10 giugno 2021
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Biografia di Salvatore Settis
Salvatore Settis, nato a Rosarno (Reggio Calabria) l’11 giugno 1941 (80 anni). Archeologo. Storico dell’arte. Saggista. Accademico. Presidente del Consiglio scientifico del Museo del Louvre di Parigi (dal 2011). Già direttore della Scuola normale superiore di Pisa (1999-2010) e del Getty Center for the History of Art and the Humanities di Los Angeles (1994-1999). «La bellezza non salverà il mondo se noi non salviamo la bellezza» • «Famiglia della media borghesia calabrese: mio padre era segretario comunale, mia madre aveva studiato alle magistrali». «“Avevamo possedimenti per produrre olio e grano. Ma una parte di quella campagna era in una zona archeologica. Lì ho avuto il mio apprendistato. Il nonno […] era ispettore onorario di una vasta zona che ricomprendeva una colonia sotto l’area della Locride. […] Ricordo quando mio nonno mi portava a passeggio spiegandomi i frammenti di antiche anfore che raccoglievo da terra. […] Aveva conosciuto Paolo Orsi, sovrintendente a Siracusa e straordinario archeologo. Fu, credo, il primo a occuparsi degli scavi in Sicilia”. I suoi genitori condividevano la sua passione? “A mio padre piaceva questo interesse, così raro in un adolescente. Ma, da segretario comunale, sperava in un figlio avvocato. Gli dissi che avrei voluto seguire un’altra strada”. Quale? “Uno zio, che gestiva degli appalti in Toscana, mi portò in visita a Pisa. Ricordo che ci fermammo anche davanti alla Normale. Lui disse che lì avrei dovuto fare i miei studi, sottintendendo che sarebbe stato il solo modo per soddisfare la mia passione per il mondo antico. Si accedeva per concorso. Oltretutto molto selettivo. Quando dissi a mio padre che quella sarebbe stata la mia scelta, vidi una certa delusione. E allora gli proposi un patto. Gli dissi che, se non avessi avuto l’ammissione, avrei seguito il suo consiglio, iscrivendomi a Giurisprudenza a Messina”. E lei lo vinse. “Con un anno di anticipo. Nel 1959, a 18 anni, mi iscrissi a Lettere”. Era il periodo in cui la Normale annoverava grandi figure. “Tra tutte spiccava un nome a molti sconosciuto: Eduard Fraenkel, grandissimo filologo, ebreo fuggito dalla Germania, emigrò prima in Inghilterra, insegnando a Oxford, e poi agli inizi degli anni Cinquanta venne a Pisa come visiting professor. Ricordo Augusto Campana, grande paleografo, e Vittorio Bartoletti, papirologo; Emilio Gabba, frequentai un suo corso su Tucidide; il medievista Arsenio Frugoni, di cui avrei sposato la figlia Chiara. E poi ricordo Luigi Russo, già in decadenza, con evidenti problemi di memoria. Un mese l’anno veniva da Chicago Arnaldo Momigliano per tenere le sue meravigliose lezioni di storia antica. E poi c’era la memoria ancora viva di Giorgio Pasquali, anche se Momigliano non lo amava per la sua adesione al fascismo”. Lei chi frequentava? “Due persone, tra le tante, mi restano impresse: il grande matematico Ennio De Giorgi, un uomo solitario con una voce chioccia, cui piaceva confrontarsi con i giovani letterati. E Sebastiano Timpanaro, cui diedi da leggere i miei primi saggi di filologia: sia lui che la madre me li restituivano con dei commenti molto pertinenti”» (Antonio Gnoli). «Strinsi un’amicizia profonda con Carlo Ginzburg, figlio dell’aristocrazia intellettuale. La Normale è davvero una scuola d’élite su base egualitaria». «Alla fine cosa è stata per lei la Normale di Pisa? “La messa a punto di un metodo di studio e delle basi per le mie conoscenze del mondo antico. Credo non ci sia stato apprendistato migliore”» (Gnoli). «Laureato nel ’63, docente nel ’69, ha il passo di chi non ha tempo da perdere. […] Riconoscimenti accademici e premi, come il Viareggio vinto nel ’78 con un saggio su Giorgione, La Tempesta interpretata (Einaudi). […] Nel ’94 diventa direttore del Getty Center, il più ricco museo del mondo, dal cui consiglio d’amministrazione se ne era andato Federico Zeri, dopo l’acquisto di una statua greca che riteneva falsa. Inutile dire che i