Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  agosto 08 Domenica calendario

Storia del fuochista Antonio Boggia, primo serial killer italiano

La scia di morte è lunga 133 lunghi passi, quanti il fuochista Antonio Boggia ogni giorno solcava per lasciare il palazzo delle tredici colonne, che ancora dominano la corte dove viveva in via Nerino 2, e raggiungere via Stretta Bagnera, infilarsi in uno scantinato e tumulare le sue vittime dopo averle fatte a pezzi. La via oggi ha accorciato il nome, chiamandosi semplicemente Bagnera, ma è permeata da un’aria greve, inquietante. Proietta le gesta tetre di chi impunito uccideva tra la basilica di sant’Ambrogio e il Duomo di Milano. Ripercorre all’imbrunire o di notte questa lunga e stretta stradina, priva di negozi, due soli numeri civici, ricca di ombre, gelida d’inverno, fa precipitare ancora oggi nella storia del Boggia, il tuttofare nato sul lago di Como nel 1799 e ritrovatosi assassino solo a mezza età: depezzava le sue vittime a colpi di pietre e scure e accette, per poi rimanervi accanto in silente venerazione.
Siamo in pieno impero austro-ungarico, quando si scopre il primo serial killer italiano che entra negli annali criminologici, con almeno quattro vittime tra il 1849 e il 1859. Un primato agghiacciante almeno quanto quell’altro che conquistò solo dopo esser stato condannato alla pena capitale per impiccagione. Proprio Boggia fu l’ultimo civile a essere giustiziato a Milano, fino alla seconda guerra mondiale. Infatti, a qualche anno dalla sentenza, eseguita l’8 aprile 1862 tra i bastioni di porta Ludovica e porta Vigentina, entrò in vigore il codice Zanardelli che aboliva la pena di morte. E proprio lui, il "mostro di Milano", quello che decapitò almeno una delle sue vittime, subì l’ineluttabile legge del contrappasso al punto che gli venne tagliata la testa per poi affidarla agli studi del padre della criminologia, Cesare Lombroso, che trovò nei suoi pronunciati tratti somatici e cranici conferma delle controverse tesi sul delinquente nato.
In effetti, Boggia, fin da giovane si era scontrato con la giustizia. Nel 1824 a soli 25 anni era già stato denunciato per truffa e aveva alle spalle un fascio di cambiali non onorate. Una situazione che lo portò a fuggire nel Regno di Sardegna, dove rimase coinvolto in una rissa e arrestato per tentato omicidio. Ma Boggia non si perse d’animo e aprofittò di una rivolta dei detenuti per evadere, tornare a Milano e farsi prendere al comando austriaco a palazzo Cusani come fuochista. All’epoca il futuro serial killer aveva una vita abbastanza regolare con casa in via Gesù, sempre nel centro della città, oggi illuminata dalla più importanti griffe della moda al mondo ma all’epoca anonima strada dell’impoero. La vita scorreva in un alveo di apparente normalità e anche di fede cristiana: le processioni con Boggia che reggeva il baldacchino, le messe, le funzioni tanto che nel 1831 si sposa, trasloca con la moglie nello stabile di via Nerino, dove nell’aprile del 1849 altera i destini di chi incontra e avrà inizio la mattanza.
Il manovale e fuochista Angelo Serafino Ribbone, nasce a Casciago nel varesotto e dopo aver perso entrambi i genitori, a 16 anni si trasferisce a Milano. Fa parte di quell’ondata di emigranti che dai laghi, dalla Brianza, dal nord si riversano in città. Sono i "bosini", come il popolo indicava chi arrivava dalle terre che da Saronno scendono fino al capoluogo. Manovali, operai, gente semplice che lascia i campi e s’avventura nella città, mangiando quando capita e dormendo dove nulla si paga. Così incontra Boggia che lo arruola nella sua impresa da carpentiere fino a quando, inseguito dalla giustizia e dai debiti, non gli tocca scappare. Il giovane Angelo Serafino cerca un’altra occupazione, non sa che l’appuntamento con la morte è solo rinviato. Si mette ad aiutare uno spaccalegna, fornitore del comando austriaco di via Cusani fino a quando questi non muore e lui, ligio e apprezzato, ne prende il posto. Con tre svanziche al giorno, il fuochista sogna di sposare Rosetta, figlia del droghiere, costruire una famiglia. Al momento giusto, tornerà a Casciago per recuperare dalla cugina il suo tesoretto di 1.400 svanziche accumulato nel tempo e costruire la sua famiglia. Ma questa favola si interrompe subito. Rosetta non ne vuole sapere, non è innamorata. Angelo Serafino, sconfortato si confida con Boggia, nel frattempo rientrato a Milano. Gli racconta di Rosetta e soprattutto della fortuna tenuta da parte.
