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 2021  agosto 08 Domenica calendario

Quelli che cambiano identità nei boschi del Carso

Due scarpette bianche da ginnastica, un giubbino azzurro. Avrà quattro anni, forse cinque. Sembra di vederla e di sentirla, mentre si sveglia accanto a mamma e papà, magari fa i capricci, vorrebbe giocare. Fermarsi un po’. Ha già camminato tanto, troppo.
Ma c’è solo silenzio nei boschi di Dolina, sopra la Val Rosandra, nel Carso triestino. È metà mattina. Loro, i migranti, se ne sono già andati per raggiungere la città. Prima la periferia, poi il centro. Hanno lasciato tutto sull’erba, nel fango, sotto gli alberi. Zaini, maglie, giacche. Scarpe, tante scarpe, come quelle un po’ logore della bambina o quelle marchiate Disney con le fantasie principesche di "Frozen". Un marsupio da schiena rosso e bianco che qualche genitore ha usato come imbragatura per portare il figlio o la figlia in spalla tra i sentieri impervi.
Afghani, pachistani, ma anche siriani e iraniani. Spesso famiglie intere. Arrivano in Europa, in Italia, attraversando Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e Austria. Un esodo spesso in mano alle organizzazioni criminali di passeur che pretendono fino a 6, 7 mila euro a persona per accompagnare i migranti che, sul Carso, si muovono a gruppetti di cinque, dieci o poco più. Scendono nella notte, dopo aver varcato il confine sloveno, dopo mesi di cammino lungo la rotta balcanica.
Trieste è l’approdo. Ma, prima di addentrarsi nei centri abitati dell’altipiano che sovrasta la città, molti si fermano a dormire nei boschi. Ricavano nelle radure piccoli accampamenti: teli, sacchi a pelo, coperte. Aspettano l’alba per entrare a Trieste. Non vogliono dare troppo nell’occhio. Cercano disperatamente di confondersi con la popolazione locale.
Già, confondersi. Diventare invisibili. Per questo, quando sono ormai alle porte della città, abbandonano per terra, nel bosco, tutto ciò che si sono portati dietro nei mesi di cammino. Buttano tutto. Vestiti, coperte, borse, borsoni appartenuti a una vita da cui sono scappati.
L’altipiano a ridosso del confine è disseminato di oggetti che vengono da lontano. Tanti piccoli segni quotidiani. Lampadine, posate, spazzolini, dentifrici. Schiuma da barba, rasoi. Garze, blister di paracetamolo. Schede telefoniche, coltellini. Confezioni di biscotti. Bibite di ogni tipo. Le coperte con le sigle delle onlus incontrate nei campi profughi della rotta balcanica. La Kola presa in Bosnia, la bottiglia di acqua Jana comprata in Slovenia. Zaini neri o verde mimetico. Alcuni strappati, altri ancora ottimi. Se ne contano a decine nel fango. E sì, le scarpe. Distese di scarpe. Scarpe infangate e consumate. Scarpe bagnate e sfondate. Non serve un grande sforzo di fantasia per immaginarci i piedi dentro, martoriati dalla fatica. Quei piedi che i volontari delle associazioni umanitarie che operano a Trieste, spesso giovani, spesso medici specializzandi, curano nella centralissima piazza Libertà sulle panchine con disinfettanti e garze.
Nei boschi il flusso non si ferma nemmeno di inverno e si accentua con la bella stagione. Quello che i migranti abbandonano nel fango, sull’erba, è il racconto di mesi di fatica. Tracce di un’umanità in fuga. Testimonianze mute anche dei drammatici respingimenti nei confini in Bosnia e Croazia. «The game», così viene chiamato il tentativo di attraversare quelle frontiere, tra i pestaggi e le umiliazioni inflitte della polizia, come documentato in numerose inchieste e reportage.
