Corriere della Sera, 8 agosto 2021
Lucia Ronchetti, prima direttrice della Biennale Musica
Non è una professione seria quella del musicista, le disse suo padre. «Nella mia famiglia sono stata profondamente discriminata in quanto figlia femmina, destinata, secondo i miei genitori, a diventare, come compositrice, una parassita della società», dice Lucia Ronchetti, nata a Roma nel 1963, la prima direttrice artistica in 90 anni di Biennale musica.
Ha una storia dove c’è solo da imparare. «Sono cresciuta alla Cecchignola, periferia romana, in una casa spoglia di libri e di qualsiasi possibilità di una vita diversa. Mi piaceva studiare, i vicini erano Mario e Leni, una coppia di anziani musicisti ridotti in povertà, passavo giornate intere nel loro piccolo appartamento, in quella che chiamavo la stanza segreta con un clavicembalo rotto rovesciato di cui suonavo le corde staccate dove si impigliavano i miei capelli che Leni districava. Sembrava un film sulla musica di John Cage, o di vivere Le Metamorfosi di Ovidio…». Lucia racconta con ironia e orgoglio la sua vita di prima e di oggi. «Papà era un medico di base con una sua etica, aiutava le persone meno abbienti, il guadagno era qualcosa di cui quasi vergognarsi. E io dovevo diventare come lui. Mamma era una casalinga che si faceva trascinare in quella esistenza difficile senza ribellarsi alla propria condizione sociale».
Così Lucia si rifugiava dai vicini di casa che le diedero i primi rudimenti musicali. «A 16 anni, in un periodo di depressione in cui non sapevo bene cosa fare della mia vita, decisi di studiare composizione. Prima dell’università mi iscrissi al Conservatorio di nascosto ai miei genitori e quando mi diplomai glielo comunicai. Mio padre disse: ora ti puoi iscrivere a Medicina. Andai dal professor Pietrobelli, con cui mi ero laureata in Storia della musica. Devo scappare, gli dissi. Lui scrisse in quattro lingue delle lettere di presentazione. Conclusi la formazione a Parigi, la Sorbona, l’Ircam. Ma possibilità reali di lavoro le ho avute in Germania. La celebre musicologa Helga de la Motte mi propose di andare in residenza all’Akademie Schloss Solitude di Stoccarda, in un castello».
Ronchetti non ha più smesso di scrivere musica mettendo a frutto esperienze manuali lontane, quando lavorava come falegname, «e il linguaggio gestuale e l’attività della materia nello spazio sono fondamentali»; quando ricamava con delle anziane che cantavano canzoni della loro infanzia. «Sono stata una bambina lavoratrice». Ha un catalogo di 500 pezzi, alcuni li ha depennati. È molto richiesta all’estero, ha avuto anche i suoi fallimenti «ma i critici tedeschi sono liberi pensatori che contemplano il rischio, la possibilità di sbagliare e di rifarti la volta dopo». Più tardi, in un tratto in cui la sua vita tornò in salita, Lucia scoprì il pugilato: «Avevo troppe mancanze, scaricavo le frustrazioni, l’aggressività e la rabbia che fanno parte di me nella boxe. Mi ritrovo nella parabola di riscatto della pugile Irma Testa che ha vinto la medaglia alle Olimpiadi di Tokyo. Siamo tutte sorelle virtuali».
Oggi Lucia, la musicista-pugile, è salita sulla giostra della Biennale: «Ho proposto il mio programma al presidente Cicutto, è il riconoscimento più ambito, un’occasione unica di dialogare con le altre discipline artistiche. Sono la prima donna, spero di non essere l’ultima. In Germania le compositrici sono tante, non c’è differenza con gli uomini». Il suo rifiuto delle radici della polifonia vocale italiana («dovuto all’imitazione stilistica del passato imposta in Conservatorio»), oggi lo governa e ne ha fatto il perno del suo programma alla Biennale, al via il 17 settembre con grandi affreschi: l’afro-americano George Lewis che rielabora aspetti del madrigale rappresentativo, l’installazione sonora di Christina Kubisch, l’opera processuale dell’italiana Marta Gentilucci.
Sì, davvero una incredibile storia di riscatto. Oggi Lucia ricorda i vicini di casa poveri («nella musica puoi uscire di scena così, quasi non te ne accorgi, e ti ritrovi senza nulla»); i genitori («fino all’ultimo sono stati negativi con me, e io con loro»); la boxe («un dialogo fisico che ti trasporta in un altro mondo»).
E infine il successo: «Il maggiore è stato durante il Covid, a Francoforte, con la mia opera Inferno ispirata a Dante» . Il Leone di Venezia della Biennale davanti a lei stempera il ruggito in un sorriso.