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 2021  luglio 07 Mercoledì calendario

Biografia di Edgar Morin

Edgar Morin, nato Edgar Nahoum a Parigi (Francia) l’8 luglio 1921 (100 anni). Sociologo. Filosofo. Grande intellettuale del Novecento, erede diretto dello scetticismo di Montaigne e dell’enciclopedismo illuminista. È stato partigiano nella resistenza francese, storico e geografo, appassionato di cinema, di microfisica, ecologia, poesia e politica. Ha pubblicato più di 70 libri – l’ultimo Leçons d’un siècle de vie, i primi di giugno – ricevuto lauree honoris causa da 38 università del mondo. È il padre del pensiero complesso: «A forza di ringiovanire, invecchiamo, e il processo di ringiovanimento si sgretola, va in tilt, infatti, viviamo con la morte, moriamo con la vita» [Morin, Introduzione al pensiero complesso]
Titoli di testa «Il Grande Vecchio è sempre giovane» (Alberto Mattioli).
Vita Luna Baressi, «la ragazza che sarebbe diventata mia madre, aveva avuto dei problemi cardiaci a causa dell’influenza spagnola. Quando si sposò le dissero che non poteva avere figli perché il parto le sarebbe stato fatale. Rimase incinta una prima volta e abortì. La seconda volta l’abortista clandestina le diede dei prodotti che non funzionarono. Il feto resistette. Così sono nato io» [ad Anais Ginori, Rep] • Dice di essere nato morto: «La notte dell’8 luglio 1921, al numero 10 di rue Mayran, il dottor Schwab estrae dal ventre della donna un piccolo nato morto, apparentemente strangolato dal cordone arrotolato attorno al collo. Prende il neonato per i piedi e non smette di schiaffeggiarlo, senza mai fermarsi, per un tempo così lungo da far perdere ogni speranza, fino a che uno strillo annuncia il ritorno a una vita che sembrava essere sparita. Fino a oggi mi è rimasto questo trauma legato alla nascita, e fino alla fine dei miei giorni continuerò ad avere improvvise sensazioni di strangolamento che possono essere alleviate solo da un respiro liberatorio proveniente dalla profondità dei miei polmoni. Può darsi che, resistendo al trauma prenatale, io abbia acquisito una “resilienza”, come si dice oggi, e in ogni caso una forte capacità di resistenza alla morte» [Edgar Morin I ricordi mi vengono incontro Raffaello Cortina] • Suo padre, Vidal, era un commerciante ebreo di Salonicco che si dichiarava laico e di origine neo marrana • Da piccolo vive in simbiosi con la mamma, la accompagna nelle sale da tè o a fare shopping • Da ragazzo, Morin ama la lettura, il cinema, l’aviazione e il ciclismo • A dieci anni muore la madre, il padre si sposerà con la di lei sorella Corinne: «Ma secondo me, erano amanti ben prima che mia madre morisse» [a Jean Birnbaum, Le Monde] • A 13 anni, con la manifestazione antiparlamentare del 6 febbraio 1934, scopre la politica • «I traumi sono la perdita della madre, a dieci anni, e l’Occupazione, a diciannove. È nella Resistenza che Edgar Nahoum diventa Morin, il suo nome di battaglia. Ed è lì che cominciano i suoi guai di comunista eretico contro un partito ancora stalinista, ben prima che, con i fatti d’Ungheria, le fughe diventino esodo» [Mattioli, Sta] • Nel 1946 pubblica il suo primo libro L’An zéro de l’Allemagne • Fino al 1947, condivide un appartamento a rue Saint-Benoît con Marguerite Duras, Robert Antelme, Dionys Mascolo. La sera escono per andare ad ascoltare Boris Vian a Tabou o Juliette Gréco a Vieux-Colombier • «Marguerite cucinava dei pranzi franco-vietnamiti e cene per i Queneau, i Merleau-Ponty, i René Clément, Georges Bataille» [L’Obs] • «Con uno dei suoi migliori libri, Autocritica, l’ex comunista, invece di prendersela con i leader del bolscevismo o del post-bolscevismo (Zdanov, Thorez, Togliatti...), se la prende con le proprie turpitudini. Si sforza di scendere dentro sé stesso e di porsi la domanda: perché mi sono convertito al Partito comunista francese nel 1941, quando già sapevo tutto delle ignominie sovietiche? E perché mi sono “sconvertito” fin dall’inizio degli anni Cinquanta? Con questo libro e con la rivista Arguments, Morin è servito da esempio a una generazione di intellettuali, più o meno giovani, che grazie a lui e ai suoi simili evitarono, in seguito, la trappola delle strutture trotzkiste: esse li avrebbero fatti ricadere senza rimedio nei ghiacciai