6 maggio 2021
Tags : Thomas Piketty
Biografia di Thomas Piketty
Thomas Piketty, nato a Clichy (Île-de-France, Francia) il 7 maggio 1971 (50 anni). Economista. Accademico. Attualmente docente presso l’École des hautes études en sciences sociales (Ehess) di Parigi (dal 2000), l’École d’économie de Paris (dal 2006) e la London School of Economics (dal 2015). Saggista. «All’improvviso, grazie a Il capitale nel XXI secolo (Bompiani), libro celebrato da premi Nobel di gran peso, è diventato una star internazionale. Essere una stella al giorno d’oggi, però, vuole dire che la gente non va per il sottile. L’economista-star non è diverso dalla rock-star: chi vede nel suo lavoro un inno contro la disuguaglianza vorrebbe il suo ritratto sulla T-shirt; i critici che giudicano la sua musica stonata metterebbero il disco in soffitta, tra le marcette dimenticate della sinistra Ventesimo secolo» (Danilo Taino). «La lotta di classe è buona, ma la lotta ideologica è ancora meglio» (ad Anaïs Ginori) • Per parte paterna, discendente da una famiglia di costruttori operanti nella zona detta Fosse-aux-Carpes (Draveil, Île-de-France), di ascendenze italiane. «La Fosse-aux-Carpes: […] poesia geografica e scoperta storica. Questi laghi e moli sono antiche fosse di sabbia, sfruttate dalla fine del XIX secolo per fornire a Parigi materiali da costruzione. Tra i loro operatori, i fratelli Piketty, discendenti da un certo Pichetto, un muratore italiano che francesizzò il suo nome. L’economista Thomas Piketty […] proviene da questa linea di imprenditori» (Pascal Charrier). «Nella loro giovinezza i suoi genitori erano militanti trotskisti con Lutte ouvrière, ma lasciarono il partito di estrema sinistra prima che lui nascesse. Come molti giovani radicali che vivevano nella Francia del dopo maggio 1968, furono attratti dalla vita in campagna e vi si trasferirono dalla capitale a metà degli anni ’70. Per tre anni allevarono capre e vendettero formaggio sui mercati di Castelnau-d’Aude, un villaggio vicino a Narbona, nel Sud della Francia. Sebbene nessuno dei due genitori abbia il baccalaureato, il diploma della scuola superiore nazionale, la madre di Piketty in seguito prese lezioni serali per formarsi come insegnante di scuola elementare e suo padre divenne un tecnico di ricerca presso l’Institut national de la recherche agronomique. Entrambi applaudirono quando il leader socialista François Mitterrand fu eletto presidente nel 1981. “Aspettavano da tempo che la sinistra salisse al potere”, dice Piketty. Ma suo nonno da parte di padre, “di estrazione borghese”, votò per il candidato di centro-destra Valéry Giscard d’Estaing, dice. “Come in qualsiasi altra famiglia, alcuni votano a sinistra, altri votano a destra. Li amo tutti!”» (Anne-Sylvaine Chassany). «A 16 anni, Thomas Piketty lasciò Tours per iscriversi ai corsi di preparazione a Parigi e si unì alla Normale superiore due anni dopo. “Ero un bambino”, dice. “Avevo una percezione piuttosto confusa del sociale e della storia. Mi sembrò solo che l’economia politica fosse un buon modo per affrontare questi argomenti”. […] Otterrà il dottorato in Economia presso la London School of Economics» (Irène Inchauspé). «I suoi genitori erano tutt’altro che invadenti, dice. Ebbero poco a che fare con il suo ingresso all’École normale supérieure, una delle “grandes écoles” più competitive della Francia, quando aveva 18 anni, o con il suo insegnamento al Massachusetts Institute of Technology dopo aver conseguito un dottorato di ricerca a soli 22 anni. Ma gli hanno insegnato “l’autonomia, a credere in me stesso”. […] Piketty afferma che il suo interesse per la disuguaglianza si cristallizzò dopo il crollo del Muro di Berlino e la Prima guerra del Golfo. Ricorda di aver visitato Mosca nel 1991 e di essere stato colpito dalle “file davanti ai negozi”. Tornò vaccinato contro il comunismo – “Credo nel capitalismo, nella proprietà privata, nel mercato” –, ma anche con una domanda centrale nel suo lavoro: “Come mai quelle persone avevano avuto così tanta paura della disuguaglianza e del capitalismo nel XIX e XX secolo da creare una tale mostruosità? Come possiamo affrontare la disuguaglianza senza ripetere questo disastro?”