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 2021  giugno 23 Mercoledì calendario

Biografia di Renzo Arbore (Lorenzo Giovanni Arbore)

Renzo Arbore (Lorenzo Giovanni Arbore), nato a Foggia il 24 giugno 1937 (84 anni). Musicista. Disc jockey. Conduttore televisivo e radiofonico. Autore televisivo e radiofonico. «Arbore è la Rai. Arbore è la coscienza mediologica della Rai, il primo che ha fatto tv sapendo che essa era anche radio, cinema, teatro, giornale» (Aldo Grasso). «Io nasco […] dalla noia, la peggiore, quella della provincia. Ogni sera, da ragazzi – tutti maschi, perché le donne si ritiravano alle otto –, bisognava inventare qualcosa per ammazzare il tempo. Magari ci fotografavamo il posteriore alla macchinetta della stazione o tiravamo alle lunghe con conversazioni disutili sulle corna dell’avvocato. Ma tutto mi è tornato utile quando, finalmente euforizzato, sono diventato il Renzo Arbore che sono» (a Stefania Rossini) • Famiglia borghese. «In casa, anzi a palazzo, c’è un padre dentista, uno zio sindaco, una nonna nobile, il ricordo di un avo famoso come Carlo Cafiero, anarchico ricchissimo e pazzo, morto in manicomio» (Camillo Langone). Cafiero era la madre, Giuseppina, che però, «“da repubblicana, era diventata monarchica per amore di papà, Giulio. […] La sua fede era sempre stata molto forte e io sono stato educato nel rispetto dei comandamenti”. […] In famiglia il padre rappresentava l’autorità, ricorda. La madre sbrigava le pratiche quotidiane ed era petulantissima con l’educazione» (Luigi Vaccari). «Arbore, qual è il suo primo ricordo? “Mio padre che rientra dal sabato fascista e sbuffa perché non riesce a togliersi gli stivali”. […] Foggia, la vostra città, fu rasa al suolo dai bombardamenti. “Ho esordito come artista nei rifugi antiaerei. Cantavo, con un certo successo, le canzoni friulane che mi insegnava la mia tata Emanuela. Poi, quando si sentiva il rombo degli aerei, passavamo al rosario: ‘Ave Maria gratia plena…’. Alle prime esplosioni la preghiera saliva di tono, come per coprire il fragore. Un giorno all’uscita vedemmo una casa crollata, i morti schiacciati… […] I nazisti portarono via anche mio padre: credevamo di averlo perso”. Poi arrivarono gli americani. “Vedemmo i tedeschi sfilare via, uno a uno, con calma e disciplina. Poi si sentì una musica. Erano le radio montate sulle jeep Usa. Una macchina con la musica! Non avevamo mai visto nulla del genere. E poi i soldati con i piedi sui parafanghi. E i denti bianchissimi dei neri. Non potevamo che diventare filoamericani. Anche se erano state le loro bombe a distruggere la città”» (Aldo Cazzullo). «È stato così, con un puro incantamento, che su Renzo Arbore si è cosparsa Polvere di stelle (Stardust). Lui alla finestra della casa di famiglia nella centrale piazza Giordano. E di fronte Palazzo Frattarolo, sede del comando americano, con un circolo ufficiali da dove usciva una musica ammaliante per mano e fiato di musicisti pazzeschi (tipo Stan Getz) che giravano le basi americane in Europa. Dopo quella contagiosa polvere stellare in pieno dopoguerra, la vita di Renzino non sarebbe stata più la stessa. “Il mio amore per la musica – ricorda – è nato allora. La trama melodica di Polvere di stelle è complessa, un po’ contorta, quasi misteriosa, ma poi sfocia in un bellissimo ritornello: un capolavoro del jazz, scritto da un gigante come Hoagy Carmichael, autore pure del gioiello Georgia on My Mind, portata al successo da Ray Charles”. […] “La famiglia era ritornata a casa dopo essere stata sfollata per tanto tempo a Chieti e Francavilla al Mare, e tutto aiutava a recuperare una certa normalità. Anche la musica. Clarinetto o altri strumenti, ancora non ne suonavo. Però papà, dentista, tenente medico, direttore del tubercolosario di Foggia, era un appassionato melomane. Mamma suonava il piano e mia sorella grande cantava