dell’ideologia pura e dura, dove si sono congelate tante anime belle del XX secolo» [Emmanuel Le Roy Ladurie, CdS] • Appassionato di cinema, entrato nel Cnrs nel 1950, inizia a studiarlo e nel 1956 pubblica Le Cinéma ou l’Homme imaginaire: «Il saggio, considerato da alcuni come fondatore della storia culturale del cinema, è anche una constatazione sul ritardo delle scienze umane nell’interessarsi al dispositivo cinematografico» [Gaulthiers, Le cinéma: une mémoire culturelle] • In I ricordi mi vengono incontro cita una riunione di Arguments in cui «un aristocratico molto stalinista, Galvano della Volpe, condannò una delle cose che avevo detto, ossia che persone di classi sociali differenti potessero avere gusti cinematografici simili; esclamò a più riprese con, nella sua voce irosa, tutta l’indignazione e l’orrore possibili: “Interclassismo! Interclassismo!”. Ciò mi fa venire in mente un altro incidente verificatosi a Firenze verso gli anni 1950-1960. Stavo tenendo una conferenza sul cinema e, a un certo punto, dico: “Mi piace il western”. Questa affermazione fu giudicata mostruosa dal filosofo marxista Lucien Goldmann, che era in sala. Venne verso di me, si impadronì del microfono e spiegò che non si poteva, che non si doveva amare il western, strumento di alienazione e di mistificazione dei popoli» • Nel 1960, Morin viaggia per l’America latina, visitando Brasile, Cile, Bolivia, Perù e Messico, dove viene profondamente impressionato dalla cultura indigena e afro-brasiliana. Tornato in Francia, pubblica L’Esprit du Temps • Anticolonialista, ha fondato nel 1955 un comitato contro la guerra in Algeria • Nel 1956 fonda Arguments, nel 1961, con Roland Barthes e Georges Friedmann, la rivista Communications • «Il 22 giugno 1963, a Place de la Nation, 150.000 spettatori scatenati assistettero al primo concerto gratuito all’aperto organizzato da Salut les copains. Gli idoli dei giovani, Johnny in testa, sono un successo, che degenera in una battaglia campale. Morin conia la parola “yé-yé” per catturare la rivolta giovanile e la formazione di una cultura adolescenziale autonoma, il primo passo del maggio 68» [Armanet, L’obs] • «Un soggiorno in Israele nel 1965, quindi prima della Guerra dei Sei Giorni, mi ha fatto scoprire l’odio tra ebrei e arabi. Ho rinunciato alla mia ricerca di radici in questa nazione. Poi il dominio di Israele sul popolo arabo della Palestina mi coinvolse di nuovo come ebreo, come uno degli ultimi intellettuali ebrei portatori di universalismo e anticolonialismo, quindi ostile alla colonizzazione della Palestina araba. Gli articoli che scrivevo all’epoca su Le Monde, dove non contestavo in alcun modo l’esistenza di Israele, mi fecero chiamare traditore, anzi antisemita» [Morin sull’Obs] • Lo ritroviamo nel 1969 e nel 1970 a La Jolla, in California, ad assistere a un indimenticabile concerto di Janis Joplin, immerso nell’universo hippie delle comunità adolescenti. Morin sa conciliare i piccoli piaceri poetici e le estasi della storia, le estati di Hammamet e la rivoluzione dei garofani in Portogallo» [Armanet, cit] • «Una vita spesa a studiare le trasformazioni della società, guarda con preoccupazione, ma non senza qualche motivo di speranza, il mondo in cui viviamo. [...] Da molti anni, infatti, opere come La conoscenza della conoscenza, Il metodo o L’identità umana vengono lette e apprezzate in tutto il mondo per la loro capacità di analisi che non esita a rimettere in discussione le proprie certezze, rifiuta i compartimenti stagni dello specialismo e fa dell’autocritica uno strumento essenziale per arginare le false illusioni e gli errori della conoscenza. Tale atteggiamento intellettuale è per Morin irrinunciabile, specie di fronte a un mondo che ha un urgente bisogno di trasformazioni radicali, pena la propria autodistruzione: “Quando un sistema non è più in grado di affrontare e risolvere i problemi vitali della collettività, le alternative sono solo due: o crolla o si trasforma. Oggi siamo in questa situazione, visto che gli arsenali nucleari, il degrado progressivo dell’ecosistema, lo sperpero delle risorse naturali, gli squilibri, le intolleranze e le crescenti disuguaglianze tra le diverse parti del pianeta creano una situazione drammatica, dove la possibilità dell’autodistruzione diventa molto