All’improvviso, il mancato promesso sposo sparisce. Nessuno sa che fine abbia fatto ma in realtà nemmeno in tanti se lo chiedono. Insomma, un po’ come succede oggi, figuratevi all’epoca. E così al comando austriaco, cercano in fretta un altro fuochista, Rosetta s’innamora di un altro e quel ragazzo sceso dal varesotto, presto rimane nella memoria di pochi. Era stato Boggia a ucciderlo, prima smembrando il corpo e poi occultando i resti nello scantinato della Stretta Bagnera per non farlo mai ritrovare e mettere le mani sulle svanziche della vittima. Dopo averlo ammazzato, con un carretto era persino andato al comando austriaco dicendo che l’uomo si era trasferito a Lodi e reclamando le cose del povero disgraziato. Di fronte all’incertezza degli austriaci, per essere convincente, Boggia mostrò persino una procura che lo autorizzava a prendere ogni avere. Ovviamente era falsa ma nessuno se ne accorse.
Ci vorranno altri undici anni prima di arrivare alla verità. Un periodo infinito che permetterà al serial killer di saziare altre tre volte il suo desiderio di morte. E, soprattutto, portare a termine la sua ritualità: avvicina la vittima, stringe amicizia, entra in confidenza, offre da bere, infine la invita nello scantinato con una scusa per poi ucciderla e depredarla. Sceglie le prede per disponibilità economica, preferendo quelle prive di parenti e amici, sole, in modo che da poter agire indisturbato, saccheggiando le loro case, tanto da vendere poi perfino i mobili. Insomma, è mosso da un "movente misto di guadagno – osserva lo psichiatra Paolo De Pasquali – unito a necrofilia e possibile necromania". E così uccide un commerciante, il ferramenta Pietro Meazza, poi un ricco uomo d’affari e chissà quanti altri se nel 1859 non avesse compiuto l’errore di lasciar viva la vittima di turno. Nonostante una forte botta in testa, l’uomo riuscì a fuggire e a lanciare l’allarme. Ma aveva sottovalutato Boggia. Questo assassino era abituato all’inganno, alla simulazione. Con abilità giocò la carta della follia, si finse pazzo davanti alle guardie, al punto che queste lo lasciarono andare.
E arriviamo così all’11 maggio di quell’anno quando il predatore, sentendosi invincibile, cerca una nuova preda. Ovviamente prende ciò che vede, conosce e desidera. La scelta cade così su una ricca e anziana possidente, Ester Maria Perrocchio, proprietaria del palazzo di via Nerino 2 dove Boggia viveva in apparente tranquillità. Affetta da gibbosità, descritta come donna avara, amante di gatti, piccioni e galline, la Perrocchio si fidava di lui. Gli aveva affidato alcuni lavoretti nel condominio, tanto che un giorno l’aveva convocato nella sua casa all’ultimo piano per riparare il tetto dello stabile. Boggia non deve averci pensato due volte: colse l’occasione per uccidere la ultra settantenne con una scure e decapitarla. Sarà il figlio Giovanni Murier, il 26 febbraio 1860, a denunciare la scomparsa.
L’indagine portò il giudice Crivelli a seguire la pista del denaro. In effetti, scoprì una procura che attribuiva al sospettato l’amministrazione unica dei beni della scomparsa. Peccato però che l’atto, stipulato davanti al notaio Bolza di Como, fosse contraffatto. Un indizio pesante contro quest’uomo dal passato contraddittorio. Tanto che i fantasmi di ieri si riaffacciarono presto nelle indagini, a iniziare dall’ inquietante episodio del 1851 quando Boggia avrebbe cercato di uccidere Giovanni Comi, anziano contabile della città. Dagli interrogatori dei vicini arrivò però l’accelerazione decisiva. Raccontarono che Boggia si impegnava fino a ora tarda nello scantinato rompendo muri, portando grandi ceste, scendendo carriole stracolme di sabbia. Come mai? I carabinieri perquisirono il sottoscala. Da una nicchia murata venne fuori il cadavere di una donna. Eravamo solo agli inizi. Ancora una volta il passato tornò a irrompere. E, infatti, nel cassetto del comodino di casa Boggia durante una perquisizione spuntarono altre due procure fittizie. Nella prima il povero Angelo Serafino Ribbone, quell’orfano ed ex dipendente dell’assassino che abbiamo già incontrato, autorizzava il suo futuro assassino a ritirare il tesoro che aveva lasciato alla cugina. Nell’altra Meazza lo incaricava della vendita della bottega e di un vano cantina, sempre in Stretta Bagnera. E lì, sotto il pavimento, vennero fuori altri tre cadaveri. All’appello, infatti, mancava ancora Giuseppe Marchesotti, commerciante di granaglie all’ingrosso, sparito anche lui nel nulla.
Al processo Boggia cercò di evitare la pena di morte. Confessò gli assassini e giocò ancora la carta della pazzia. "Mentre la donna parlava – sibilò con un’artefatta espressione da forsennato – vidi una scure: mi colse un estro e le vibrai un fortissimo colpo al capo". Ma i giudici non abboccarono e firmarono l’esecuzione capitale.