fatti, poi, gli diedero ragione. Settis considerava Zeri un maestro. Ci accadde di chiedergli se l’avvicendamento non creò problemi, e la risposta fu: “Per nulla. Solo una volta, quando gli scrissi per errore su carta intestata del Getty, mi supplicò di non farlo mai più, perché aveva avuto, disse, ‘un vero choc’”. Resta in California otto anni» (Mario Baudino). «Quel contesto mi è stato molto utile per riflettere su affinità e differenze fra la ricerca nei musei e la ricerca negli ambienti accademici o in un istituto dedicato alla ricerca come quello che allora dirigevo. Più brevi, ma egualmente istruttive, sono state le esperienze che ho fatto a Oxford, tenendo presso l’Ashmolean Museum le Isaiah Berlin Lectures (nel 2000), e poi a Washington, quando ho tenuto le Mellon Lectures presso la National Gallery of Art (2001). Per un decennio non ho potuto più avere esperienze simili, perché assorbito dalla direzione della Scuola normale superiore di Pisa». Nel 2007, «dopo otto anni alla guida della Normale, aveva detto che non si sarebbe ripresentato per il terzo mandato, malgrado il rinnovo dello statuto glielo consentisse. Così una dozzina di professori […] aveva scritto una lettera per invitare il professor Lorenzo Foà, fisico delle particelle, ex direttore del Cern di Ginevra, a candidarsi. Foà, sulla carta, pareva il successore ideale, anche per la regola non scritta dell’alternanza: dopo un direttore della classe di Lettere, toccherebbe a uno di Scienze. Invece, pochi giorni dopo, il colpo di scena: una ventina di docenti in pressing su Settis convincono il direttore ad accantonare gli altri progetti e a correre per il terzo mandato nella scuola, un mandato reso possibile soltanto grazie al nuovo statuto. È stato proprio Settis a chiedere di alzare il quorum per chi si fosse presentato la terza volta. Foà, appena è tornato a circolare il nome di Settis, si è subito ritirato dalla corsa (i due sono amici, Foà è anche prorettore all’edilizia e per anni è stato vicedirettore della scuola). Nessun altro in piazza dei Cavalieri ha deciso di misurarsi con il direttore uscente» (Laura Montanari). Rieletto non senza polemiche, abbandonò poi la direzione della Normale con un anno di anticipo, nel 2010. «Dopo averla lasciata, nel 2010/11 ho tenuto per un anno la Cátedra del Museo del Prado, esperienza anche questa molto “dentro” la vita di un grande museo. […] Per me è stata una grande sorpresa e un grande onore quando Henri Loyrette mi ha proposto di presiedere il Consiglio scientifico del Louvre: un onore che ho sperimentato di nuovo quando Jean-Luc Martinez mi ha voluto confermare in questo ruolo». «La sua opera più recente si intitola Incursioni. Arte contemporanea e tradizione e ha appena curato la mostra “I marmi Torlonia” per i Musei Capitolini di Roma. Perché si definisce come uno straniero curioso che vaga da un posto all’altro? “Non sono in grado di immergermi in un secolo o in un artista per molti anni, come fanno molti studiosi. Cerco di capire qualcosa, poi sono attratto da altro. Così sono passato dal ’400 all’arte romana o greca, a un’importante collezione principesca come i Marmi dei Torlonia. Qualunque sia la materia, cerco di utilizzare lo stesso approccio filologico, la precisione nel cercare le fonti e l’ambizione di mediare come studioso tra queste e il pubblico”. […] Questa grande collezione fu iniziata da un banchiere romano di nome Giovanni Torlonia e poi è arrivata a oltre 600 pezzi. Perché se ne è occupato? “È la più grande collezione privata di scultura classica al mondo e si è formata alla fine del XIX secolo. Oggi qualcosa del genere, di quella dimensione, ambizione, qualità, è impossibile. Anche nella stessa Roma, questa è l’ultima collezione principesca. Niente di simile è mai stato creato in seguito. Il Museo Torlonia è stato aperto dal primo principe Alessandro Torlonia, ma, per vari motivi, è stato chiuso circa 70 anni fa. Ora le possiamo ammirare di nuovo. […] Questa mostra vuole essere il primo passo verso la riapertura del Museo Torlonia, che sarà, in