Reginella e altri classici napoletani. Poi c’era la virtuosa banda civica, e mettiamo pure che Foggia è la città di Umberto Giordano: non sono certo nato in un ambiente indifferente alla musica”» (Gian Luigi Paracchini). «Fin da piccolo, ho amato il jazz, […] sui dischi di Louis Armstrong. Avevo preso a imitarlo suonando a quattordici anni una vecchia tromba. Fu il clarinettista Franco Tolomei a prestarmi il suo strumento, a farmelo scoprire e a farmene apprezzare il suono. Nei primi anni Cinquanta fondai insieme ad alcuni amici il “Jazz College” di Foggia. Eravamo una piccola band. In quegli anni a Foggia capitavano jazzisti famosi come Gianni Sanjust e Carlo Loffredo. Imparavo da loro e ascoltando in casa la radio» (ad Antonio Gnoli). «Quando vedeva il padre estrarre il dente dalla bocca del paziente, applaudiva contento. “Per me era come il gol di un calciatore”, racconta Renzo Arbore. […] Renzo avrebbe dovuto fare proprio quel mestiere, ereditando l’ambulatorio paterno. Invece si iscrisse a Legge» (Emilia Costantini). «“Quando mi iscrissi all’Università per studiare Giurisprudenza – 7 anni di leggi ripetute a memoria per strappare una laurea –, scelsi Napoli, preferendola a Roma, che all’epoca pareva la culla del peccato, della perdizione senza ritorno”. La vita sul lungomare? “Una stanza in una casa trafficata, le serate a tirar tardi nei locali suonando, le tasche vuote. Dopo due giorni un conoscente mi portò a cena con Roberto Murolo. Un colpo di fortuna. Per lui avevo un’ammirazione straordinaria”» (Malcom Pagani). «L’inizio, nella mia cameretta ammobiliata di Santa Lucia, fu tristissimo. Mollato da una fidanzata, timido, schiacciato dalla solitudine. Poi approdai in uno strano posto, la Pensione dei Mille. 130 letti. Combattenti, reduci, studenti, monarchici e poi francesi, messicani, ladri di bidet, perdigiorno. Un circo dallo straordinario campionario umano. Per noi provinciali, l’università significava libertà. Cominciai ad assaporarla. […] Renato Carosone diceva che avevo indossato il primo jeans di Foggia e il secondo di Napoli, e, in qualche modo, non mentiva. Con i capelli simili a quelli dei marines e l’abbigliamento da texani in viaggio premio, io e un mio amico andavamo nei cinema campani sognando di essere scambiati per soldati di passaggio: “Two tickets, please”. Se la commessa ci rispondeva “Yes”, era una festa». «Misi su un complessino che suonava nei locali durante i matrimoni. Poi fummo scritturati in un locale riservato ai militari americani della Nato». «Mi laureai nel 1963. […] Non avevo nessuna intenzione di fare l’avvocato, anche se l’approdo in magistratura non mi dispiaceva. Ma toccava studiare troppo». «“Dopo la laurea, papà mi chiese: cosa vuoi fare? Risposi: vorrei fare l’artista. Mi dette un anno di tempo per provare: era un ultimatum, una scommessa”. Scommessa vinta» (Costantini). L’anno successivo, infatti, fu assunto dalla Rai, e si trasferì quindi a Roma, dove giunse, da Foggia, a bordo di una Fiat 500 color acquamarina «intestata a Gabriele D’Annunzio, perché me l’ha venduta il nipote. Quando i vigili mi fermavano e leggevano il libretto di circolazione, pensavano che fosse uno scherzo» (a Tiziana Leone). «Quando arrivò quel giorno a piazza del Popolo, con la sua 500 targata Foggia, era un’altra Roma. Pazzesca. “Fantastica. Appena sceso dall’auto conobbi Gabriella Ferri, che mi portò subito alle Fraschette ai Castelli. In macchina cantava Le Mantellate. Io le cantavo le canzoni napoletane. Quando tornammo lei volle andare al Piper Club. Io non l’accompagnai. ‘Non sai che ti sei perso’, mi disse il giorno dopo. E ci andai subito”. Era la Roma del Piper, di Rosati, degli artisti. “Era finita la Dolce vita, ma era vivacissima. Quel giorno in cui arrivai a piazza del Popolo, da Rosati c’erano, oltre a Gabriella e alla sua partner Luisa De Santis, Manfredi, Gassman, Tessari. Erano