. La Prima guerra del Golfo, secondo lui, ha dimostrato il cinismo dell’Occidente: “Ci viene detto costantemente che gli Stati non possono fare nulla, che è impossibile regolamentare le isole Cayman e gli altri paradisi fiscali perché sono troppo potenti, e tutti all’improvviso inviamo un milione di soldati a 10.000 km da casa per consentire all’emiro del Kuwait di conservare il suo petrolio”» (Chassany). Arruolato nel 2000 nel corpo docente dell’École des hautes études en sciences sociales (Ehess) di Parigi, nel 2002 conquistò il Premio al miglior giovane economista di Francia, assegnato dal giornale Le Monde e dal Circolo degli economisti, e successivamente s’impegnò nella fondazione dell’École d’économie de Paris, istituzione nata nel 2006 in aperta competizione con la London School of Economics. Divenutone il primo preside, dovette abbandonare l’incarico pochi mesi dopo, per poter sostenere in qualità di consigliere economico la candidatura della socialista Ségolène Royal alle elezioni presidenziali francesi del 2007, vinte poi da Nicolas Sarkozy. «“Non lo rinnego. Trovo che sia troppo facile non impegnarsi dicendo che si sta aspettando il candidato perfetto. Si trattava di scegliere tra due candidati imperfetti, e ho trovato pericoloso Nicolas Sarkozy”. […] In seguito, le sue proposte di riforme fiscali non hanno trovato molta eco presso i dirigenti del Partito socialista, poco appassionato di elaborazioni accademiche» (Inchauspé). Ciononostante, ancora «nel 2012, insieme ad altri 42 colleghi, ha scritto una lettera per appoggiare il candidato socialista François Hollande, che proprio quell’anno ha battuto alle elezioni presidenziali il presidente in carica Nicolas Sarkozy» (Davide Maria De Luca). Al 2013 data la prima pubblicazione, presso l’editore francese Le Seuil, del suo ponderoso saggio Le capital au XXIe siècle, inizialmente accolto in patria con molta freddezza: fu infatti solo l’anno successivo, in seguito alla diffusione nel mondo anglosassone della traduzione inglese Capital in the Twenty-First Century (Harvard University Press, 2014; di poco successiva la traduzione italiana, Il capitale nel XXI secolo, edita da Bompiani), che il nome di Piketty fu improvvisamente proiettato alla ribalta internazionale. «Piketty dice di aver attirato l’attenzione americana nel 2003 quando, insieme a Emmanuel Saez, un collega economista francese che insegna all’Università della California, ha compilato per la prima volta dati storici sulle persone più ricche degli Stati Uniti. Nel 2009, il neoeletto presidente Obama ha utilizzato il grafico degli economisti francesi, che mostrava che la disuguaglianza era tornata al suo picco del 1929. “Siamo diventati l’obiettivo dei think tank repubblicani”, ricorda. La versione francese del libro ha agito come un teaser per quei critici, secondo lui, contribuendo a spingerlo in cima alla lista dei bestseller di Amazon per tre settimane quando è stato rilasciato in inglese» (Chassany). «Nel 2012, il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz ha pubblicato il voluminoso saggio Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro (Einaudi). Non se n’è accorto nessuno. Due anni dopo, un libro sullo stesso tema firmato da un economista praticamente sconosciuto, con il difetto di essere francese (tutta la ricerca di frontiera è anglosassone), è stato accolto come il contributo più importante degli ultimi decenni: Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty. […] Da quando è uscita la traduzione inglese (l’originale francese era passato quasi inosservato) non si parla d’altro, […] Piketty […] è ormai una superstar del dibattito economico. […] Nel suo libro Piketty parte da Karl Marx e dalla sua tesi che il capitale si accumula all’infinito, ma con rendimenti decrescenti, cosa che porta a conflitti tra capitalisti sempre in cerca di nuove opportunità. Se i rendimenti del capitale però sono comunque maggiori della crescita dell’economia reale, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e la disuguaglianza aumenterà: il rapporto tra capitale e redditi crescerà da meno di 4,5 del 2010 a 6,5 nel 2100. […] Per tradurre i numeri: le nostre economie occidentali non si stanno evolvendo in direzione di una maggiore uguaglianza, le spinte verso la socialdemocrazia e la redistribuzione del Novecento sono state un’eccezione e un’illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Jane Austen e Balzac, in cui non importa quanto lavori: qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio. Perché la ricchezza non