Specchio, 8 agosto 2021
Ritratto di Ralph Fiennes
Una sera Wes Anderson mi chiese di portare come suo ospite Ralph Fiennes a una cena che avevo organizzato per dargli il bentornato a New York: «sto pensando a lui per un personaggio del mio prossimo film - mi disse - e voglio vederlo in una situazione che non abbia nulla a che fare con il lavoro».Risposi che ovviamente ero felice di accoglierlo, e Wes mi spiegò che il personaggio che aveva in mente era ispirato a una persona che conoscevamo entrambi: «questo non dirlo, però, è un nostro segreto».
Il film che stava preparando era Grand Budapest Hotel, e il ruolo quello di Gustave, che Ralph interpretò mescolando l’autoironia alla sensualità. A cena fu gentile e seducente con tutti, ma sin dall’inizio risultò chiaro che lui studiava il regista con cui stava per lavorare non meno di quanto Wes facesse con lui. La formazione professionale di Ralph era infatti molto distante dal suo cinema: sin da giovane si è caratterizzato come uno dei migliori interpreti shakespeariani, e il suo Amleto, con il quale ha vinto un Tony a Broadway, è considerato un punto di riferimento per un’intera generazione di attori contemporanei. Ancora adesso dice di preferire il teatro al cinema, dove ha debuttato come Heathcliff in Cime Tempestose, prima che Steven Spielberg gli affidasse il ruolo di Amon Göth, il sadico criminale nazista di Schindler’s List.
Bastano questi primi titoli per capire che aveva interpretato quasi esclusivamente ruoli drammatici o romantici, come nel Paziente Inglese, e non nascondo che ero perplesso di vederlo in una storia concepita all’interno del mondo coloratissimo ed iperrealista di Wes Anderson. Sbagliavo totalmente: il suo Gustave è un capolavoro di recitazione, e mi resi conto che Ralph era entrato perfettamente nel mondo di Wes già quella sera, duettando, sul piano dell’ironia, con il suo futuro regista: «uno degli elementi di collante della nostra famiglia è stato l’umorismo», mi spiegò in seguito. Sin da allora mi risultò chiaro che la varietà dei ruoli in cui ha saputo eccellere sono il riflesso di un’attitudine intellettuale segnata dalla curiosità e dell’abnegazione nel lavoro: ha studiato il russo per interpretare Pushkin in originale, e non c’è personaggio che non sia preparato con studi talmente meticolosi da aver spiazzato frequentemente i registi.
È nato a Ipswich 59 anni fa con il nome di Ralph Nathaniel Twisleton-Wykeham-Fiennes, figlio di Mark, fotografo di architettura e Jennifer, una apprezzata scrittrice che negli ultimi anni di vita ha abbandonato il cristianesimo per il buddismo. Alla robusta formazione intellettuale si aggiunge un altro elemento illuminante per comprendere su quali basi è fondata la sua poliedricità: l’elemento artistico e romantico si fonde infatti con una struttura educativa estremamente rigorosa. «Uno dei miei nonni era un industriale - spiega - l’altro un militare».
Il rapporto con queste radici si riverbera in alcune delle sue interpretazioni migliori, come Quiz Show, nel quale immortala il personaggio realmente esistito di un rampollo di una famiglia patrizia che si presta a una truffa televisiva per ottenere successo e danaro: il giovane è figlio di un celebre intellettuale, nei confronti del quale ha un complesso di inferiorità, e utilizza la scorciatoia per il successo, finendo per trascinare nel disonore l’intera famiglia. Ralph è bravissimo in questo ruolo di persona fragile e ambigua, e riesce ad attribuire al personaggio un’umanità per cui è difficile disprezzarlo: la vulnerabilità è un costante elemento di forza della sua recitazione, come dimostrano anche le due collaborazioni con Kathryn Bigelow: Strange Days e The Hurt Locker.
Questi elementi contraddittori di seduzione e fragilità proiettano un’aria ambigua, ma sempre umanissima, che ha conquistato cineasti diversissimi per sguardo autoriale come Luca Guadagnino e i fratelli Coen, e di opere mainstream: il grande pubblico lo ha potuto ammirare nella serie Harry Potter, dove interpreta Lord Voldemort, e anche in James Bond, dove ha immortalato una versione maschile di M.
Una volta gli chiesi se gli piacesse interpretare ruoli da malvagio, e lui mi spiegò che «il male, anche quando viene interpretato, finisce per contagiarti».Da questo punto di vista è inquietante il modo in cui immortala Francis Dolarhyde, lo psicopatico criminale di Red Dragon che si macchia di crimini efferati, ma nello stesso tempo vive con una ragazza cieca una storia d’amore che ha persino momenti di tenerezza.
«Ho studiato a lungo i serial killer e qualcosa di estremamente inquietante è rimasto nella mia testa - racconta, e quindi aggiunge - Recitare è un’attività molto nevrotica». Chi lo conosce non è affatto sorpreso che dopo pochi anni di carriera abbia deciso di cimentarsi anche nella regia, dimostrando una competenza e una solidità al di sopra di ogni aspettativa: è notevole in particolare la sua versione del Coriolano di Shakespeare ambientata a Belgrado, grazie alla quale è diventato, tra le altre cose, cittadino onorario della Serbia.
È da sempre molto attivo in politica, e si è schierato pubblicamente contro la Brexit, mentre sul piano religioso ha un approccio di apertura e costante dialogo nei confronti del divino: «Dio non ha nulla di umano. Dio è forza, caos, mistero. È terrore, leggerezza e rivelazione nello stesso momento».
Già in occasione di quella prima serata mi raccontò di non essere fatto per la vita familiare: «Ammiro sinceramente chi sa essere un buon marito e un buon padre, ma per quanto mi riguarda genera in me sentimenti di claustrofobia».Lo disse con uno strano sorriso, non so se ironico o amaro. Quando si rese conto che me lo stavo chiedendo, aggiunse: «So di non essere ancora anziano, e mi auguro di avere ancora molti anni davanti a me, ma posso già dire di non avere alcun rimpianto».