tutti là. Chiesi: ma è la festa di qualcuno? No, era sempre così. Andai ad abitare a via Rasella, in una pensione che affittava le camere a ore, su consiglio di un musicista di night: se vuoi spendere poco, vai là»» (Marco Molendini). «Alla Rai lei arrivò su segnalazione della sua dirimpettaia a Foggia: donna Matilde, suocera del direttore generale Bernabei. “È vero. Ma entrai per concorso. Arrivai primo: maestro programmatore”» (Cazzullo). «“Il momento storico coincideva con il boom discografico, e diversi artisti internazionali si riversarono sul nostro mercato della canzone”. Un vettore fondamentale fu il Festival di Sanremo. “L’anno di svolta del Festival fu proprio il 1964. Arrivarono artisti del calibro di Gene Pitney, Paul Anka, Pat Boone, Wilson Pickett, e duettarono con i nostri. L’anno dopo esordii con la trasmissione Bandiera gialla. Fu Boncompagni [Gianni Boncompagni (1932-2017), conosciuto da Arbore al concorso per l’assunzione in Rai – ndr] a darmi l’idea di un programma composto da musiche molto diverse da quelle che allora venivano trasmesse. Ricordo la mia obiezione a Gianni: ‘Ma si potrà fare?’. E lui con molta tranquillità: ‘Si può, si può, vai tranquillo’. Da lì partì il nostro lungo sodalizio radiofonico”» (Gnoli). «“Appoggiati da Leone Piccioni e Maurizio Riganti, mettemmo […] Mina, Modugno, Celentano. E i Beatles, che erano stati schedati come ‘gruppo locale strumentale con difetti di intonazione’”. […] Con Bandiera gialla e Alto gradimento, lei e Boncompagni avete reinventato la radio. “Era il 1964. La radio pareva destinata a soccombere alla tv. Noi vi portammo l’improvvisazione. Il motto di Gianni era ‘Si può fare’. E scoprimmo i giovani, i teenager. Allora da ragazzi si diventava subito adulti: si passava dai pantaloni corti alla cravatta. Noi dicevamo: ‘A tutti i maggiori di anni diciotto, a tutti i maggiori di anni diciotto: questo programma è rigorosamente riservato ai giovanissimi’. Io volevo chiamarlo Basso gradimento. Boncompagni mi dissuase”» (Cazzullo). «Con Alto gradimento abbiamo inventato il cazzeggio: i Gabibbi prossimi venturi, la leggerezza goliardica di Fiorello, tutte le coppie comiche illuminate dei nostri tempi devono a quei tormentoni le loro radici. Eravamo scapocchioni diligenti, volevamo divertirci e divertire, con la pretesa di durare: per questo facevamo satira di costume, non politica, evitavamo le imitazioni e qualsiasi cosa caduca» (a Federico Vacalebre). «“All’epoca, nel ’69, abitavo in via Castiglion del Lago, al Fleming, in un palazzo di soli artisti. Al primo piano c’erano i Primitives, al secondo io e il mio dirimpettaio Alberto Durante, direttore della Ricordi. Al terzo Califano e Mita Medici, al quarto Shel Shapiro, Enzo Maiorca occupava l’attico. Tra Edoardo Bennato che assai sdrucito era appena tornato da Londra, Ornella Vanoni e i Ricchi e Poveri, c’era l’intero arco costituzionale. Lucio [Lucio Battisti (1943-1998) – ndr] e Mogol erano sempre lì e traevano ispirazione da quel che vedevano”. Mettevano quel che osservavano nelle canzoni? “Sapevano tutti i cazzi nostri (ride). L’Anna della canzone omonima era la fidanzata di Durante, e anche Innocenti evasioni era nata a casa mia, perché – diceva Lucio – nell’aria aveva sentito odore di marachella”» (Pagani). «Lo faceste esordire a Bandiera gialla. […] “All’epoca Lucio scriveva canzoni per i Dik Dik e l’Equipe 84 e rifiutava di cantare: ‘Ho una vociaccia, canto peggio di Mogol’, diceva. Gli mettemmo in mano una chitarra. Cantò Per una lira. Fu subito un successo clamoroso”» (Cazzullo). Nel frattempo Arbore – senza Boncompagni – era approdato anche in televisione, con Speciale per voi (1969-1970), programma di intrattenimento e dibattito musicale del Secondo canale Rai. Il primo grande successo sarebbe però venuto qualche anno dopo. «“Il 28 marzo 1976 debutta L’altra domenica, […] il