il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2021
Biografia di Beppe Vessicchio raccontata da lui stesso
La scelta della vita chiusa in un dialogo, un’alba del 1977. “La notte ero tornato tardissimo: avevo suonato. Ma i corsi di Architettura iniziavano alle 8.30. Quindi avevo dormito poco, mi stavo preparando ed ero brusco per il ritardo. Davanti alla porta mi ferma mio padre: ‘Prima di uscire devi rispondere a una domanda’. ‘Dimmi’. ‘Se ti laurei, poi fai l’architetto?’. ‘No’. ‘E allora perché continui?’. ‘Per te’. ‘Sei pazzo? non ti ho mai chiesto una prova del genere’. ‘Sì, quando ero bambino’. ‘Quelle sono cose che si dicono!’. ‘Mi sto facendo in quattro per non mollare nulla’. Silenzio. Pausa. E poi: ‘Oggi non ci vai, stai a casa: meglio se rifletti sul tuo domani e decidi dove indirizzare le energie’”.
Beppe Vessicchio ha ascoltato l’armonia di quelle parole, le ha posizionate come note sullo spartito dell’esistenza e ha deciso di cambiare il suono del suo futuro; oggi è uno dei grandi esperti di musica, è un maestro, osannato a Sanremo come una star, inseguito dai cantanti per ottenere un giudizio obiettivo su un nuovo pezzo; è stato uno dei giudici più ricercati nei talent e adesso è il Direttore musicale all’Art Village di Roma, sotto la direzione artistica di Luciano Cannito. “Ai giovani intendo trasmettere i valori della polifonia del passato per poi produrre idee da ricollegare a quello che siamo stati e siamo. E soprattutto: insieme”.
Il confronto è importante.
La musica elettronica è molto solitaria, è vissuta nelle stanzette, mentre gli strumenti classici obbligano al confronto: quell’incontro permette a ognuno di riflettere e crescere.
In questi anni da quale confronto si è sentito arricchito?
Lucio Dalla: quando è venuto a mancare ho pensato “e ora chi mi stupirà?”. Lui ha sempre cambiato, non si è mai ripetuto, altrimenti si sarebbe annoiato. Aveva un’apertura mentale non comune.
Esempio.
Attenti al lupo è il brano trainante dell’album Cambio, non è un pezzo suo ma di Ron: se un grande paroliere come Dalla dava spazio ad altri, era segno di un artista che non cedeva all’ego.
I talent hanno accentuato o ridotto la capacità di ascolto e di approfondimento?
Voglio vedere la bottiglia mezza piena, vista l’esistenza di Emma, Alessandra Amoroso, Marco Mengoni o i Maneskin; mi dispiace solo il modo in cui i ragazzi vivono il desiderio di partecipare: chi viene bocciato attende un anno per riprovare, ma nel frattempo non approfondisce la materia.
È una star di Sanremo.
Ho solo attraversato gli anni e le generazioni e non mi sono mai tirato indietro davanti alle novità. Poi ho affrontato tante edizioni mantenendo la mia barba e la mia capigliatura.
Da quanto porta la barba?
Mia moglie non mi conosce senza; (sorride) stiamo insieme dal 1977 e ora siamo bisnonni.
A quel tempo, com’era?
Dal punto di vista dell’immagine ero molto hippy, con la fascetta nei capelli, quasi ai margini del perbenismo sociale.
I suoi cosa ne pensavano?
Preoccupati; erano gli anni dell’eversione: a un certo punto mio padre temette che appartenessi a gruppi come le Brigate Rosse. Ovviamente si sbagliava, scappavo solo per suonare.
Non era uno scapestrato…
Assolutamente! Ero un amante della natura, ero un figlio dei fiori.
Tipo Hair.
Esatto, eravamo presi da questa fratellanza e sorellanza, sentivamo una necessità di collegamento anche con la natura.
Napoli di quegli anni era il massimo dal punto di vista musicale.
Stimoli spaventosi: gruppi rock, etno-rock, poi c’erano Pino Daniele, Napoli Centrale, Eugenio ed Edoardo Bennato, Teresa De Sio, Carlo D’Angiò; era un lievito potentissimo.
A chi era legato?
A Eugenio: era uno sperimentatore, un folle, cambiava sempre idea.
Con Pino Daniele percepiva il genio?
Era lampante; (ci pensa) è stata la persona in grado di raccogliere tutti gli umori e le sperimentazioni del periodo; il genere che Pino ha magistralmente portato avanti già esisteva con Enzo Avitabile, ma lui ha captato le forze, le ha coniugate e rese vincenti; il suo primo disco ognuno di noi lo ha comprato e ascoltato attentamente.
Secondo James Senese, Pino Daniele non era molto amato.
Qualche invidia è scattata, ma poi tutti sono stati costretti a riconoscere la sua maestria, anche come interprete.
Lei stava ancora a metà tra musica e Architettura…
Sì, fino alla domanda a bruciapelo di mio padre.
Un grande genitore.
Straordinario. Se non ci fosse stata quella mattina credo che sarei andato avanti, perché cerco sempre mediazioni: è lo spirito armonico a guidarmi, e ha condizionato la mia vita; (sorride) da quel momento mi ha liberato.