si accumula, si eredita. […] Piketty sostiene, forte di analisi quantitative e storiche, che non è stato il progresso a ridurre la disuguaglianza, ma la Seconda guerra mondiale. Soltanto eventi traumatici come una guerra possono bilanciare l’effetto di una tensione profonda dell’economia. Tutto il resto sono palliativi, inclusa la proposta contenuta nel libro di una patrimoniale globale sulle grandi ricchezze. […] Nessuno ha preso sul serio questa ricetta di Piketty: non realizzabile e soprattutto inutile, servirebbe soltanto a rallentare la concentrazione delle grandi ricchezze, ma il meccanismo descritto dall’economista francese sembra invincibile. […] Piketty è un economista atipico, che attinge a letteratura, filosofia e storia del pensiero economico, ma non dimentica equazioni e serie storiche, che sono la premessa (necessaria ma non sufficiente) per sostenere una tesi e non limitarsi a esprimere un’opinione. Risale molto indietro nel tempo, usando i dati sull’imposizione fiscale invece che soltanto quelli sui redditi, così da riuscire, con qualche semplificazione, a confrontare la ricchezza in epoche molto distanti tra loro. Paul Krugman, premio Nobel e coscienza collettiva dei liberal del mondo e soprattutto di quelli che leggono il New York Times, si è entusiasmato: ecco una valida spiegazione teorica del perché negli ultimi decenni la disuguaglianza è aumentata tanto. Finito l’effetto livellatore della guerra, il capitale ha corso più dell’economia. […] Piketty ha cambiato la scienza economica, sostiene Krugman. Di sicuro è arrivato al momento giusto: dopo sette anni di crisi, in tutto il mondo gli economisti tirano un sospiro di sollievo. Finalmente c’è una nuova narrazione che spiega cosa sta succedendo. E assolve tutti. I ricchi che si arricchiscono, i politici che non fanno abbastanza politiche redistributive, gli imprenditori che non investono nell’economia reale, le banche che non prestano. Piketty ha aperto un dibattito» (Stefano Feltri). «L’ipotesi dell’autoregolazione del sistema economico è del tutto illusoria? “Non esistono soluzioni naturali. Il sistema da solo non riduce le disuguaglianze. L’errore dei liberali è di credere che la crescita da sola possa risolvere ogni problema, favorendo la mobilità sociale. In realtà non è così. Le disuguaglianze restano, e anzi si accentuano. In passato, per ridurre le disuguaglianze e mettere un freno alla concentrazione dei capitali si è fatto ricorso alle imposte sul reddito e sulle successioni. Ciò ha permesso di allargare la base sociale su cui poggia il patrimonio globale. Il che dimostra che per crescere non c’è bisogno della grande concentrazione patrimoniale del XIX secolo né di penalizzare la classe media”. […] Le leggi dell’economia sono spesso state assimilate a delle leggi di natura indiscutibili, lei invece sostiene il primato della politica sull’economia. “Certo. Il mercato e la proprietà privata hanno certamente molti aspetti positivi, sono la fonte della ricchezza e dello sviluppo, ma non conoscono né limiti né morale. Tocca alla politica riequilibrare un sistema che rischia di rimettere in discussione i nostri valori democratici e di uguaglianza. La politica però può intervenire in maniera intelligente o distruttrice. Da questo dipende il nostro futuro”» (Fabio Gambaro). «Come si potrebbe redistribuire la ricchezza? […] “Penso che l’intervento migliore sarebbe sul livello di tassazione. Negli Stati Uniti, tra il 1930 e il 1980, il tasso marginale d’imposta sui redditi più elevati è stato in media all’82% con punte superiori al 90%, e di certo non ha ucciso il capitalismo americano, anzi la crescita economica di quegli anni è stata molto più forte che dal 1980 a oggi: quando è arrivato Ronald Reagan, e il tasso marginale è passato, dal 1980 al 1988, dal 70% al 27%”. […] Per molti il suo libro è un manifesto politico. Ha ambizioni di questo tipo? “No, assolutamente. La mia ambizione è studiare e scrivere. Ho il massimo rispetto per chi fa politica, ma non è il mio mestiere. Voglio cercare di far circolare le idee: credo che sia il miglior modo in cui posso aiutare la democrazia”» (Giuliano Balestreri e Raffaele Ricciardi). «Piketty è diventato profeta in patria soltanto dopo essere stato bagnato dal successo globale, trainato dal mercato americano. La Harvard University Press si è risollevata dopo anni di malagestione e