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 2021  agosto 10 Martedì calendario

Il rischio della criptoapocalisse della finanza

L’Economist, nei giorni scorsi, ha pubblicato ciò che ha definito “un esperimento mentale” per “aiutare a scoprire i collegamenti tra le criptovalute e la finanza tradizionale”. Secondo il settimanale economico-finanziario, per causare “una turbolenza generale” sui mercati finanziari “molto dovrebbe andare storto”, ma a innescarla potrebbe contribuire in modo rilevante anche un crollo verticale del prezzo del bitcoin. Questo scenario estremo farebbe entrare in campo tre canali di trasmissione del panico: la leva finanziaria, il ruolo delle stablecoin e il sentiment, che potrebbero far dilagare sui mercati qualsiasi flessione delle criptovalute, grande o piccola che sia. Il fatto è che “i criptoasset stanno diventando sempre più legati” alla finanza tradizionale, attraverso il ruolo di grandi operatori nella raccolta e gestione del risparmio, come Goldman Sachs che intende lanciare un Etf cripto scambiato in Borsa, o Visa, che ha lanciato una carta di debito che paga i premi dei clienti in bitcoin.
La questione, rileva il settimanale, è l’ampiezza della recente espansione dell’universo cripto. Solo un anno fa c’erano circa 6 mila criptovalute quotate su CoinMarketCap, oggi sono 11.145. La loro capitalizzazione di mercato totale in un anno è esplosa da 330 miliardi a 1.600 miliardi di dollari (da 280 a 1.360 miliardi di euro al cambio attuale, ndr), mentre i portafogli (wallet) attivi nelle cripto si sono triplicati dai 100 milioni del 2018. La grande crescita è dovuta all’ingresso in forze sul mercato degli operatori istituzionali, che rappresentano il 63% degli scambi in valore sulle cripto contro il 10% del 2017. Tuttavia le quotazioni continuano a segnalare “turbolenze selvagge”. Il bitcoin è passato da 64 mila dollari ad aprile a 30 mila a maggio. Oggi si aggira intorno ai 40 mila, dopo essere sceso a 29 mila il 29 luglio, nonostante l’effetto di calmieramento dei trader robotizzati algoritmici che eseguono una parte significativa delle transazioni ed emanano ordini di acquisto automatici quando il bitcoin scende sotto determinate soglie.
Ma un eventuale crollo del bitcoin causerebbe la fuga di molti speculatori e innescherebbe una spirale ribassista contagiosa anche per altri mercati. A venire colpiti sarebbero innanzitutto i “minatori”, che avrebbero meno incentivi a far funzionare la blockchain perché scenderebbe il valore del ritorno che ottengono in termini di token e potrebbero finire anche per lavorare in perdita. Poi sarebbero ridotti gli investimenti privati in società di criptovalute come gli exchange (37 miliardi di dollari dal 2010, 31,45 miliardi di euro al cambio attuale) e il valore delle società di criptovalute quotate (circa 90 miliardi di dollari, 76,5 miliardi di euro). Anche società di pagamento come PayPal, Revolut e Visa perderebbero alcune delle loro attività in crescita, danneggiando le loro valutazioni. La scossa si trasmetterebbe anche alle aziende che hanno guidato il boom delle criptovalute, come il produttore di microchip crittografici Nvidia. In totale, secondo l’Economist, da una prima onda d’urto potrebbero andare persi 2mila miliardi di dollari, poco più della capitalizzazione di mercato di Amazon.
Il contagio potrebbe diffondersi attraverso più canali ad altri asset, sia cripto che mainstream. Il primo canale è la leva finanziaria, ovvero l’utilizzo di strumenti finanziari che per consentire di aumentare possibili guadagni delle “scommesse” sul rialzo o il ribasso dei prezzi dei criptoasset, permettono di “prendere a prestito” denaro delle piattaforme di investimento, salvo dover coprire gli eventuali (e assai probabili) “buchi” causati da ordini di investimento che hanno finito per generare perdite.
D’altronde, come abbiamo scritto di recente, nei giorni scorsi Binance ha reso noto che ridurrà il limite di leva del trading di futures sul bitcoin a 20 volte: solo due mesi fa aveva lanciato contratti tra bitcoin e tether con una leva fino a 125 volte. Anche l’exchange di criptovalute Ftx nei giorni scorsi ha reso noto che ridurrà il limite al trading con leva a 20 volte, dalle 101 volte massime precedenti.
L’Economist rileva che almeno il 90% del denaro investito in bitcoin viene speso in derivati come i perpetual swap, scommesse su movimenti di prezzo futuri che non scadono mai. La maggior parte di essi viene scambiata su borse non regolamentate, come Ft e Binance, da cui i clienti prendono in prestito denaro a leva per fare scommesse ancora più grandi. Movimenti di prezzo modesti possono attivare richieste di margini elevati; quando non vengono coperti, gli scambi non esitano a liquidare le partecipazioni dei loro clienti e i prezzi delle criptovalute diminuiscono. Il cosiddetto “open interest”, cioè il valore complessivo dei derivati in essere, è passato da 1,6 miliardi di dollari (1,36 miliardi di euro) a marzo 2020 a 24 miliardi di dollari (20,4 miliardi di euro) di oggi. Questa è solo un’approssimazione della leva totale, in quanto non è chiaro quante garanzie ci siano dietro i diversi contratti. Ma le liquidazioni forzate di posizioni con leva finanziaria durante le passate fasi ribassiste del bitcoin danno un’idea dell’entità del rischio: solo il 18 maggio, quando il bitcoin perse quasi un terzo del suo valore, le posizioni liquidate raggiunsero i 9 miliardi di dollari (7,65 miliardi di euro).