un certo senso, una joint venture con lo Stato italiano, che si impegna a offrire un edificio alla collezione, che però resterà proprietà privata della famiglia e della Fondazione Torlonia”. […] Nel suo nuovo libro collega l’arte antica e contemporanea. Perché? “Il mio punto di partenza è un paradosso. Da un lato è comune pensare che l’arte contemporanea non abbia nulla a che fare con quella del passato. D’altra parte, tutti sanno che molti artisti utilizzano frammenti del passato, per cui usiamo parole come ‘citazione’, ‘menzione’, ‘influenza’ e così via. Ho cercato di unificare tutte quelle parole sotto il nome di ‘tradizione’”. La tradizione è normalmente associata a qualcosa di statico. Qual è il suo approccio? “La tradizione può essere molto dinamica ed è parte integrante della creazione artistica, sia nella letteratura che nella musica o nell’arte. Quando Guttuso ha voluto celebrare Pablo Neruda, ucciso dal regime militare in Cile, ha usato come modello la Morte di Marat del pittore Jacques-Louis David. Marat e David erano amici. Erano entrambi rivoluzionari nel 1789/1790 in Francia, e Guttuso pensava a se stesso e a Neruda come a rivoluzionari negli anni ’70 in America Latina e in Italia. Quindi, in questo caso, il significato politico e l’influenza artistica sono la stessa cosa, e questo è un altro fil rouge che uso in tutto il libro”» (Alain Elkann). «La cosa che colpisce, dopo aver letto il suo nuovo libro Incursioni, è la decisa apertura verso l’arte contemporanea. Sfilano i nomi di Marcel Duchamp, Mimmo Jodice, Tullio Pericoli, Giuseppe Penone, Bill Viola, William Kentridge, Dana Schutz. Perché? “Effettivamente la cosa può apparire bizzarra in uno studioso del mondo antico. Anche perché di solito si tende a privilegiare la discontinuità tra mondi così distanti. In realtà, come ho cercato di mostrare – partendo da alcune ricerche che Aby Warburg condusse sulle immagini –, tra antico e contemporaneo non c’è netta frattura, ma una perpetua tensione, un continuo rinvio di forme e di stili”» (Gnoli) • Tra i protagonisti dell’annosa diatriba concernente il cosiddetto Papiro di Artemidoro, «un documento di 32,5 cm per due metri e mezzo, con testi che apparterrebbero a un’opera finora perduta del geografo Artemidoro di Efeso, vissuto tra II e I secolo a.C., più una carta della Spagna, più vari disegni, di parti anatomiche umane e di animali sia reali sia immaginari. Saltato fuori dalla raccolta di un collezionista tedesco all’inizio degli anni Novanta e poi descritto nel 1998 da Claudio Gallazzi e Bärbel Kramer in una prima pubblicazione sull’Archiv für Papyrusforschung, proprio su consiglio di Settis nel 2004 è stato acquistato dalla Fondazione per l’arte della Compagnia di San Paolo di Torino, per 2.750.000 euro» (Maurizio Stefanini). La tesi dell’autenticità del papiro, da sempre strenuamente sostenuta da Settis nonché da numerosi studiosi di tutto il mondo, è altrettanto strenuamente negata da altri, in primis lo storico e filologo classico Luciano Canfora, che nel 2013 demandò con un esposto la vexata quaestio all’autorità giudiziaria, la quale risolse infine di archiviarla, nel 2018, accogliendo la richiesta dell’allora procuratore di Torino Armando Spataro, che vi dichiarava comunque la non autenticità del papiro (pronunciamento definito da Settis «una fatwa»). «A distanza di anni come ripensa a quella vicenda, in cui Canfora sostenne che quel papiro era un falso ottocentesco e alla fine un giudice gli diede ragione? “Sull’autenticità del papiro non ci sono dubbi, né sulla data, cioè gli inizi del primo secolo dopo Cristo. Quindi la vera discussione scientifica non riguarda tanto l’autenticità, ma il fatto che quel papiro non è il resto dell’edizione di Artemidoro, ma un brogliaccio che contiene molte cose, alcune delle quali non hanno niente a che vedere con Artemidoro”. Intende dire che l’opera si presenta come un insieme di cose non del tutto coerenti? “Più o meno è così. Oltretutto è in preparazione un importante volume sui frammenti geografici di Artemidoro, e