Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2021
Tormenti e Peripezie del conte Thun
Il 1° luglio 1677 la contessa Anna Giuditta Arsio partorì un figlio il cui padre apparteneva a un’altra illustre famiglia trentina, Ferdinando Carlo Thun conte di Croviana. I due non erano sposati, ma il loro peccato secondo la Chiesa e reato secondo lo Stato poteva facilmente essere cancellato dal matrimonio. L’illustre quanto spiantato conte Thun non ne aveva tuttavia alcuna intenzione, disse di non aver mai fatto alcuna promessa né preso alcun impegno: un inganno per la donna, un’offesa per gli Arsio, che reagirono con denunce ai tribunali laici ed ecclesiastici e la minaccia di ricorrere a vie di fatto.
Il conte di Croviana dovette cedere, ma non senza aver imposto alla sposa di firmare un atto notarile che la rispediva a casa sua, senza alcun obbligo di convivenza, prodromo di una richiesta di annullamento. Da allora, lungi dall’accettare la via della monacazione, Anna Giuditta fece di tutto per vendicare il suo orgoglio ferito, occupando tra l’altro l’avito palazzo dei Thun da cui il precario marito riuscirà a farla sloggiare solo dopo 5 anni insieme con la figlioletta che mai volle vedere in vita sua.
Da questo matrimonio sbagliato, tanto più fastidioso per il nobiluomo trentino in quanto gli impediva tra l’altro di trovare uno sbocco alle sue ambizioni e un rimedio alla sua povertà in una carriera ecclesiastica, prende avvio la storia narrata in questo libro, che insegue il conte Thun nelle vicende di una vita tormentata e turbinosa. Di ritorno da una missione a Londra, giunge nel 1685 a Parigi, dove stringe un intenso legame con una gentildonna, che sposa clandestinamente sotto il falso nome di conte di Montroyal, da cui ha tre figli, battezzati di nascosto. Nel ’93 rientra in patria, dove diventa sovrintendente alle cacce del ricco e potente principe arcivescovo di Salisburgo Johann Ernst Thun, alla cui corte vive per sette anni, densi di delusioni, perché l’istanza di annullamento del primo e fugace matrimonio viene respinta dal severo Innocenzo XII. Non gli resta che tornare all’amata famigliola lasciata a Parigi, dove rientra alla fine del 1700 e un anno dopo, questa volta con tutti i crismi e diventando formalmente bigamo, sposa la sua amata Marie e può legittimare i figli. Ma nel 1702, allo scoppio della Guerra di successione spagnola, viene rinchiuso alla Bastiglia, con l’accusa di essere un agente degli Asburgo, e poi trasferito nella prigione di Vincennes. Alla Bastiglia finisce nel 1704 anche la moglie, sospetta di complicità, ed entrambi sono messi in isolamento. Anche il figlio Antonio, implicato in trame antiborboniche, sarà arrestato nel 1714, per essere poi liberato nel ’15, dopo la pace di Rastatt, insieme con la madre, reduce da oltre dieci anni di carcere.
A Vincennes la corruttibilità delle guardie consente a Thun di infrangere il rigido isolamento e di comunicare con Jean-Baptiste Farie, un ugonotto convertitosi per sottrarsi alle persecuzioni di Luigi XIV, sospettato di collusione con gli inglesi e chiuso in carcere senza processo dal 1691. I muri della sua cella recano ancora le iscrizioni tracciate con un chiodo in cui celebrava il Dio dei Salmi secondo la tradizione calvinista. Su di lui Alexandre Dumas costruirà la figura dell’abate Farìa nel Conte di Montecristo.
I due riuscirono a trasmettersi centinaia di lettere incise su ardesia per oltre dieci anni, fino alla morte del conte dell’Impero il 2 dicembre 1712, di cui l’ugonotto francese poté registrare le ultime volontà. Vi raccontava la lunga storia che gli aveva impedito di liberarsi del primo e forzato matrimonio, chiedeva il riconoscimento dei diritti dei figli e soprattutto esprimeva indefettibile amore e gratitudine per Marie, di cui non aveva saputo più nulla dopo essere stato arrestato, neanche della lunga carcerazione.
Di varie peripezie furono protagonisti anche i due figli Carlo Vittorio e Antonio, che poterono ricuperare il castello di Croviana, pur sempre considerati da molti come nulla più di figli bastardi, cui le magre risorse dei feudi aviti non permettevano di vivere all’altezza del loro status nobiliare e tanto meno di onorare i troppi debiti.
Storie di avventure inconsuete, tra la corte di Salisburgo e il carcere di Vincennes, narrate con garbata chiarezza in queste pagine sulla base di una documentazione ricchissima e talora straordinaria, come il libro di stoffa fatto da Marie in carcere con pezze impermeabilizzata da un po’ di cera sul quale, sino alla fine dell’isolamento nel 1707, scrisse un intenso diario interiore della prigionia da cui emerge la sua intensa fede religiosa.
A risultare poco convincente è tuttavia la prospettiva storica generale enunciata in apertura di questo libro, che scorge in tali avventure «la volontà, se non la capacità, di sfuggire ai condizionamenti sociali, agli obblighi che il ruolo impone, alle norme», di sottrarsi quindi al presunto «disciplinamento» postridentino imposto dalla concorde azione dello Stato e della Chiesa per reprimere i comportamenti anomici. Perché, a dire il vero, dal libro non emerge il profilo di un conte Thun «ribelle», ma piuttosto la sua tenace volontà di rientrare in quelle norme, di cancellare la memoria di quello sventurato matrimonio giovanile, scaturito solo da una gravidanza indesiderata, che gli aveva impedito per decenni di prendere possesso del suo rango e dei suoi feudi e diventare un riverito canonico salisburghese.
A risultare irriducibili alla disciplina non fu tanto lui, trascinato dalla sventura a morire in una prigione francese, quanto proprio quei ricchi canonici circondati da servitori, belle donne e carrozze, o il principe arcivescovo di Salisburgo Wolf Dietrich Reitenau, che ebbe 15 o 16 figli da Salome Alt, pubblicamente vissuta al suo fianco, o lo stesso illustrissimo e reverendissimo cardinale d’Austria Andrea d’Asburgo, arcivescovo di Costanza, governatore del Tirolo e poi delle Fiandre protettore del Sacro Romano Impero, che ebbe due figli illegittimi nel 1583-84.
Era il mondo che il conte Thun non avrebbe mai voluto abbandonare, se non fosse stato costretto a farlo dalle conseguenze di un gesto avventato.