Talvolta non ce la fanno. C’è chi resta bloccato per mesi nei Balcani. Chi perde la vita. E tante volte chi riesce a raggiungere Trieste ha lividi alla schiena e alle gambe. È da cinque anni che è così. E il Carso si riempie dei segni di questi transiti, rischiando di diventare un enorme immondezzaio a cielo aperto. Il Comune di San Dorligo-Dolina si è attrezzato incaricando una ditta – la A&T 2000 spa – per la pulizia dei boschi. La Regione ora concede finanziamenti. Perché la mano dei volontari, i cittadini che si prendevano la briga di portare via quanto trovavano qua e là, non è più sufficiente. Si calcola che da marzo – da quando è cominciata la contabilità dell’attività di pulizia – sono stati raccolti 80 quintali di materiale. Interi camion che fanno la spola tre volte alla settimana tra l’altipiano e i centri di smaltimento.
Solo venerdì, in meno di due ore, gli addetti hanno riempito sedici sacchi da quindici chili ciascuno. Indumenti, scarpe, coperte e quant’altro tirati su in meno di 300 metri di boscaglia sulle pendici del monte Carso, a ridosso dell’abitato di Crogole, a Dolina.
«Ripuliamo una zona – spiega Stefano Franceschetti, referente della società – ma la settimana dopo dobbiamo ritornare a farlo perché è nuovamente piena di roba. Fa male vedere questa immondizia, ma poi guardi i volti delle persone che la buttano. E comprendi». Il sindaco di Dolina, Sandj Klun, ha affrontato con passione il problema. Lui, di sinistra, esponente della minoranza slovena, ha portato tra questi boschi l’assessore regionale con delega all’Immigrazione Pierpaolo Roberti, leghista. E lo ha convinto a farsi dare i fondi per fronteggiare la situazione. Centocinquanta mila euro annui per i comuni carsici. «La Regione ha capito e su questo, per fortuna, non ci sono divisioni politiche» afferma Klun.
La popolazione locale, che ovviamente non è contenta di convivere con il verde dietro casa punteggiato da centinaia di zaini, indumenti e coperte, non fa muro. Tra i residenti c’è chi dà una mano a pulire. E chi aiuta i migranti in difficoltà, offrendo loro un pezzo di pane, dell’acqua, dei biscotti. L’attività di raccolta si fa però sempre più dura. Perché i migranti non passano soltanto dai sentieri battuti. Arrivano da ogni dove, nell’intera arcata che va da Rio Ospo, a Muggia, al Monte Cocusso. «Come facciamo a raggiungere i punti più impervi? E portare giù sacchi e sacchi di roba?» incalza il sindaco. Una soluzione c’è. Un ritorno all’antico: i muli. Sì, useranno i muli di un abitante di Dolina per il trasporto del materiale rintracciato nelle aree scoscese, dove l’erba si fa più rada e cominciano i costoni di roccia. Passaggi pericolosi: nel gennaio del 2020 un giovane algerino è caduto in un crepaccio. Per evitare incidenti, e per segnare meglio la strada, i gruppi di migranti lasciano appesi sugli alberi e sui cespugli maglie e zaini. Da un po’ di tempo anche le mascherine. Così chi viene dopo sa dove andare.
Il flusso non si arresta. Viaggia a un ritmo di 30-50 al giorno. «A Trieste l’accoglienza funziona», assicura Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics, la onlus che gestisce il settore. Schiavone è molto critico sui pattugliamenti misti ai valichi gestiti in collaborazione tra la polizia italiana e slovena: «Più difficoltà si creano, più il sistema si struttura e va in mani criminali».
Il bosco parla, il bosco racconta. La bambina delle scarpette bianche che l’altra notte ha dormito in sacco a pelo all’aperto, tra questi alberi, indossava anche un giubbino azzurro con ricamata una piccola scritta: «Star gazing». Guardare le stelle. Par di vederla con gli occhi all’insù, mentre si addormenta.