quel papiro tanto discusso vi sarà incluso”. Ma la sentenza processuale fu a lei sfavorevole. “Così è stata letta da coloro che hanno sposato la tesi di Canfora. Ma non si è trattato di una sentenza, bensì di una richiesta di archiviazione. C’è una bella differenza”. Un’archiviazione, va detto, per sopraggiunta prescrizione. “Tutta la vicenda in Italia è stata affrontata come un puro problema mediatico. Lo stesso procuratore Spataro, nelle oltre trenta pagine di disamina, ha sposato solo il punto di vista di Canfora, ignorando in pratica quanti hanno sostenuto scientificamente l’autenticità del papiro. Diverso è stato l’atteggiamento internazionale, dove la stragrande maggioranza degli studiosi si è espressa a favore dell’autenticità. Nel frattempo dal fondo Oxford sono usciti all’incirca 500 papiri, alcuni dei quali somigliano a quello di Artemidoro, togliendolo dall’isolamento”» (Gnoli) • Tra i numerosissimi riconoscimenti, la nomina a grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, due lauree honoris causa in Giurisprudenza (dall’Università di Padova e dall’Università di Roma «Tor Vergata») e una in Architettura (dall’Università di Reggio Calabria «Mediterranea») • Tre figli – Silvano (morto prematuramente nel 2019, a 54 anni, in seguito a malore), Andrea e Marta – dalla prima moglie, la storica Chiara Frugoni (classe 1940); altri due – Bruno e Nicola – dalla seconda e attuale consorte, la storica della filosofia Maria Michela Sassi (classe 1955) • «Laico e di sinistra, […] è anche grande amico di Adriano Sofri. […] Non ha invece un passato sessantottino. All’epoca studiava sodo» (Baudino). «Nella mia gioventù sono stato legato al primo Partito radicale. Ma feci in tempo, da studente, ad assistere a una sola riunione. Poi quell’esperienza – che annoverava tra gli altri i nomi di Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Eugenio Scalfari e Marco Pannella – purtroppo si dissolse. Da allora non mi sono più iscritto a nessun partito. Preferisco le idee anche rischiose degli uomini e delle donne alle ideologie e alle convenienze del momento. Preferisco essere contro che a favore. Sì, in questo mi sento ancora un radicale» • Pugnace polemista, ha spesso preso posizione contro la gestione pubblica dei beni artistici e culturali e del paesaggio (soprattutto ai tempi dei governi Berlusconi, con i cui ministri della Cultura pure collaborò, sebbene in un rapporto fortemente dialettico), dedicando a tali temi numerosi libri. «Negli anni Novanta sono stato per sei anni alla Fondazione Getty in California. Il ritorno in Italia è stato traumatico per come si era deteriorato il senso della vita civile. Cominciai occupandomi della vendita del patrimonio culturale. Ne è nato il volume Italia Spa. Ha avuto 150 recensioni, compresi bollettini parrocchiali e quello degli scaricatori del porto di Livorno. Così sono entrato in contatto con tanti piccoli movimenti locali, contro la cementificazione di una salina o la modifica di un palazzo storico. Poi ho scritto un secondo libro, sul paesaggio. Si è ripetuto lo stesso scenario. Mi invitavano parroci, insegnanti delle scuole. Ho avuto 300 incontri con il pubblico. Ho capito che le persone impegnate in vari comitati (ce ne sono 30 mila in Italia: vuol dire che almeno 3 milioni di cittadini ne fanno parte) erano in cerca di munizioni» (a Wlodek Goldkorn). Provvide ulteriormente a fornirne, nel 2012, con Azione popolare. Cittadini per il bene comune (Einaudi), «oltre 230 pagine tra manifesto politico, esegesi delle leggi e del linguaggio che ci governano e suggerimenti per tutti quegli italiani che non vogliono assistere passivi alla “sistematica sottrazione dei loro diritti civili”. […] “‘Azione popolare’ allude all’‘actio popularis’ del diritto romano: il diritto di un singolo cittadino di agire a nome dello Stato, dell’interesse generale, direi oggi”. […] Dove vuol arrivare? “A ragionare sui beni comuni. Siamo figli di una genealogia che viene da lontano, dal ‘bonum commune communitatis’ presente negli statuti medievali delle