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 2021  agosto 08 Domenica calendario

Biografia di Francesco Montanari raccontata da lui stesso

Francesco Montanari ha trentasei anni, gli ultimi tredici li ha passati nella pancia di una balena che si rifiutava di sputarlo. La balena ha un nome: Libanese, il protagonista della serie Romanzo Criminale. Gli domando se là dentro ha sofferto la claustrofobia dei famosi incatenati a una vita che non è la loro. Mi risponde che è stato molto peggio. «È stata disperazione. Mi sentivo condannato a non fare altro, come se aver dato vita a un personaggio “perfetto” equivalesse a una sentenza di morte come attore. Alla fine mi ha salvato ripartire dal teatro, da dove venivo. La salvezza vera è arrivata con il Cacciatore che mi ha portato la Palma d’Oro a Cannes. Avevo quasi paura di appiccicarmi un’altra etichetta addosso e invece tutti i ruoli che sto interpretando fanno venire fuori un equilibrio sopra la moltitudine. Ora non ho più paura».
Paura mi sembra una parola enorme. Di che cosa ha avuto paura?
«Della fame. Per un lungo periodo, dopo il successo di Romanzo criminale, nessuno mi offriva provini. I soldi ricevuti, può immaginare, erano pochi e il frigorifero sempre più vuoto. Non potevo fare il cameriere per via della mia riconoscibilità anche se ogni tanto insieme con un mio caro amico proprietario di un ristorante fingevamo di essere soci, mi mettevo ai tavoli e con la goliardia offerta ai clienti guadagnavo quei 40 euro per tirare avanti. Avevo 23 anni, non potevo camminare per strada e non potevo permettermi un affitto. Un giorno un mio vecchio insegnante della Silvio D’Amico in un supermercato, davanti al bancone degli insaccati, trova le parole chiave. Riporto quel dialogo per evitare che venga cancellato dalla mia mente: “Immagino che tu adesso teatro non lo faresti più?”. Gli ho risposto con sufficienza: potrei liberarmi. E così il Libanese non solo riempì le piazze, ma anche le platee. Quel professore e quel teatro hanno fatto in modo che continuassi a fare questo mestiere. Alle volte penso sia colpa sua».
Non era la sua vocazione?
«Sono stato cresciuto a bastone e carota. Roma, quartiere Alessandrino alla periferia della Casilina. Educazione fondata sul dogma quasi imprescindibile del “sei ciò che fai”. Padre chirurgo ortopedico di successo, madre filosofa che investe la sua esperienza sulla speculazione del pensiero. La mia formazione è stata di natura scientifica, fino a che un giorno ho incontrato colui che mi ha liberato dalla gabbia dorata che mi ero costruito e mi ha aperto le porte della recitazione. Non so cosa avrei fatto se non lo avessi conosciuto, ma probabilmente qualsiasi mestiere, sono pur sempre un gran lavoratore».
Dunque, è diventato attore per caso.
«Non direi proprio, ho sempre voluto esserlo. Alle medie lasalliane avevo un professore profondamente innamorato dell’arte della narrazione che fremeva ogni qualvolta decantava l’Odissea interpretando, peraltro con maestria, il ciclope Polifemo. Si chiamava fratel Remigio. E io l’ammiravo e sognavo e mi dicevo: lo voglio fare. Ho scoperto che esistono due modi di concepire il mestiere dell’attore: come fuga da sé o come immersione in sé. Per i primi tempi ho modellato il mio modo di essere sulla fuga, arrancando con fatica verso tutto ciò che era più lontano possibile da me. Non capivo che stavo fuggendo dalla mia storia. Poi un giorno un altro incontro mi ha reso nel bene e nel male ciò che sono, l’accettazione di quello che sono, anche del mio buio. La persona che mi ha aiutato è stato Valerio Binasco».
È contento della sua faccia?
«La fisionomia esterna per chi lavora con l’immagine è fondamentale. La faccia è il biglietto da visita e su quella faccia si fonda il pregiudizio di chi ti guarda. Sorrido ogni volta che mi si addita come cattivo, considerando che nasco come attore brillante. Credo di aver lavorato sin da piccolo per proteggermi e il mio carapace ha assunto le fattezze di questa protezione».