bilanci in rosso praticamente soltanto grazie a quel libro» (Mattia Ferraresi): dalla sua uscita, si stima ne siano state vendute oltre tre milioni di copie. Nel 2019 Piketty ha pubblicato, ancora presso Le Seuil, un nuovo, grande studio, Capital et idéologie (Capitale e ideologia, La nave di Teseo, 2020). «Spiega Piketty che Il capitale nel XXI secolo, il libro precedente che lo ha reso famoso, mostrava fondamentalmente come le due guerre mondiali abbiano ridotto fortemente le diseguaglianze ereditate dall’Ottocento, che poi però hanno ripreso a salire in modo inquietante dagli anni Ottanta in poi. L’economista riconosce che quell’opera si concentrava troppo sull’Occidente. “In questo nuovo libro invece allargo lo sguardo: studio anche le società schiaviste, coloniali, comuniste, il sistema delle caste in India, i casi di Brasile, Cina, Russia”. Soprattutto, ed è questo il cuore del nuovo Capitale e ideologia, Piketty sostiene che la diseguaglianza non è un prodotto naturale e inevitabile dell’economia, ma una costruzione politica. “Ogni società ha bisogno di raccontarsi una storia plausibile per spiegare le diseguaglianze, giustificare i gruppi sociali, le disparità che riguardano il fisco, la proprietà, l’educazione. Si pensa spesso che le diseguaglianze del passato fossero per forza ingiuste e dispotiche mentre quelle attuali sarebbero frutto della meritocrazia e del dinamismo. Io non ci credo”. Se i signori medievali vengono associati all’arbitrio e a soprusi scomparsi, i miliardari contemporanei cercano di far credere – e spesso ci riescono – che le loro ricchezze siano la giusta ricompensa per talento, capacità, impegno. Tutta ideologia a posteriori, secondo Piketty, che vede nel moderno mantra della meritocrazia abbracciato anche dalla sinistra la tecnica più efficace per giustificare divari di ricchezza in realtà ingiustificabili» (Stefano Montefiori). «Nel mirino di Piketty c’è quell’1% della popolazione che continua ad accumulare oltre metà del patrimonio lasciando agli altri solo le briciole. Qualcuno lo accusa di voler sostituire la lotta di classe con la lotta delle percentuali. Piketty non se ne cura e rifiuta l’etichetta di novello Marx. “Penso che i rapporti di forza non si costruiscano più attorno al sistema produttivo ma siano organizzati intorno a una vera e propria ideologia che dobbiamo decostruire”» (Ginori). «Piketty se la prende con la “sacralizzazione della proprietà”, accelerata dal reaganismo (che “considerava i miliardari i salvatori del mondo”) e dal fallimento dell’esperimento sovietico (“il postcomunismo ha favorito l’ipercapitalismo”). Ma allora, oggi, che fare? A differenza di un socialismo sovietico gestito da uno Stato potente e onnipresente, bisogna procedere verso un “socialismo partecipativo”. Questo si applica innanzitutto grazie a una “proprietà sociale”. Occorre sviluppare la cogestione nelle imprese, già sperimentata in Germania e nei Paesi nordici. Nelle grandi aziende, anche il più grosso azionista non potrà disporre più del 10% dei diritti di voto in assemblea, e il 50% andrà in ogni caso ai dipendenti. La proprietà, poi, diventerà temporanea, grazie a un’imposizione davvero progressiva, dallo 0,1% sui piccoli patrimoni (fino a 100 mila euro) al 90% oltre i due miliardi. Dire (come in Francia ha fatto Macron) che i più ricchi debbano essere tassati meno, perché investano e rimettano in circolo la loro ricchezza, è per Piketty un controsenso, come dimostra il fatto che da Reagan in poi gli Usa hanno rallentato la loro corsa. Infine, proprio quell’imposizione fiscale permetterà di creare una “dotazione universale di capitale”, una cifra che ogni cittadino riceverà a 25 anni, il 60% (in Francia 120 mila euro) del patrimonio medio: per comprarsi un primo alloggio, ad esempio» (Leonardo Martinelli). «Thomas Piketty, che cosa pensa dello stato del mondo ai tempi del Covid? “Mi sembra che l’opportunità del mio approccio sia confermata. La crisi del coronavirus ha fatto emergere in modo ancora più evidente la violenza delle diseguaglianze, che esisteva anche prima ma si è approfondita. Di fronte alla malattia, siamo ancora più diseguali, c’è un problema di accesso alle cure, di tagli al sistema sanitario”. E il confinamento? “La quarantena ha mostrato diseguaglianze estreme. Siamo stati chiamati a restare tutti in casa, ma molti, una casa, non ce l’hanno, e