città italiane. Con la Rivoluzione francese e l’Illuminismo tutto questo si è collegato al discorso dell’interesse generale. Ricostruire quel filo è importante in questa fase, perché con il mio discorso voglio arrivare anche ai cittadini di destra. Ci sono dei valori fondamentali. Ci sono sindaci leghisti bravi e del Pd orribili, per quanto riguarda l’uso del suolo e la tutela del paesaggio”. L’indignazione, vero tema del suo libro, non è antipolitica? “Per me l’antipolitica sono i mercati: la principale forza che è contro la politica. L’antipolitica è quella: poteri occulti anonimi, non controllati né da Stati né da cittadini, e che si circondano di un’aura di sacralità”. […] Soluzione? “Tornare alla Costituzione. Che afferma il diritto al lavoro, all’istruzione (diceva Calamandrei che la scuola è un organo costituzionale), tutela il paesaggio”» (Goldkorn). «Instancabile sostenitore del fatto che città e paesaggio incarnano valori essenziali per la democrazia (la Costituzione italiana con l’articolo 9 – ricorda – è stata la prima al mondo a dare al paesaggio e al patrimonio storico-artistico e archeologico un ruolo di primo piano nell’orizzonte dei diritti del cittadino), Settis ha particolarmente a cuore l’idea che attraverso la cultura si può creare comunità, un tema al quale, oltre ai numerosi saggi sul patrimonio classico e sulla classicità, ha dedicato, tra gli altri, libri come Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi, 2010), Il paesaggio come bene comune (La Scuola di Pitagora, 2013), Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili (Einaudi, 2017) e Cieli d’Europa. Cultura, creatività, uguaglianza (Utet, 2017), quest’ultimo contro i tanti segnali di una crisi che non è solo economica e politica, ma culturale, con il degrado che affligge monumenti e paesaggi e il diffondersi dei ghetti urbani. […] “La bellezza non è solo un concetto estetico: è una misura di vita, un modo di essere, e in un Paese come l’Italia non c’è bellezza senza storia. La bellezza dei nostri paesaggi dev’essere anche la loro qualità rispetto alla salute: non per niente la nozione giuridica di ambiente in Italia risulta dalla convergenza di due articoli della Costituzione, quello sulla tutela del paesaggio (art. 9) e quello sul diritto alla salute (art. 32). È solo un caso che anche il Covid-19 si sia diffuso più a fondo nelle zone dove l’atmosfera è più inquinata dal traffico e dalle industrie?”» (Patrizia Danzè) • Apertamente contrario alla riforma costituzionale Renzi-Boschi (posizione che gli valse il sarcastico titolo di «professorone» da parte dell’allora presidente del Consiglio, che ironizzò anche sulla sua competenza in materia in quanto archeologo), nel 2016 pubblicò Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla (Einaudi). «Per prima cosa contesto l’estensione dell’intervento di riscrittura della Carta: in 70 anni sono stati cambiati 43 articoli, ora ne vogliono cambiare 47 in un giorno solo. Secondo: ci raccontano la fine del bicameralismo, ma l’unico cambiamento è che il Senato non lo eleggiamo più noi. Non dicono che un numero straordinario di leggi avrà lo stesso iter bicamerale, più complicato. Aggiungo che, mentre nel 1946 un apposito ministero della Costituente diffuse milioni di opuscoli spiegando tutto alla radio e sui giornali, ora l’informazione è minima. Si tratta di una riforma confusa, affrettata, scritta coi piedi. Vuol dire che non bisogna cambiare la Costituzione? No, è che non si cambia in questo modo. E allora perché non si fa nulla per applicare l’articolo 4 sul lavoro o l’articolo 9 che tutela il paesaggio? È una riforma strumentale e miope» (a Daniela Paba) • «Si riconosce nel ruolo di intellettuale pubblico? “Non è qualcosa che mi si confà. Lo dico nella convinzione di sentirmi una specie di voce nel deserto”» (Gnoli) • «Signore dai modi gentili e leggermente impacciati» (Goldkorn). «Settis è il migliore studioso italiano di arte antica. […] Qualsiasi cosa dica o scriva, conosce le cose di cui parla: qualità oggi rara in Europa, dove tutti