primo contenitore della tv. “Volevamo divertire, informare, incidere. Sposavamo lo spirito di Alto gradimento e il rigore delle scelte musicali di Bandiera gialla con la formula del rotocalco. […] L’altra domenica era una maratona per un pubblico scetato. Sveglio, come si dice a Napoli. All’inizio, un riempitivo dello sport. Poi le sezioni furono separate e il programma sfondò. Tanto che nell’autunno di quell’anno Rai Uno varò Domenica in, il varietà della rete ammiraglia”» (Paolo Baldini). «L’Italia era negli Anni di piombo, la gente di domenica stava in casa, il nostro cazzeggio era salutare. […] Come un novello Mario Pastore scelsi Isabella Rossellini per New York, Françoise Rivière per Parigi, Michael Pergolani per Londra. Silvia Annichiarico per Milano e Milly Carlucci per lo sport. Tanti giornalisti: Gianni Minà, Fabrizio Zampa, Mimma Nocelli, Fiorella Gentile, Irene Bignardi, Patrizia Schisa. Roberto Benigni era il cine-critico improbabile, Andy Luotto parlava da cugino italoamericano, Maurizio Nichetti e Guido Manuli erano i Gasad [acronimo per “Gruppi a sinistra dell’Altra domenica” – ndr], Otto e Barnelli sostituivano l’orchestra classica. Le Sorelle Bandiera, mai volgari, introdussero il tema dell’omosessualità con il Fatti più in là. E riconoscetemi un merito: abolii le vallette mute». «Gli scoop furono tanti. “Per la prima volta vedemmo Michael Jackson in tv: un bambino. Debuttarono da noi Vasco Rossi, che mi fu presentato come il nuovo Battisti, Pino Daniele e Paolo Conte”. Il sipario calò il 27 maggio 1979. Puntata speciale. “Avevamo tutti voglia di cambiare. Le Sorelle Bandiera fecero in tempo a girare un film, L’importante è non farsi notare, presto dimenticato. Più tardi arrivò Il pap’occhio, che invece fu un successo”» (Baldini). «La trama mi vedeva nel ruolo di nascente conduttore della tv vaticana scelto da Giovanni Paolo II in persona, ed era innocente e per nulla blasfema, ma la stampa cattolica ci attaccò e un magistrato abruzzese fece sequestrare la pellicola per vilipendio alla religione. […] Il processo arrivò a Roma, e io e Benigni ci trovammo davanti al giudice Infelisi. Uno tosto. Un duro. […] Roberto camminò a passo svelto e puntò verso il togato per parlargli nell’orecchio. All’uscita, serafico, non fece una piega: “Gli ho detto che il film è così cattolico che tu sicuramente hai preso soldi dal Vaticano”». «Non ci fu assoluzione, ma semplice archiviazione. Perciò la Rai non ha mai voluto programmarlo per paura che potesse essere nuovamente sequestrato» (ad Andrea Cauti). «È vero che Fellini si offese con lei? “Fu terribile. Il pap’occhio gli era piaciuto. Il film successivo, F.F.S.S. Federico Fellini South Story, [la pellicola uscì però con il titolo FF.SS. – Cioè: “Che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?” – ndr] doveva essere un omaggio. Glielo facemmo vedere. Ma lui si dispiacque per la scena in cui il copione volava via dalla finestra mentre andava a fare pipì. Ce lo disse in faccia: ‘Non ci siamo. La cosa migliore è il finale con la musica di Rota’. Una pugnalata al cuore”. Per farvi perdonare lei e Luciano De Crescenzo lo portaste a casa di Lory Del Santo. “E li lasciammo soli. Non abbiamo mai capito come sia andata a finire”» (Cazzullo). A decretare il trionfo di Arbore non fu però il cinema, bensì la televisione. «Quelli della notte rivoluzionò la tv italiana e durò due mesi, esattamente dal 29 aprile al 14 giugno 1985. In tutto, 35 puntate, trasmesse su Rai Due, quando capostruttura era Giovanni Minoli. La Rai aveva bisogno di rinforzarsi sulla seconda serata, dove scorrazzavano indisturbati i canali concorrenti: e così, mentre Enzo Biagi conduceva Linea diretta su Rai Uno, Renzo Arbore irruppe nelle case con la forza dell’improvvisazione. […] Ascolti da fantascienza. […] La cara patria fu invasa dai tormentoni: “I premi in paglia”, “Non