sono rimasti per strada come sempre, altri hanno trascorso due mesi prigionieri di appartamenti microscopici, altri ancora hanno goduto delle loro grandi case con giardino. L’epidemia ha amplificato e messo ancora più sotto gli occhi di tutti problemi che esistevano già. Il nostro sistema economico va cambiato, non è mai stato così chiaro come adesso”» (Montefiori). «Thomas Piketty è ovunque. Lo senti alla radio la mattina mentre dice che Macron ha aumentato le tasse, anche se l’attuale presidente francese è l’unico che le ha abbassate degli ultimi inquilini dell’Eliseo, e, se c’è una persona che in questo momento le vorrebbe aumentare, questa è proprio Piketty. Lo trovi su France 24 a sdottorare di diseguaglianze e su France Info a dire che i ricchi “devono fare più sforzi”, invocando patrimoniali e supergabelle. […] Piketty sembra aver ingranato una marcia in più e aver assunto una posa jupitérienne, quasi da presidenziabile, o comunque da economista pop con ambizioni politiche. Da anni è la guida del fronte gauchiste anti-macroniano, ma, se fino a poco tempo fa lo sentivamo esprimersi soltanto in materia economica, ora dà la sua opinione su tutto, Piketty. Sul Monde ha messo la firma […] su una tribuna all’insegna del pentimento contro l’Occidente brutto e cattivo, che dovrebbe pagare i suoi debiti per il passato “coloniale e schiavista”: “riparare la storia” rivoluzionando il sistema economico. “Per riparare la società dai danni del razzismo e del colonialismo, bisogna cambiare il sistema economico, avendo come base la riduzione delle diseguaglianze e un accesso egualitario di tutte e di tutti all’istruzione, al lavoro e alla proprietà (anche con un’eredità minima), indipendentemente dalle origini, per i neri e per i bianchi. La mobilitazione che oggi riunisce cittadini di ogni provenienza può dare un contribuito in questa direzione”, scrive Piketty, schierandosi dalla parte di Haiti, che […] chiede quasi 30 miliardi di dollari alla Francia per “riparare” i danni della schiavitù. L’economista, nel suo intervento, lascia anche intendere che i vandali che in giro per il mondo abbattono le statue simbolo di un certo passato non sono così vandali, e che bisognerebbe soltanto aprire un dibattito per “fissare la frontiera tra le buone e le cattive statue”. “Non abbiamo altra scelta se non quella di dare fiducia alla deliberazione democratica per tentare di fissare delle regole e dei criteri giusti. Rifiutare la discussione significa perpetuare l’ingiustizia”, spiega Piketty. Una posizione radicalmente opposta a quella del presidente Macron, che […] ha dichiarato che “la République non cancellerà alcuna traccia o nome della sua storia, non abbatterà nessuna statua”, perché i francesi devono guardare “lucidamente, insieme, la propria storia, la propria memoria” per costruire “un possibile presente e futuro su entrambe le sponde del Mediterraneo”. Non c’è solo Michel Onfray, il filosofo libertario che […] punta a riunire sotto un unico tetto i populisti di sinistra e di destra in vista delle presidenziali 2022. Anche Piketty, ora, è da tenere d’occhio» (Mauro Zanon) • «Durante la sua lunga luna di miele coi mass media, Piketty è stato una sorta di papa Francesco dell’economia: non potevi non citarlo, e, quando lo facevi, non potevi non parlarne bene. Solo che, a lungo andare, per quanto un intellettuale riesca a fare di se stesso un intoccabile, le sue parole, le sue tesi, le sue argomentazioni e le sue proposte prima o poi finiscono sotto lo scrutinio severo e critico che è la ragion d’essere del dibattito scientifico. Così, il libro di Piketty [Il capitale nel XXI secolo – ndr], tanto interessante e proficuo nella ricostruzione empirica dei dati, è man mano caduto sotto una selva di critiche, che ne hanno investito pressoché ogni aspetto, inclusa la sensatezza delle proposte politiche. Ciò nonostante, una volta conquistato il podio della superstar, l’economista riuscì a spogliarsi degli abiti grigi da scribacchino accademico e indossare quelli sgargianti dell’attivista politico. Divenne così il punto di riferimento di quel pezzo della sinistra, europea e mondiale, che non aveva mai digerito l’abbandono del socialismo e che […] continua a riscaldarsi al fuoco dell’ideologia e rigetta ogni forma di pragmatismo riformista. […] Il grande vizio intellettuale di Piketty & Co. […] è l’idea che, per