Un secondo canale di trasmissione proviene dalle stablecoin che oliano gli ingranaggi del trading di criptovalute. Poiché il passaggio da dollari a bitcoin è lento e costoso, i trader che desiderano realizzare guadagni e reinvestire i prodotti spesso scambiano stablecoin, che sono ancorate al dollaro o all’euro. Queste monete, la maggiore delle quali è Tether, valgono ora collettivamente 100 miliardi di dollari (85 miliardi di euro). Su alcune piattaforme cripto sono il principale mezzo di scambio. Gli emittenti supportano le loro stablecoin con molti asset: Tether, ad esempio, afferma che alla fine di marzo il 50% delle sue attività era detenuto in commercial paper (titoli di debito a brevissimo termine emessi da società quotate), il 12% in prestiti garantiti e il 10% in obbligazioni societarie, fondi e metalli preziosi. Un “criptocrash” potrebbe portare a una fuga precipitosa sulle stablecoin, costringendo gli emittenti a scaricare i propri asset per effettuare rimborsi. A luglio, Fitch, un’agenzia di rating, ha avvertito che un’improvvisa e massiccia uscita da Tether potrebbe influire sulla stabilità dei mercati del credito a breve termine. Eric Rosengren, il capo della Federal Reserve di Boston, ha osservato che gli investitori regolamentati con passività simili a Tether non possono investire in molti asset perché rappresenterebbero un problema di stabilità finanziaria globale.
Una “criptoapocalisse” potrebbe poi influenzare il sentimento più ampio degli investitori, anche al di là delle svendite. Per ora le banche sono immuni perché il club dei supervisori di Basilea ha recentemente proposto che le banche mettano da parte un costoso collaterale di 100 dollari per ogni 100 dollari che acquisiscono in bitcoin. Ma un caso peggiore non è difficile da immaginare. I bassi tassi di interesse hanno portato gli investitori ad assumersi maggiori rischi. Un crollo delle criptovalute potrebbe farli raffreddare anche su altri asset esotici. Negli ultimi mesi è aumentata la correlazione tra i prezzi dei bitcoin e le azioni “meme”, quelle più popolari tra i piccoli investitori, e anche le azioni in generale. Ciò è in parte dovuto al fatto che gli scommettitori reinvestono in criptovalute i guadagni realizzati sui titoli alla moda e viceversa. Una massiccia svendita di criptoasset comincerebbe con gli scommettitori più indebitati (di solito individui e hedge fund) nelle aree ad alto rischio: meme azionari, obbligazioni spazzatura, Spac (veicoli speciali per acquisizioni societarie). Se le attività rischiose diventassero meno liquide si rischierebbe un crollo generale. L’Economist ricorda che a gennaio scorso l’S&P500, il principale indice azionario statunitense, perse il 2,5% in una sola seduta dopo che l’infatuazione dei piccoli risparmiatori innescò una bolla su GameStop, un rivenditore di videogiochi, e finì per spiazzare alcuni hedge fund ribassisti sulla società quotata, causando loro perdite miliardarie.
Ma ci sono anche altre tipologie di rischi collegati ai criptoasset. Le indica il rapporto della Consob “Congiuntura e rischi del sistema finanziario italiano in una prospettiva comparata”, pubblicato il mese scorso e firmato da Nadia Linciano (coordinatrice), Valeria Caivano, Daniela Costa, Francesco Fancello, Monica Gentile, Lucia Pierantoni e Francesco Scalese. Gli esperti di Consob segnalano non solo l’elevata e rischiosa volatilità del bitcoin e di tutte le cripto valute, “significativamente più elevata rispetto a quella delle opzioni di investimento tradizionali”, ma anche che esiste “un’ulteriore criticità” “legata alla modalità di scambio delle criptovalute e alle tecnologie sottostanti”. Il cane da guardia nazionale dei mercati finanziari si riferisce al rischio delle truffe: “Alcune stime per il 2019 quantificano l’impatto economico di frodi e attacchi informatici concernenti criptoattività in 4,5 miliardi di dollari (3,83 miliardi di euro al cambio attuale, ndr), in netta crescita rispetto al biennio precedente”. Il fatto è, secondo l’Autorità nazionale di controllo, che “i dati disponibili relativi a 479 piattaforme digitali dedicate a criptoattività evidenziano che meno di 30 possono ritenersi molto affidabili per la qualità delle informazioni pubblicate e solo sette ottengono una valutazione molto positiva in termini di sicurezza informatica”. A buon intenditor…