capisco ma mi adeguo”, “Non è bello ciò che è bello, ma che bello che bello che bello”, l’“edonismo reaganiano”, il “brodo primordiale”, il “fidanzato Scrapizza”. Un effetto dirompente, una valanga: parlavamo tutti così, citavamo. […] Quei temerari della banda Arbore occupavano lo schermo senza prove e senza copione. Ma sorretti dalla solidità della conoscenza artistica, letteraria, dalla cultura musicale, dall’improntitudine. C’erano, in ordine sparso, Nino Frassica, Maurizio Ferrini, Andy Luotto, Riccardo Pazzaglia, Marisa Laurito, Simona Marchini, Roberto D’Agostino, Giorgio Bracardi, Massimo Catalano, e poi i musicisti, Gegè Telesforo, Sal Genovese, Stefano Palatresi, Gianni Mazza, Antonio (Maiello) e Marcello (Cirillo). Tutti personaggi scelti frequentando locali, set, gallerie d’arte, case di amici. “Dovevano avere la battuta pronta, essere in grado di realizzare una sorta di jam session parlata. Oggi non lo sa fare più nessuno”. Ma come venne l’idea? […] L’inventore racconta che quello era un periodo difficile per lui: la madre malata, “io mi fermai parecchio a Foggia per starle accanto. Dovevo occuparmi anche della sua casa, delle vicende pratiche. Una bella sera, andai a una riunione di condominio. Che tutti destano, sì. Eppure, fu proprio dopo una di quelle riunioni, vivaci e animate nella loro dialettica, che mi venne l’idea del programma. […] La filosofia della trasmissione? Ridere per ridere. Però con amore”» (Alessandra Comazzi). Secondo un’altra versione, invece, all’origine del programma sarebbe una crociera molto movimentata: «I sovietici mi invitarono, in omaggio ai voluminosi trattati di amicizia tra i due popoli, a partecipare ospite a una crociera con fini pubblicitari. “Porta chi vuoi, dicci solo quanti soldi vuoi”. Non volevo andare, poi mi lasciai convincere. “Non desidero denaro, ma vengo con qualche amico”. Ricevuto l’assenso, iniziò la rumba. Il viaggio, per chi lo aveva organizzato, divenne una spedizione punitiva. Ci presentammo in 40. Pianisti di piano bar, saltimbanchi, amici. Laurito, Telesforo, Luotto, Sylva Koscina, Catalano, Sergio Leone. Invademmo i pontili e le sale da ballo di napoletani. Ci divertivamo a suonare nottetempo, improvvisando parodie, con i russi a guardare attoniti. Il meraviglioso prologo di Quelli della notte». «Nella primavera del 1985 Quelli della notte divenne una mania collettiva. “Agnelli ci invitò a Villar Perosa, Pertini al Quirinale. C’era anche Craxi, arrabbiato con il presidente della Rai Zavoli: dopo Mike, Berlusconi aveva portato via pure Pippo Baudo e la Carrà”. Perché lei disse no? “Perché sono figlio della Rai. E per Berlusconi non avrei potuto fare Indietro tutta!, una trasmissione di satira sulla tv commerciale, che con un lessico mussoliniano antivedeva la discesa in campo: ‘Tu nella vita comandi fino a quando/ hai stretto in mano il tuo telecomando’”» (Cazzullo). Tra il dicembre 1987 e il marzo 1988, infatti, «esplodono […] i tormentoni di Indietro tutta!, satira graffiante della tv commerciale, da Cacao Meravigliao a Sì, la vita è tutta un quiz» (Francesco Canino). Breve e sfortunata, invece, la sua esperienza da dirigente Rai: «Quando mi affidarono Rai International, la ribattezzai Rai Italia. Fu l’unico vero fallimento della mia vita: […] arrivò un direttore generale dalemiano, che mandò via quelli che c’erano prima. Purtroppo la Rai è anche questa». «Quando sei stato afflitto non da uno, ma da due successi epocali, entrambi fenomeni di costume al livello di 50 per cento di share, perché tanto fecero Quelli della notte e Indietro tutta!, cominciano i problemi seri. Ti chiedi: e ora? Cosa posso fare più di così? Troppe responsabilità. E poi, nel frattempo, l’intrattenimento tv stava cambiando. […] Allora ho ripreso a occuparmi a tempo pieno di ciò che mi occupa da sempre. La musica» (a Paolo Scotti). Se già nel 1986 Arbore, essendosi