sistemare tutto, basti togliere un po’ di soldi dalle tasche di Ebenezer Scrooge per ficcarli nel portafoglio di Bob Cratchit, e che non ci saranno altre conseguenze se non quella che Bob passerà un Natale un po’ migliore. Piketty e i suoi fan, insomma, invocano la chiusura e l’intervento pubblico perché non capiscono che, nel lungo termine, le istituzioni contano molto di più della distribuzione iniziale: e che, dunque, le riforme, non l’esercizio aggressivo del potere di tassare, possono produrre in modo sostenibile quei cambiamenti ritenuti desiderabili» (Carlo Stagnaro) • Tre figlie – Juliette, Déborah ed Hélène – avute tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila dal primo matrimonio, con Nathalie Moine, studiosa specializzata nella storia sociale dell’Unione Sovietica. Dal 2014 sposato in seconde nozze con l’economista Julia Cagé. «Sono fortunato ad avere un lavoro favoloso, vivere nella città più bella del mondo e avere tre figlie meravigliose e una moglie meravigliosa» • Alle spalle una relazione con la scrittrice e politico Aurélie Filippetti (in seguito, dal 2012 al 2014, ministro della Cultura e delle Comunicazioni), la quale nel 2009 lo denunciò per violenza domestica. «Le botte nella coppia più brillante della sinistra – lei era la bellissima portavoce del gruppo socialista all’Assemblea nazionale, lui l’economista in dissenso con l’ortodossia del Partito ma sufficientemente fighetto da piacere alla gauche – facevano discutere nelle cene mondane della capitale. In un interrogatorio di sette ore, comprensivo di fermo giudiziario, Piketty aveva raccontato la sua versione alla polizia. Nel settembre successivo l’inchiesta era stata archiviata perché “Piketty ha riconosciuto i fatti della violenza contro Filippetti e se ne è scusato” e “Filippetti, nell’interesse della famiglia e dei figli, non ha dato seguito alla procedura”, come aveva spiegato all’epoca l’entourage della […] Filippetti» (David Carretta). Nel 2019, tuttavia, la Filippetti ha nuovamente denunciato Piketty, questa volta per diffamazione, in seguito a una dichiarazione pubblica dell’economista. «Invitato a una conferenza all’Università di Tolosa, l’autore del bestseller Il capitale nel XXI secolo è stato interrogato da una studentessa sulle passate accuse. E ha tentato di scaricare una parte di responsabilità su Filippetti, descritta come “estremamente violenta” con le tre figlie avute da una precedente unione. Ricostruendo una lite, l’economista ha detto: “L’ho spinta fuori di casa e lei è caduta tra lo stipite e la porta: questo non le ha impedito di andare a lavorare, ma mi dispiace”. Dopo aver saputo della querela nei suoi confronti, l’economista spiega […] di “dispiacersi e volersi scusare per non aver saputo reagire con la giusta distanza”, ma parla di “relazione tossica” e ribadisce una “forma di aggressività” dell’ex compagna, accusandola di aver “preso farmaci” che “accentuavano la sua aggressività”. Filippetti, cosa l’ha spinta a riaprire il caso? “La risposta che ha dato Piketty alla studentessa è una nuova forma di violenza e diniego. Le sue parole sono indegne, mente spudoratamente, cerca di presentarmi non più come vittima di violenze ma come colpevole”. […] Piketty sostiene di essere stato prosciolto e riduce tutto a una lite. “È una bugia. Nel 2009 i fatti sono stati accertati dalla magistratura. Piketty ha avuto un richiamo formale del procuratore, in cui vengono citate violenze ripetute su un anno e mezzo di convivenza. […] Non posso permettere che ci sia una ricostruzione così infamante. Spesso si pensa che le violenze domestiche accadano solo nelle classi sociali più povere. Non è così”» (Ginori) • «Sobrio come uno studioso della East Coast americana […] e per niente aria da accademico francese» (Taino) • Nel 2015 rifiutò la Legion d’onore, massima onorificenza conferita dallo Stato francese, offertagli dall’allora presidente della Repubblica François Hollande. «“Non sta al governo decidere chi sia da onorare. Si preoccupi piuttosto di rilanciare la crescita della Francia e dell’Europa”, è stato lo sbrigativo messaggio di Piketty, recapitato al presidente attraverso le agenzie nel giro di qualche ora. […] Nel 2012 Piketty era fra i sostenitori della candidatura di Hollande alla carica di capo dello Stato; ma, una volta presidente, il leader socialista aveva tradito le aspettative