preferiscono parlare delle cose che annusano da lontano o ignorano completamente» (Pietro Citati). «È il perenne outsider, amato fino alla venerazione o detestato a mezza voce. Ruvido, deciso, organizzato, studioso di fama internazionale non solo per l’arte antica, protagonista di epiche battaglie sulla legislazione dei Beni culturali, il professore tira dritto. […] Dinoccolato, look stropicciato da professore americano, sguardo diretto e a tratti ironico, […] è consulente di grandi istituzioni internazionali, ma anche uno dei più accreditati e talvolta spinosi interlocutori della politica. […] Non è un devoto della diplomazia, col risultato che di tanto in tanto gli si rovesciano addosso polemiche di fuoco. […] Non abbozza mai» (Baudino). «Commentatore del Gruppo Espresso, che Pier Luigi Bersani avrebbe visto bene come ministro della Cultura di un suo possibile governo, e che alcuni gruppi editoriali (per esempio Repubblica-Espresso) avrebbero visto molto bene come possibile capo di un governo a trazione democratico-grillina» (Claudio Cerasa). «Guru della setta sovietico-passatista» (Maurizio Crippa) • «“L’idea di considerare che viviamo non in un ambiente neutro ma in una comunità di vita in cui i diritti degli umani, quelli delle piante e degli animali stanno tutti insieme ci dà un orizzonte di cose che possiamo fare o non fare. Sono convinto che questo modo di pensare abbia un grande futuro”. Il paesaggio italiano nella modernità: quale ruolo svolge l’archeologo quando bisogna intervenire con infrastrutture, modifiche e messa in sicurezza del territorio? “In Italia ci sono tante mitologie: quelli che difendono il paesaggio e quelli che vorrebbero cementificare tutto. Un’opposizione che in realtà non esiste. C’è chi dà la priorità al cosiddetto sviluppo a tutti i costi: costruire la Tav anche quando è dimostrato che non serve, aggiungere un’autostrada parallela a quella che già c’è, anche se il traffico non lo giustifica. Nessuna persona di buon senso pensa che il paesaggio non si tocca: il paesaggio cambia, gli alberi nascono e muoiono. Bisogna intendersi sulle regole. Le buone regole, alla base della Costituzione, dicono che ogni volta che sorge un problema nel quale l’interesse economico del singolo confligge con l’interesse della comunità quest’ultima ha la priorità. L’Italia è il Paese con l’incremento demografico più basso in Europa e il tasso di consumo del suolo più alto: c’è qualcosa di storto. L’archeologia è la voce del tempo e dello spazio còlti in mutua relazione. In qualsiasi scavo posso trovare reperti che ci dicono come altri uomini hanno vissuto in quel territorio. Vuol dire che non posso costruire dove trovo un coccio? No, vuol dire che devo pensare prima di farlo. L’archeologia serve a riflettere su quello che facciamo, non basta dire: ‘C’è già l’appalto, si deve fare’. […] Ci vogliono infrastrutture, ma ogni intervento va calibrato fino al punto in cui non si distrugge un orizzonte ecologico di paesaggio, civiltà, bellezza e cultura”» (Paba) • «Si dice che i giovani non siano particolarmente interessati all’arte. Crede che sia vero? “No. Conosco un numero enorme di giovani che non sono meno motivati, meno entusiasti, meno interessati e meno determinati a lavorare sulla storia dell’arte di quelli della mia generazione 50 anni fa”. Si sente ottimista? “Assolutamente sì. Sono stato docente della Scuola normale di Pisa per molti anni. È una scuola d’élite e i miei studenti erano in media particolarmente bravi, ma ho avuto l’opportunità di incontrare persone di molte altre università e in diversi Paesi, tra cui Germania, Stati Uniti, Inghilterra e Francia. Pensare alle nuove generazioni come a una generazione perduta in termini di storia dell’arte è sbagliato”» (Elkann) • «Con che spirito guarda al suo passato? “Mi sembra cortissimo rispetto ai tempi della storia che di solito affronto. Il bilancio pubblico sono i miei libri, la mia ricerca, il mio impegno. Per un bilancio privato non mi ritengo una persona così interessante da offrirmi a modello”» (Gnoli).