rifiutato di condurlo, aveva partecipato al Festival di Sanremo, attestandosi al secondo posto con Il clarinetto – «Decisi di portare una canzone umoristica, perché dopo Carosone non c’era più stata la canzone umoristica» –, e dal 1987 al 1989 aveva condotto su Rai 2 D.O.C.: Musica e altro a denominazione d’origine controllata, nel 1991 fondò L’Orchestra Italiana, «un piccolo fenomeno: un ensemble di quindici solisti che colleziona concerti esauriti in tutto il mondo, con gli spettatori travolti dall’energia di cori, mandolini e melodie napoletane». «La mia orchestra è verace, ma si chiama italiana perché la canzone napoletana è la canzone italiana, oltre che la canzone più celebre nel mondo». «“Abbiamo tenuto 50 concerti l’anno, in tutto il mondo: dalla Russia sovietica alla Russia del Cremlino del 2015, e poi Australia, Cina, Giappone, Sud America, Usa, Francia, Spagna. E ovviamente in Italia: ben 10 volte a Milano. Ricordo un meraviglioso concerto di Natale con Iannacci in piazza Duomo: mi ha commosso cantare con lui Oh mia bela Madunina”. Il concerto che le è rimasto nel cuore? “Nel ’93 la ‘laurea’ al Music Hall di New York, con ospiti grandissimi nomi”» (Maria Volpe). Piuttosto rare negli ultimi anni le sue apparizioni televisive, alla conduzione di programmi perlopiù antologici, tra cui Speciale per me, ovvero meno siamo meglio stiamo (Rai 1, 2005) – che riscosse un buon successo –, Indietro tutta! 30 e l’ode (Rai 2, 2017), Guarda… Stupisci (Rai 2, 2018) e, da ultimo, Striminzitic Show (Rai 2, 2020). Dal 2007, sia pur in modo piuttosto discontinuo, gestisce un proprio canale sul sito internet RenzoArboreChannel.tv, «“che durante il lockdown ha funzionato tanto. Ho trasmesso 50 sorrisi da Napoli: ogni giorno caricavo uno sketch di Totò, Troisi, Salemme. Ho raggiunto 700 mila utenti. E ora ci sto lavorando per nuovi progetti. C’è anche la musica, con tanti generi diversi”. Quando saremo “liberi”, quali sono le prime cose che riprenderà in mano? […] “I concerti saltati dell’Orchestra Italiana: c’erano già dieci date previste. L’ultimo concerto, l’ho fatto ad Assisi: il giorno che chiusero tutti i teatri, rimase il permesso di fare quel concerto. E poi spero di realizzare il programma sui 100 anni di Carosone”» (Volpe). «Molti hanno paragonato questa epidemia a una guerra. È d’accordo? “Da bambino ho visto e sentito l’odore della guerra e ho sofferto anche il coprifuoco. C’era la fame, c’era il nemico, noi bambini non avevamo niente, non c’era la tv, non c’erano i telefonini, ma una noia infernale. Quindi, no, oggi non è la guerra. È certamente dura, ma i bombardamenti erano un’altra cosa”» (Elvira Serra) • «Ha insegnato il sorriso ad almeno tre generazioni di intellettuali finissimi. […] “Eco mi laureò in Goliardia a Bologna, nell’Aula magna: ‘Il suo Clarinetto – cominciò – è un classico del doppio senso’. E io: ‘Anche il suo pendolo, che va di qua e di là perché non ce la fa’”» (Francesco Merlo) • Celibe, senza figli. Oltre cento conquiste all’attivo, alcune relazioni sentimentali (tra le più note, quelle con Gabriella Ferri, Vanna Brosio e Mara Venier, la quale raccontò di esser rimasta incinta di lui e di aver perso il bambino al quinto mese di gravidanza), un unico grande amore: Mariangela Melato (1941-2013), che definisce «la moglie che non ho sposato». «È stata la donna più importante: mi ha dato la ragione interiore, il significato più profondo della vita personale. Pensavamo di sposarci, poi gli impegni artistici dividono per tanti motivi: lei andò in America, io rimasi a Roma, ci siamo allontanati e ci siamo ritrovati negli ultimi anni, con un nuovo fuoco di passione assolutamente ardente». «I suoi amici l’hanno vista andare via, io no. Le ho detto “ci vediamo domani”, e domani non c’era già più». «Da quanto non si innamora? “Da quando non c’è più Mariangela. Dopo di lei, non posso