dell’economista, fervente propugnatore di una riforma fiscale in favore dei redditi più bassi, infine accantonata dal governo. L’idillio era finito. Da allora Piketty non ha risparmiato critiche e frecciate alla politica di Hollande, il quale forse sperava di recuperare la sua benevolenza con la lusinga di un cavalierato» (Elisabetta Rosaspina) • «Resta da capire l’influenza reale di Piketty in politica. Alle ultime elezioni presidenziali in Francia nel 2017 ha consigliato il candidato socialista Benoît Hamon, finito quinto con un poco lusinghiero 6 per cento» (Montefiori). «Con l’estromissione dei socialisti dal ballottaggio, Piketty chiude virtualmente un giro d’Europa che era iniziato proprio in Francia, nel 2007, quando, da consigliere economico, accompagnò Ségolène Royal nella sfortunata campagna contro Nicolas Sarkozy. Tutte le sue avventure politiche successive finirono male, con la parziale eccezione del sostegno a François Hollande nel 2012 (dal quale però si allontanò ben presto, al punto da rifiutare la Legion d’onore). Fuori dai confini francesi, nella Perfida Albione, Piketty è stato il più ascoltato suggeritore di Corbyn, sotto la cui guida i voti dei laburisti sono precipitati a meno della metà rispetto a quelli attribuiti ai tory (anche qui i rapporti si sono presto raffreddati). Deluso dalla nebbiosa Londra, l’economista francese si è trasferito nell’assolata Madrid, al fianco di Iglesias: alle elezioni del 2016, però, Podemos ha mancato l’obiettivo di scavalcare i socialisti nonostante l’alleanza con Izquierda Unida e altre sigle dell’ultra-sinistra. Da lontano, Piketty ha tifato per Syriza in Grecia (ormai stabilmente sotto il 20 per cento) e per Bernie Sanders negli Stati Uniti (che ha perso le primarie trascinando Hillary Clinton verso le sue posizioni estremiste, e allontanandola dalla Casa Bianca). Non è che Piketty porti sfiga. Più semplicemente, la retorica dell’uguaglianza fine a se stessa, dell’uguaglianza come unica-cosa-che-conta, e che naturalmente peggiora per colpa del neoliberismo, elettoralmente non paga. […] La falange pikettiana perde perché né riesce a offrire una prospettiva riformista, né è sufficientemente credibile quando promette di erigere muri. Lo si è visto molto bene nelle elezioni francesi: rispetto al suo elettorato di riferimento, quella che potremmo chiamare “sinistra di Porto Alegre”, non è competitiva né col “liberismo di sinistra” alla Macron, né con la “robaccia di destra” alla Le Pen. […] Il segreto di Macron, e il tallone d’Achille della sinistra di Porto Alegre, allora, sta […] nell’aver distinto con nettezza la pretesa dell’uguaglianza dall’aspirazione all’equità: una società aperta, nella quale l’ascensore sociale funziona, può essere diseguale, ma è certamente più equa di un’economia nella quale sono politici e burocrati ad allocare la ricchezza, tassando-e-spendendo (come vorrebbero i massimalisti di sinistra) oppure vietando-e-proteggendo (come chiede la robaccia di destra). La lezione delle elezioni francesi, e più in generale delle vicissitudini della sinistra europea, per citare Tyler Cowen, è, insomma, che “quando sentite la parola ‘uguaglianza’, tre volte su quattro quello che segue è sbagliato”» (Stagnaro) • «Considero Thomas Piketty tra i più importanti pensatori che hanno contribuito al nuovo pensiero economico» (Martin Wolf). «Un marxista da sotto-prefettura. […] In Piketty come in Marx, le dimostrazioni del saggio sono spesso eclissate dalle passioni dell’ideologo» (Nicolas Baverez). «La formula di Piketty è la classica tattica del profeta Geremia: predici un disastro e aspetti che accada per poi dire altezzosamente “ve l’avevo detto”. […] Piketty, […] come un vero socialista, vede se stesso come un moralista schierato con gli angeli. Eppure, mascherati con l’abito della storia, delle statistiche e delle scienze sociali, gli argomenti di Piketty sono più ipocriti che morali» (Guy Sorman). «Il capitalismo non ha nulla da temere da Piketty» (Frédéric Lordon). «“Dimostrare” una tesi con una massa intimidente di dati: è il pikettismo. Ragionare sul rapporto tra scelta della tesi e raccolta dei dati: è il metapikettismo. Quelli che hanno confutato la tesi di Piketty (quorum ego) l’hanno fatto prescindendo dai suoi dati, con argomenti che valgono indipendentemente dal fatto che i numeri fossero giusti o sbagliati. Solo se la tesi è