il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2021
Per salvare il clima facciamo causa agli Stati
Il nuovo rapporto Ipcc sullo stato del clima globale non stupisce gli addetti ai lavori: non fa altro che certificare con il timbro delle Nazioni Unite la drammatica situazione del riscaldamento globale, attraverso l’analisi di 14.000 pubblicazioni di settore uscite negli ultimi anni, da parte di centinaia di esperti climatologi, idrologi, glaciologi, fisici dell’atmosfera e oceanografi. Non stupisce nemmeno i lettori del Fatto, in quanto buona parte di queste pubblicazioni sono state commentate su queste pagine via via che uscivano. E le notizie incalzanti sugli eventi climatici estremi che punteggiano il globo, dai 50 gradi in Canada alle alluvioni tedesche, forniscono ormai anche al non esperto un allarme percepibile e traumatico sulla coerenza con la realtà degli scenari climatici di cui si parla da trent’anni. Tutti sanno e nessuno agisce.
Ogni tanto una sirena suona un po’ più forte, come questo nuovo rapporto fatto di urgenza, di irreversibilità, di “tante cattive notizie con piccole pepite di ottimismo” ma poi, passato qualche giorno, tutto torna come prima. Perfino quando la soglia del panico è stata superata con l’irruzione della pandemia nelle nostre vite, e durante i confinamenti sanitari abbiamo esclamato che la lezione del virus andava appresa e applicata anche al clima e all’ambiente, abbiamo fallito. Tutto è tornato infatti come prima e più di prima, visto che le emissioni di CO2 hanno ripreso i livelli del 2019 annullando la breve flessione del 7 per cento del 2020.
Assistiamo impotenti alla nostra cottura a fuoco lento, tra rapporti ufficiali, vertici politici tipo G20, conferenze internazionali sul clima – ce ne sono state 25 dal 1992, anno di approvazione a Rio de Janeiro della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la prossima sarà a Glasgow in novembre –, e accordi non vincolanti sulla riduzione delle emissioni, da Kyoto a Parigi. Ma è tutto terribilmente lento e vischioso, mettere d’accordo Paesi ricchi e poveri è difficile, tassare l’energia fossile è economicamente scorretto, chiedere rinunce ai cittadini non si può fare, minacciare la crescita del Pil è un’eresia. Quindi si inventano palliativi che tentano a parole di attenuare il rischio climatico, come il Green deal europeo o la transizione ecologica italiana, ma si tratta di scelte parziali, che hanno come primo obiettivo non quello di curare la soffocante patologia climatica, bensì di salvaguardare l’economia di mercato e l’impossibile crescita economica infinita in un mondo finito. Si aggiungono un po’ di pannelli solari, pale eoliche e auto elettriche ma non si ha il coraggio di togliere nulla di ciò che i danni li provoca ogni giorno.
Un esempio emblematico perché tutto giocato nelle istituzioni è il tunnel Tav in Val di Susa: emetterà almeno 10 milioni di tonnellate di CO2 per la sua costruzione nei prossimi dieci anni, non riuscirà probabilmente a recuperarla con il risparmio sui nuovi transiti, comunque sia dopo il 2050, e quindi è in palese violazione dello stesso programma europeo di decarbonizzazione urgente con prima scadenza del 55% al 2030, eppure viene ipocritamente sostenuto dalla Commissione e dai governi francese e italiano come opera “ecologica”.
Ci aggiungiamo ora il redivivo ponte sullo Stretto, dipinto di verde, senza un solo numero che lo certifichi tale. È questa contraddizione di fondo tra le parole ecologiche e i fatti distruttivi che porta all’ennesimo allarme della scienza: una conferma di quelli precedenti con in più l’elenco di estremi climatici nel frattempo avvenuti e il timore che il tempo per correre ai ripari non basti. Di fronte a questa ulteriore verifica di inefficacia metodologica – trent’anni di avvertimenti perduti, trent’anni che sarebbero stati utili per avviare una transizione che ora si fa sempre più ardua –, tocca interrogarsi se non sia opportuno ricorrere ad altre strategie. Se il buon senso non basta, se le pressioni economiche l’hanno sempre vinta sul principio di prudenza sostenuto dalla scienza, se il sentire popolare preferisce evitare il confronto con i rischi a lungo termine, se la politica del consenso immediato non vuole imbarcarsi in dolorose rinunce che non pagano in termini di voti, forse non resta che il ricorso alla giurisprudenza.
Per il disastro climatico incombente è venuto il tempo di citare in tribunale i responsabili dell’inadempienza. Lo hanno già fatto con successo alcune cause come Urgenda nei Paesi Bassi, l’Affaire du Siècle in Francia o Friends of the Irish Environment in Irlanda. Le supreme corti hanno dato ragione ai cittadini: gli Stati inadempienti nei confronti dell’emergenza climatica minacciano la vita delle generazioni più giovani e sono stati condannati a fare di più. In Italia la causa climatica è stata depositata a giugno con il nome di “Giudizio Universale” e vedremo se avrà gli effetti sperati. Curiosamente gli umani non sono capaci di decidere in termini razionali ma preferiscono uniformarsi, anche con la forza, a delle regole. Basterebbe la termodinamica come regola naturale assoluta a cui rispondere, ma i suoi effetti, gravi e irreversibili sul lungo periodo, sono inizialmente percepibili solo dagli scienziati che urlano inascoltati. Usiamo allora le più familiari regole del diritto per convincere tutti a fare qualcosa per salvarci. Sperando che la riforma Cartabia non cassi anche il nascente reato di ecocidio.