più. La sua perdita è stato il dolore più grande della mia vita, ma è come se ci fosse ancora: se avessi un’altra, le sarei infedele”» (Alessandro Penna) • «Le dispiace non aver avuto dei figli? “Moltissimo. […] Non ce l’ho fatta, ero paralizzato dalla paura”. Paura di che cosa? “Che si ripetesse ciò che è già accaduto nella mia famiglia. Ho un cugino prediletto che […] è nato male. Oggi [nel marzo 2016 – ndr] ha 67 anni e la mente di un bambino di 6. Ho visto il danno che la sua nascita ha fatto a tutta la famiglia. I miei zii e le mie cugine lo hanno assistito con una abnegazione che ha tolto attenzione e affetto agli altri. Per tutta la vita ho temuto di avere un figlio come lui. Vien da lì il mio impegno con la Lega del filo d’oro. Più che a quei ragazzi sfortunati, io voglio bene ai loro genitori che sono capaci di circondare di affetto un figlio che non parla, non vede, non sente. Io non ne sarei capace…”». «Ma ho i nipoti, i ragazzi dell’orchestra e gli amici, i miei “arborigeni”. Con loro non mi sento mai solo» (a Silvia Fumarola) • «Lei è credente? “Lo sono stato, ora meno, forse non più”. Che cosa l’ha cambiata? “Ho visto soffrire fino alla tortura Mariangela Melato, la persona che ho amato di più nella vita. Non confido più nella trascendenza, anche se cerco dei segnali. Alla mia età la cosa più importante è sperare che ci arrivino dei segnali da chi non c’è più”» (Rossini) • Da giovane conobbe Padre Pio. «Andai a trovarlo più volte, ma finì sempre male. Gli chiedevano se dovevo fare l’avvocato o l’artista, e lui, che non voleva essere trattato da indovino, rispondeva: “Facisse ’cchi vole!”. Un giorno gli portai Pippo Baudo. E lui ci mise alla porta. Padre Pio chiese a Pippo se fosse venuto per fede o per curiosità. Lui fu sincero: per curiosità. “E allora ve ne potete ire!”, rispose il santo» • «Mi considero un liberale radicale. Non sono mai stato comunista, sono sempre stato filoamericano: anche al tempo del Vietnam, anche nel 1968». «Non era facile resistere al conformismo, ma mi sono difeso con il jazz. […] Lo sa, che non c’è jazzista al mondo che sia stato comunista? Siamo troppo legati all’idea della libertà e all’America. La musica è libera, e noi con loro. In quegli anni era curioso vedere platee di spinellati di sinistra che ascoltavano incantati jazzisti che la pensavano in tutt’altro modo». «Nelle urne mi confondevo volontariamente e protestavo a modo mio. Una volta votai per Adlai Ewing Stevenson, un idealista pre-kennediano, un democratico che provò a diventare presidente degli Usa e per due volte venne sconfitto duramente da Eisenhower». Un’altra volta, «non sapendo per chi votare, ho scritto sulla scheda “Abramo Lincoln”» • «Craxi mi propose di candidarmi sindaco di Napoli per i socialisti. […] Io mi vestii da donna e con Gigi Proietti mi presentai sul palco intonando Malafemmena alla presenza di Bettino. Lui si divertì e capì che non volevo fare il sindaco» • «Ho avuto grandi dolori, grandi paure. Timori per la salute mia e delle persone a me vicine. Ma sono riuscito sempre a superare i momenti difficili col positive thinking di stampo americano». «La mia generazione è abituata al pensiero positivo perché ha conosciuto la guerra, la fame, la morte» • «Non ho vizi, non fumo, non mi drogo, non bevo più, ma sono affetto da acquistomania». «Vive in una casa, un attico a Roma che prima di lui è appartenuto all’architetto Pier Luigi Nervi, affastellato di oggetti collezionati in anni di viaggi in giro per il pianeta, un autentico bazar: mobili e suppellettili per la maggior parte di plastica, “rapinati”, dice lui, soprattutto in America» (Costantini). «Dalle radio agli orologi, dalle Madonne ai busti (Totò impazza), dai ritratti (prevalentemente i suoi) ai dischi, nulla sembra disporsi seriamente. La cucina […] è l’esempio più sgargiante del suo horror vacui. Uno spazio, in stile