Quanti esami ad Architettura?
15: ero a buon punto.
Media?
Non era male, intorno al 26-27.
Studioso.
Non ho mai avuto problemi.
Questione di metodo.
Come sosteneva Rousseau, la musica è architettura liquida.
Oggi in molti le chiedono consigli…
Perché il mio parere è disinteressato e a volte può mettere in difficoltà: esprimo tutto quello che penso.
Si offendono?
Qualcuno cerca di difendersi, si chiude. Ma ogni volta insisto: “Se sei convinto del tuo lavoro, non ascoltare il mio giudizio. Se invece ti arriva il dubbio, allora il mio consiglio ti è servito”. Non bisogna mai legarsi troppo allo sforzo fatto: ricominciare da zero è un atto di coraggio.
Ha recitato in un cult-movie: Giggi il bullo…
Certe scene me le mandano di continuo gli amici.. Mia moglie quel periodo se lo ricorda benissimo….
Cosa accadeva?
Lavoravo con dei comici, I Trettré, ed ero il musicista del gruppo: a un certo punto andarono via dei componenti e mi ritrovai a supplire in parti di recitazione. La situazione si doveva sanare presto, ma per questioni economiche siamo andati avanti così: dividevamo in meno persone la paga.
Fino a quando…
Arrivarono inviti a partecipare a progetti come quel film, e nel frattempo continuavo con la musica; una volta ero impegnato con I Trettré, ma avevo pure un appuntamento musicale, così gli altri musicisti mi hanno aspettato fuori dal teatro con il motore acceso.
Sembra una rapina.
Una volta in macchina siamo schizzati come folli verso Roma.
Come si trovava nelle vesti di cabarettista?
Mi rifugiavo dietro l’immagine di uno stralunato, ed è la chiave di chi non è attore: con barba e capelli assomigliavo ad Andy Luotto ai tempi di Arbore.
Le piaceva la ribalta?
È stata utile, ma a un certo punto ho sentito il rigetto: stavo utilizzando una fase importante della vita con impegni non giusti. Così come le donne di servizio, chiesi i trenta giorni e me ne andai.
I Trettré divennero famosi al Drive in…
Io ero felice per loro, ma non avrei sopportato quel tipo di clamore: avrebbe totalmente bloccato le mie aspirazioni. Volevo occuparmi di musica in maniera profonda.
Sempre.
Durante il lockdown ho sfruttato il tempo per studiare anche la polifonica vocale del 600.
Sanremo non l’ha allontanata dal suo ruolo?
È vero. Però temo pure la muffa sui libri, l’aria di chiuso. Quando mi spingo verso un estremo, per bilanciarmi devo percorrere l’altro.
Il Festival viene spesso raccontato come un luogo di grande stress…
Per me no; (sorride) tanto ci posso tornare anche l’anno dopo, mentre gli artisti ne sentono l’importanza, sentono la precarietà del sistema e la tensione è sempre alta; (cambia tono) solo Elio e le Storie Tese sono andati lì per giocare e divertirsi.
Gli altri…
Ho sentito le mani ghiacciate di persone che hanno sempre mostrato grande sicurezza.
Tipo?
Ho visto la tensione anche in Gianni Morandi: lui che è il più navigato, che non stona neanche se gli dai una martellata, prima di entrare era avvolto dall’ansia.
Chi altro non stona mai?
Mia Martini: ne La nevicata del ’56, con la sua voce e la sua espressione, ha guidato tutta l’orchestra, anche le mie mani erano mosse da lei.
Impressionante.
Non mi è più successo; nessuna artista è stata più trasversale di Mimì; (ci pensa) di Mina non possiamo dirlo, si è eclissata da troppi anni.
Come viveva la storia della iella?
Ancora non la conoscevo di persona e un giorno entro in uno studio musicale: davanti trovo una figura riparata da una felpa con cappuccio. Dopo un po’ la riconosco e all’improvviso ho percepito tutti i danni procurati da quella vergognosa situazione. Io ero un suo cultore.
Glielo disse?
Mi presentai come fan, senza rivelarle che ero un musicista.
Perché?
Non volevo inquinare il senso della frase, non volevo che pensasse che dietro ci fosse un secondo fine; (pausa) tempo dopo abbiamo collaborato per un anno, è stato bellissimo.
Il conduttore più preparato di Sanremo?
Ho visto Pippo Baudo sistemare i vasi dei fiori all’ingresso dell’Ariston.
Attento.
Come lui nessun altro; a Roma era presente anche alle prove dell’orchestra, a sottolineare la totale immersione nel Festival; un anno ha corretto pure il finale di Con te partirò di Bocelli, e in altri casi ha cambiato introduzioni troppo lunghe dei brani.
Ci prendeva?
Visti i risultati, visti gli artisti usciti dai suoi Sanremo…
Consigli per le canzoni: cosa intonare sotto la doccia…
La gatta di Paoli: mi mette il buon umore.
In viaggio…
Hotel California.
Falò.
La canzone del sole: con tre accordi permette anche ai novizi la loro porca figura.
Qualcosa di sexy.
Je t’aime moi non plus è un brano ancora evocativo di una certa trasgressione.
Chi è lei.
Un uomo che si occupa di musica.