concreta”. Tuttavia l’autore dei Miei demoni non vuole lasciarsi andare al pessimismo. Anche perché è convinto che i periodi di crisi non siano solo gravidi di pericoli, ma anche di nuove possibilità: “La crisi può favorire la metamorfosi del sistema, in direzione di una società-mondo più ricca e complessa, una società più umana e giusta, capace di far fronte alla sfida del futuro» [Gambaro, Rep] • «Con Il metodo, Morin tenta di riconciliare le scienze del cosmo, quelle della vita e quelle delle società umane. A prima vista, si poteva credere che questo nuovo metodologo avesse una visione delle cose alla Teilhard de Chardin. Dopo il big bang, l’universo, autodeterminato, autofinalizzato, si lancia verso la complessità, verso la produzione della vita, dell’uomo, del pensiero. Le costanti fisiche più essenziali del cosmo erano state sapientemente regolate fin dall’inizio da qualche ingegnere invisibile (Dio). Questo doveva permettere, in seguito, l’emergere di livelli superiori e complessi e l’affiorare di una totalità pan-cosmica (panteista?) universale che, grazie alla coscienza umana finalmente apparsa, riusciva a considerarsi una sorta di specchio tramite scienze e tecniche d’avanguardia come l’astronomia, l’esplorazione dello spazio, etc. In realtà Morin non condivide necessariamente l’ottimismo beato che una o due generazioni fa era tipico di un Teilhard de Chardin. Il progresso, secondo lui, è sempre marginale, mai centrale: la materia visibile è minoritaria rispetto alla materia “nera”; la vita e il pensiero stesso sulle sue basi cerebrali rappresentano soltanto una parcella infinitamente minuscola del Grande Tutto, la biosfera terrestre è solo un’infima pellicola sulla superficie del pianeta Terra, e la Terra se ne infischia altamente, nelle sue ardenti profondità, di quel che accade in superficie. Età di ferro planetaria, mondializzazione che bisognerà tentare di addomesticare a vantaggio di una umanità contraddittoria; infatti l’“homo demens”, che si chiami Hitler o Saddam, è sempre in riserva per il futuro e pronto a riapparire. Morin non è al riparo dalla disperazione, sfumata però da un certo gusto per la felicità. Pessimista sulla fine dei tempi, egli si augura che l’umanità, fra qualche milione (?) di anni, conosca una fine che non sia quella della zattera della Medusa, ma piuttosto quella del Titanic la cui orchestra suonerà fino all’ultimo, fino al momento del naufragio, quelle sinfonie d’amore, di poesia e di saggezza sulle quali Morin, nel 1997, ha pubblicato uno dei suoi libri migliori. Infatti la saggezza è anche rifiuto dell’odio; quel rifiuto che un cardinale ha recentemente raccomandato agli italiani in occasione della morte violenta dei soldati di Nassiriya. Piuttosto che alle vendette che non si placano nemmeno trent’anni dopo il massacro, Morin si appassiona, per esempio, all’iniziativa della figlia di Aldo Moro che rende visita in prigione agli assassini del padre, per riuscire un giorno o l’altro a perdonarli, per renderli migliori» [Emmanuel Le Roy Ladurie, CdS] • «Non ragiono per certezze, ma per probabilità. La Storia è piena di avvenimenti improbabili» [ad Alberto Mattioli, Sta] • Una grande lezione di vita è anche il libro Mon Paris, ma mémoire (Fayard, 2013). «È un’autobiografia senza rimpianti e senza nostalgie, dove la vita, tutta, passioni intellettuali e amorose, incontri politici e sessuali, cibo e libri, gatti e maestri, viene raccontata partendo dalle molte strade, tutte di Parigi, dove Edgar è nato, dove ha sempre vissuto e dove morirà. La prima Parigi di Morin è quella in bianco e nero delle fotografie di Doisneau, delle canzoni di Edith Piaf, del bal musette accompagnato dalla fisarmonica, del Fronte popolare e delle prime ferie pagate. […] Resta un po’ d’invidia per quella Parigi degli Anni Cinquanta e Sessanta, con tutti i grandi intellos concentrati nel raggio di poche centinaia di metri intorno a Saint-Germain-des-Près e alla Sorbona, anche se Morin non frequenta il cerchio magico della coppia Sartre-Beauvoir. È troppo impegnato non solo a interessarsi di tutto, ma anche ad amoreggiare, in un intrico apparentemente inestricabile di mogli, fidanzate, concubine, amicizie amorose e amori che finiscono in amicizia. Sono le pagine forse più divertenti di queste memorie