tropical-kitsch, con annessa finta vista sul Golfo di Napoli è un’esperienza conturbante» (Gnoli). «Tutto quello che vede nacque come reazione ai mobili pesanti della mia giovinezza, i salotti in legno della borghesia. Facevo lo sberleffo a quel mondo soffocante con le tappezzerie nascoste alla luce che neppure il ’68 riuscì a mandare per aria, ma la mia televisione forse sì» (a Francesco Merlo) • «La vacanza è l’unico sport che pratico» • «Signore meridionale d’antico stampo, aduso alle buone maniere» (Comazzi). «Uomo-simbolo di una bella Italia che non c’è più» (Merlo). «Pioniere e inventore di linguaggi e format diventati pietre miliari della comunicazione di massa di qualità» (Massimo Iondini). «Un uomo che ha condizionato il modo di fare tv, prima ancora radio e musica. E l’ha fatto in modo gentile, educato, con stile diretto e mai cattedratico, sempre sorridente» (Vassily Sortino). «Fiuto e buon gusto gli hanno permesso di attraversare indenne ogni eccesso kitsch, producendo effetti ironici e caricaturali, generando maschere e tormentoni che sono dilagati fuori dei confini catodici per entrare nel linguaggio comune. Questa la sua attualità» (Grasso). «Genio allo stato puro» (Paolo Isotta) • «Essere elitario è stato il punto fermo di tutta la mia vita. Sto istintivamente con le minoranze. Non se ne può più, di sentire che la maggioranza ha sempre ragione». «Cerco da sempre qualità, e, della dittatura dell’Auditel, non me n’è mai importato nulla. Da quando ha giustiziato la diversità, la tv ha abbassato la guardia. Non dico che il mezzo debba essere la decima musa, né offrirsi solo a uno stretto cenacolo intellettuale, ma per me un programma rimane un’operina. Una cosa da immaginare con gusto e ironia». «Non è in crisi la satira: è in crisi l’intrattenimento. È da lì che bisogna partire» (a Nanni Delbecchi). «Oggi per far ridere si fa televisione “contro”: si parla male, si fa satira per finire sui giornali, tutto costruito in laboratorio. A Quelli della notte […] tutto scaturiva dall’allegria e dall’umore del momento. La mia non era “tv contro”: è sempre stata “tv per”». «Bighellono per teatri, ma trovo sempre meno artisti, meno improvvisatori. […] Hanno tutti bisogno del copione». «L’improvvisazione che facciamo noi è quella del jazz: la conversazione al posto della sceneggiatura» • «In fondo, lo temono come ai tempi di Alto gradimento, e infatti lo chiamano per ri-fare e mai per fare… è la ri-Italia del bel tempo andato. Come se Arbore non potesse più scoprire talenti, ma solo rivendicare quelli che ha scoperto, da Benigni in giù: “Un centinaio”» (Merlo) • «Chi è il suo erede? “Fiorello. Perché improvvisa e perché porta l’allegria: lo sento il più vicino a me. Alla radio mi piacciono Lillo e Greg, e mi sento in sintonia con Elio (con o senza le Storie Tese)”» (Fumarola) • «Mio nonno mi ha insegnato una frase, che è entrata nel mio Dna: “Fa’ l’uomo”. E io cerco di farlo sempre». «C’è voluta disciplina per resistere alle suggestioni, alla vanità, alla ricerca della popolarità sproporzionata». «Ho sempre fatto “altro”. L’altra radio, l’altro cinema, l’altra domenica, l’altra orchestra. Nel nome di questo “altro” ho creato mode senza mai seguirle». «“Io mi sento soprattutto musicista. Alla mia bella età, ho scoperto che ciò che ho fatto in tutti questi anni è stato come un unico, interminabile brano jazz per clarinetto. Scegli un tema, lo sviluppi, lo reinventi. In una parola: improvvisi”. […] Quali […] programmi ha per il suo futuro? “Diventare grande. Nel senso di diventare un grande artista”» (Scotti). «La mia filosofia è racchiusa in un proverbio argentino: “Nadie te puede quitar lo bailado”. Nessuno può cancellare ciò che abbiamo danzato. Guardandosi indietro, […] è piacevole farsi abbracciare dal ricordo. Chi ha fatto l’alba cantando La casetta in Canadà con Troisi non può essere scontento».