convincente, si cercano i dati atti a confermarla. […] Non c’è mole di dati che “dimostri” che la diseguaglianza è la conseguenza del capitalismo, “inevitabile” come “inevitabile” ne era per Karl Marx la fine a causa della caduta del saggio tendenziale di profitto. Per refutare la tesi di Piketty basta refutare la sua idea di capitale, senza bisogno di grafici e tabelle: osservare che il capitale per lui non sono i mezzi di produzione, ma qualsiasi proprietà con un valore di mercato, che sia o no produttiva; che il rendimento […] ne indica la variazione in valore; che il capitale si riduce a una massa omogenea il cui valore aumenta da solo al passare del tempo, senza bolle che crescono e scoppiano, non correlato al rischio, concetto estraneo alla sua teoria; che l’1 per cento dei più ricchi è un aggregato statistico, non l’insieme in continuo movimento di persone che vi entrano e che vi escono. Per il metapikettista è evidente che il pikettismo, preoccupato di accumulare dati a sostegno di una tesi universale, rinuncia a usare i dati per indagare le differenze» (Franco Debenedetti). «I populisti di destra credono che ogni problema si possa risolvere con un divieto. Quelli di sinistra pensano invece che serva una tassa. […] L’obiettivo di Piketty è la disuguaglianza, ma la lettura che egli offre di un fenomeno tanto complesso è semplicistica a dir poco. Sembra infatti trascurare che il nesso tra pressione fiscale e disparità sociali è tutto fuorché ovvio. […] Ridurre il tema della ineguaglianza a una faccenda tributaria è, contemporaneamente, fuorviante e sbagliato; ma diventa populista nel momento in cui nel mirino del fisco pikettyano entrano “i soliti sospetti”, senza uno straccio di analisi sulle conseguenze dinamiche delle gabelle proposte, per esempio, su crescita, innovazione, povertà. La triste realtà è che, dietro una retorica apparentemente meno urticante, la proposta di Piketty è indistinguibile da quella dei populisti che dice di voler combattere: la diagnosi è la stessa (il mercato e la globalizzazione producono ingiustizia), identica è la terapia (più Stato, più tasse e più regole). L’unica differenza sta nel veicolo a cui attribuire tale funzione: dove i “populisti” vogliono lo Stato nazionale, i “diversamente populisti” chiedono lo Stato sovranazionale. Se sia meglio morire di decrescita per il protezionismo sovranista o per l’interventismo europeo, è una domanda a cui sarebbe meglio non dover rispondere» (Stagnaro) • «Esce un nuovo libro di Thomas Piketty, e parte la corsa a leggere (magari non fino in fondo) e commentare l’opera di questa strana figura di rivoluzionario rassicurante. […] Le opinioni sulle sue tesi divergono, ma Piketty ha in ogni caso un merito innegabile: immette ossigeno nel dibattito politico-economico, facendolo uscire dai confini sclerotizzati nei quali era rinchiuso dopo il fallimento e poi il crollo del comunismo. […] Qual è […] il valore, il contributo originale di Piketty? “Credo sia quello di avere lavorato in modo molto minuzioso, in particolare sul piano empirico, per mettere cifre e fatti al servizio di una sensazione che molti hanno, e cioè che le diseguaglianze siano crescenti, sempre meno sopportabili e poco giustificabili”, dice Bruno Amable, economista francese dell’Università di Ginevra, studioso (e critico) del neoliberismo. […] “Piketty presenta molti fatti empirici e storici, e questo facilita una discussione scientifica slegata dalle propensioni ideologiche di ognuno. I disaccordi possono esserci sulle soluzioni proposte, ma una base di discussione forte sui problemi esiste. Piketty poi scatena reazioni appassionate perché affronta con cifre e dati le questioni del momento, sulle quali tutti tendono ad avere un’opinione”» (Montefiori) • «“Mai stato tentato dal comunismo. Direi anzi che faccio parte della prima generazione post-Guerra fredda”. […] Piketty dice di essere liberale e radicale. Non nel senso pre-Guerra fredda, ma a modo suo. “Credo nel capitalismo, nei mercati aperti e nella proprietà privata. Mi considero liberale […] e penso che la proprietà privata sia parte della nostra libertà personale. Ma credo anche nell’importanza delle leggi e nella necessità della tassazione progressiva del capitale. Sono radicale su due cose: nell’essere liberale sui diritti di proprietà e nel credere nella forza della tassazione progressiva”» (Taino).