnici, quali le modalità di svolgimento e di formazione, quali le effettive dinamiche di remunerazione. Se ciò avvenisse si scoprirebbe ad esempio che un saldatore specializzato non ha nulla da invidiare a una busta paga di un bancario nella fase iniziale della carriera. 
Il mismatch sconta anche il volto di una formazione inadatta e male orientata. Che porta il 25% dei lavoratori attuali a svolgere mansioni inferiori al loro titolo di studio e altrettanti a vivere la situazione esattamente contraria. L’Italia conta molti meno laureati, in media, rispetto all’Europa: ha la metà dei laureati in ingegneria, la metà dei laureati in economia, un quinto dei laureati in informatica per i quali l’occupazione è pressoché garantita. Ma ha il doppio dei laureati in scienze umanistiche e sociali che invece trovano lavoro con più difficoltà. L’esperienza più che virtuosa degli Its è ancora confinata in numeri troppo ridotti per poter dire che l’Italia abbia cambiato rotta.
C’è anche una discrepanza salariale: in alcuni settori del commercio ad esempio è emerso un deficit salariale per le qualifiche richieste. In genere l’Italia conta una retribuzione media lorda di poco più di 19 euro contro i 25 in Europa. Un altro dei mismatch italiani è quello territoriale: l’offerta di lavoratori è più alta al Sud quando i posti disponibili sono al Nord. In questo caso, per chi debba decidere di emigrare, l’appeal salariale di altri Paesi europei risulta maggiore e quindi anche la migrazione interna ne risulta penalizzata. E, a proposito di immigrazione, sarebbe auspicabile una gestione migliore dei flussi dei lavoratori extracomunitari che, spesso, sono destinati a coprire buona parte di quelle offerte di lavoro che gli italiani in genere rifiutano. 
In Italia la questione salariale esiste da tempo. Ma va affrontata con spirito nuovo, non come frutto di una pressione creata artificialmente dal reddito di cittadinanza. Le relazioni industriali devono orientare le scelte contrattuali verso forme nuove di remunerazione della produttività, unica chiave per la crescita dei redditi.
E comunque ogni scelta non può non partire da un’operazione verità sul valore delle lauree italiane: secondo una ricerca di Willis Towers Watson i neolaureati italiani sono al quattordicesimo posto della classifica con un reddito lordo annuo di 28.827 euro, il 70% in meno degli omologhi tedeschi e il 30% in meno dei francesi. Ma ciò che è peggio in Italia la laurea garantisce una retribuzione superiore solo del 12% rispetto al diploma, mentre in Germania quella percentuale è del 32 per cento. Parlare di lavoro significa anche parlare di questo.