incantevoli. Soprattutto per il candore sfrontato con cui Morin racconta, infischiandosi del sessualmente corretto fin dai tempi in cui, liceale in piena tempesta ormonale, si era specializzato nella “manomorta” sul métro […]. Parigi cambia, ma resta Parigi. Spariscono le Halles, ma il piacere di fare la spesa nei mercatini, tastando, annusando, contrattando, è sempre quello. E il metro continua a essere l’arteria che pompa il sangue della città, ogni linea con il suo carattere e i suoi caratteristi (un altro capitolo meraviglioso) e Morin che le conosce tutte perché sotto l’Occupazione, in città sotto falso nome, cambiava ogni volta percorso per accertarsi di non essere seguito dalla Gestapo. Anche i parigini si trasformano, magari hanno la pelle più scura. Ma l’identità della città è più forte di chi ci arriva: “Un giorno, in un taxi, l’autista africano ha esclamato, parlando non so bene di chi: ‘Alors moi, ce mec, je l’emmerde!’. E io mi sono detto, affascinato: ‘Ci siamo, è dei nostri!’. Il bancone dei bistrot di Parigi, lui, non è cambiato, e questi luoghi dove si beve e si parla sono altrettanti piccoli forum della cultura parigina» [Mattioli, cit.] «La Parigi della mia giovinezza è stata assorbita, riassorbita, direi perfino abolita nella Parigi di oggi. Rimane nella mia anima la Parigi delle mie passeggiate, la Parigi del mio cuore, la Parigi dei miei amori morti e dei miei amici morti che restano e resteranno vivi in me finché mi resterà un soffio di vita» [Morin, Mon Paris] • «Chi sono? Rispondo: sono un essere umano. Questo è il mio sostantivo. Ma ho diversi aggettivi, di importanza variabile a seconda delle circostanze; Sono francese, di origine ebrea sefardita, in parte italiana e spagnola, in gran parte mediterranea, europea di cultura, cittadino del mondo, figlio della Patria. Possiamo essere tutto questo allo stesso tempo? No, dipende dalle circostanze e quando a volte predomina una di queste identità […] Sono un Tutto per me stesso, essendo quasi niente per il Tutto. Sono un umano tra otto miliardi, sono un individuo singolare e ordinario, diverso e simile agli altri. Sono il prodotto di incontri ed eventi improbabili, casuali, ambivalenti, sorprendenti, inaspettati. E allo stesso tempo sono io, un individuo concreto, dotato di una macchina ipercomplessa auto-eco-organizzatrice che è il mio organismo, una macchina non banale, capace di rispondere all’imprevisto e creare l’inatteso. Il cervello dona a tutti spirito e anima, invisibili al neuroscienziato che analizza il cervello, ma emergenti in ogni essere umano nel suo rapporto con gli altri e con il mondo» • Sulla sua carta di identità ha mantenuto il cognome Nahoum facendo aggiungere «detto Morin» [L’Obs] • «Sono tutto quello che ho incontrato».
Amori Ha avuto quattro mogli, due figlie e tante amanti delle quali è stato «bene amato». La prima, la filosofa Violette Chapellaubeau sposata nel 1945 gli ha dato due figlie: Irène Nahoum e Véronique. Con la seconda Johanne Harelle è convolato a nozze nel 1970 e con la terza, Edwige Lannegrace, nel 1982. I due s’erano conosciuti nel 1961 a Santiago del Cile. Lei però era sposata, con una figlia, e solo 17 anni dopo si ritrovarono in Francia, dove divennero immediatamente amanti: «Eravamo inseparabili, radicati l’uno nell’altra, pur conservando ciascuno la propria personalità. Vivevamo un amore intenso e necessario, fonte continua di gioia e poesia. Con lei la vita quotidiana era un paradiso e la nostra casa un nido di felicità. A dieci anni ho perso mia madre, so cosa significa essere orfano. Alla morte di Edwige ho riprovato le stesse sensazioni, mi sono sentito orfano una seconda volta» [Morin, Edwige, l’inséparable Fayard]. Edwige, morì nel 2008 e nel 2009 Morin conosce l sociologa Sabah Abouessalam, sua quarta moglie dal 2012, che con lui ha scritto L’homme est faible devant la femme e da ultimo, nel 2020, Cambiamo strada. Le 15 lezioni del Coronavirus, Raffaello Cortina: «Un minuscolo virus apparso all’improvviso in una città cinese molto lontana ha creato un cataclisma globale» • «Non ero un buon figlio o un buon padre, ma ero un marito amato e amorevole».
Titoli di coda «Non sono tra quelli che si sono costruiti una carriera, ma tra quelli che hanno vissuto una vita» [Incipit de I miei demoni].