Dove nasconde la dolcezza, se esiste?
«Forse la racchiudo nella carezza dell’ascolto. Io credo che la mia più grande dolcezza stia nella capacità di ascoltare gli altri. Oggi sembra scontato ma non lo è per nulla».
Dentro la balena come Giona, leggeva. Quanto sollievo terapeutico deve ai libri?
«I libri sono i ricordi e i mondi che uno scrittore mette generosamente al servizio di estranei. Credo sia la testimonianza massima della necessità dell’uomo di condividere. La testimonianza che siamo animali sociali. Mia madre, direttrice di biblioteca, ci ha cresciuto a libri e cucchiarella. Di lì mio fratello e io siamo diventati feticisti per fortuna solo dei primi».
Faccia un viaggio nella sua biblioteca privata e scelga fior da fiore.
«Il genere letterario è per me racchiuso nelle fasi della vita. Per essere chiaro Lester Bangs nella sua biografia giornalistica musicale parte dal punk, attraversa tutti gli sviluppi melodici fino a ritornare al punk. Come la crescita dell’individuo. Bimbo via via fino a tornare, nella fase anziana, all’infante ma forte di tutto il suo percorso. Le cito tre libri: Il mondo di Sofia per la potenza salvifica del pensiero, Delitto e castigo per ingaggiare la lotta infinita con il senso di colpa, Pastorale americana per trovare gli strumenti di dialogo con la mia ferita primaria. Adesso mi sono imbattuto in Irvin David Yalom. Era tempo che volevo affrontarlo, ma la paura di perdermi nei meandri della verità mi ha sempre bloccato. Una frase mi colpisce sempre come un tamburo nel petto: quanto siamo disposti a sopportare la verità? Sogno un mondo in cui l’uomo non debba più essere schiavo delle fragilità altrui».
Legge mai come se recitasse?
«Per me la lettura è sempre ad alta voce. Il suono ci mette in connessione con noi stessi e ci regala emozioni indescrivibili, molto spesso inaspettate. Per questo credo che l’omaggio d’amore più bello mai scritto lo dobbiamo a Franco Califano: mi rivolsi ad un libro come una persona».
Lei sta sempre con i cattivi?
«Credo sinceramente che il parteggiare per i cattivi sia spesso la conseguenza del piattume del protagonista. Molto spesso questo povero cristo ha il compito di portare avanti la storia, quindi assume le sembianze di un essere quasi senza forma in cui la parola fascino trova ben poco spazio. Pensi a Romeo. Amleto invece è interessantissimo perché non è un personaggio positivo. Mi spiace per Rousseau, ma non credo che l’essere umano sia per natura buono. L’essere umano è per natura profondamente egoista. Quando ho letto per la prima volta Pastorale americana, su un capitolo di scontro dialettico tra due fratelli, mi sono bloccato per ore. Quelle parole suonavano le mie corde della commozione a tal punto che ho dovuto fare un profondo sforzo di training autogeno per continuare».
Ha mai affrontato la Bibbia?
«La lessi da bimbo. Sto aspettando il momento per leggerla davvero. Credo nella spiritualità, ma rifiuto un’imposizione dogmatica fondata sul mistero del perché sì. Cerchiamo tutti qualcosa, non so se la si possa chiamare felicità. La felicità è uno stato d’animo che dipende in maniera soggettiva da una serie di variabili che affiancano democraticamente i più alti valori ideali e morali al dosaggio ormonale presente in quel particolare momento nel sangue. Patrimonio genetico, volontà, caso, fortune, sfortune: tutta una serie di ingredienti che mutano di continuo il loro mix.
Difficile dire cosa sia la felicità e quando la si percepisca e se i cattivi sono più felici dei buoni e gli egoisti più degli altruisti. Io sono felice quando capita e di solito dura finché dura».
Goffredo Parise diceva lo stesso dell’amore. Il suo Libanese è un traditore?
«Tradisco almeno ogni 35 secondi. Tradisco prima di tutto me stesso, sono l’esempio vivente del tentativo fallibile della volontà che scade nella miseria della velleità».
La miglior battuta dell’ottavo re di Roma?
«A ma’ nun te dovrai più vergognà de me! Credo spieghi tutto».