7 maggio 2021
Tags : Keith Jarrett
Biografia di Keith Jarrett
Keith Jarrett, nato ad Allentown (Pennsylvania, Stati Uniti) l’8 maggio 1945 (76 anni). Pianista. Compositore. Jazzista. «Una volta Miles Davis mi chiese: “Come fai a suonare dal nulla?”. Io risposi quel che rispondo anche oggi: “Non lo so: lo faccio e basta”» • «Jarrett ha attraversato quasi tutta la musica che ci possa venire in mente: bebop, post-bebop, la svolta elettro-ritmica di Miles Davis (Bitches Brew, Live at the Fillmore), il blues, il free jazz, l’innodia gospel, il camerismo e il sinfonismo più “misti” e fuori pista. Da interprete si è confrontato con Bach e Handel (Clavicembalo ben temperato, Suites per tastiera), con Mozart (Concerti per pianoforte e orchestra), con il Novecento storico (Béla Bartók, Dmitrij Šostakovič), con la musica colta americana (Samuel Barber, Lou Harrison), con la tonalità meditativa di Gurdjieff e l’introspezione “mistica” di Arvo Pärt. Come bandleader, ha guidato due gruppi che si sono fronteggiati dalle sponde e dalle culture opposte dell’Atlantico. […] Al centro di tutto si è aperto un mondo a sé che è Jarrett, solo Jarrett: la via solitaria al pianoforte che faceva di ogni concerto un salto nel buio, un flusso imprevedibile della memoria e dell’immaginazione, rimescolando improvvisazione e fogli d’album volati via dalle mille e una stanze della musica del mondo» (Carlo Maria Cella) • Nato in una famiglia con ascendenze principalmente slovene e tedesche, e – con qualche incertezza – anche ungheresi, scozzesi e irlandesi. «La disputa è ancora aperta in famiglia, ma, per le storie che ricordo da piccolo, continuo a sentirmi ungherese. Quando ho avuto l’età per apprezzare la musica di Bartók e Kodály, specialmente i temi folk li ho sentiti molto vicini al mio animo. Ma potrei dire la stessa cosa delle melodie irlandesi…» (a Giacomo Pellicciotti). «Non è nato in un sobborgo nero, anche se i suoi occhi bruni, la carnagione scura, la capigliatura afro, e naturalmente il jazz, hanno ingannato molti» (Christian Rocca). «Era un prodigio fin da bambino, ad Allentown, in Pennsylvania, dov’è cresciuto. Secondo quello che si racconta in famiglia, aveva 3 anni quando una zia gli indicò un ruscello nelle vicinanze e gli disse di trasformare il suo gorgoglio in musica: la sua prima improvvisazione al pianoforte» (Nate Chinen). Diversa, tuttavia, la versione fornita dallo stesso Jarrett nel corso di un’intervista. «Ha cominciato a suonare il pianoforte a tre anni: com’è successo? “Credo di ricordarmi. Mi vedo seduto al piano, un vecchio malandato piano a cilindro, cercando di imitare le melodie dalla radio. È cominciata così. Era strano per me trovare le note prima che qualcuno me lo insegnasse”. Nessun musicista in casa? “No, quel piano era lì solo per caso”» (Pellicciotti). «Comincia a studiare lo strumento a tre anni, a sette già si esibisce in pubblico» (Giuseppe Videtti). Da ragazzo «non ho avuto altri maestri che insegnanti di musica classica: non c’erano docenti di jazz al Berklee College di Boston». «La sua formazione musicale fu classica, una cosa che contribuì a rendere le sue composizioni sofisticate ed eclettiche, ma che lo limitò a lungo. Una volta, ha raccontato in un’intervista, si stava esibendo con un’orchestra e si dimenticò il momento in cui doveva iniziare a suonare, immerso nell’ascolto degli altri strumenti. Il direttore gli disse che non doveva ascoltarli, e quello lo convinse a lasciar perdere la musica classica: “Ha distrutto il mio interesse a rimanere in quel mondo, perché il mio lavoro principale è ascoltare. Se stai improvvisando e non stai ascoltando, un secondo dopo hai finito le cose da dire”. Insegnare a un musicista classico a improvvisare è quasi più difficile che insegnarlo a un contabile o a un idraulico, diceva» (Stefano Vizio). «Dopo avere studiato da giovane i classici come Beethoven, Mozart e Chopin, come ha trovato la via del jazz? “Non credo di avere deciso io. Già a sei o sette anni, improvvisavo sui temi che avevo composto. È stato molto naturale trovare una forma di musica che fosse più importante. È stato così che il jazz è diventato parte della mia vita, ma i primi musicisti che ho ascoltato non erano veri maestri del jazz. Sono cresciuto in una cittadina della Pennsylvania come Allentown, dove i negozi non avevano tanti dischi di jazz. Gli unici pianisti che potevo trovare erano André Previn, Erroll Garner, Dave Brubeck, Oscar Peterson. Ma un giorno, forse per errore, tirarono fuori un disco che non avevo ordinato: il doppio album bianco di Ahmad Jamal Portfolio. Forse fu la prima volta che ascoltai un trio così innovativo. È curioso, ma Gary, Jack e io [i componenti del suo ultimo, storico trio: vedi sotto – ndr] condividiamo da sempre l’interesse per quest’unico disco. È stata comunque una scelta graduale quella di passare al jazz. Prima suonavo musica commerciale, come il dixieland, con un quartetto. Eravamo terribili. Io avevo 14-15 anni”. Ricorda i primi concerti ai quali ha assistito? “Il primo credo che fosse quando il quartetto di Brubeck con Paul Desmond venne ad Allentown, ma ero un ragazzino e non capii nulla. Poi ho sentito la band di Count Basie, ed è stato importante. Erano così tirati, e swingavano in modo incredibile”» (Pellicciotti). «È vero che ha fatto anche […] musica da piano-bar […] all’inizio della sua carriera? “Ho suonato in diversi bar e sale da ballo a Boston. […] L’ho fatto quando studiavo alla Berklee, e ho capito come vanno le cose. Tutti fanno rumore, parlano, chiedono da bere e da mangiare, e tu devi solo fare da contorno sonoro alla serata”» (Pellicciotti). «A vent’anni è a New York col clarinettista Tony Scott e con Art Blakey nei leggendari Jazz Messengers. È nel quartetto di Charles Lloyd che fa la conoscenza con DeJohnette, il giovane batterista che avrà un ruolo determinate nella sua storia, anche se il primo trio lo fonda con Charlie Haden e Paul Motian. Miles Davis lo chiama nel suo ensemble nel periodo più rivoluzionario e torrido del jazz contemporaneo. Due anni soltanto, ma a Jarrett bastano per lasciare un segno profondo anche nel suono del trombettista, con una serie di concerti indimenticabili e due dischi che sono ancora capolavori del jazz rock (ma, ancora una volta, le etichette sono inadeguate), Live-Evil e Live at the Fillmore. È la testimonianza del furore creativo che animava il gruppo di Davis, dove nello stesso periodo orbitavano anche DeJohnette, Herbie Hancock e Chick Corea, una fucina di talenti che, dopo la morte del leader, hanno guidato le sorti del jazz dentro il nuovo millennio. Jarrett ha talento e idee per lavorare in proprio, un frenetico bisogno di spaziare dentro, fuori e oltre il jazz» (Videtti). «“Mi è stato chiesto di dire qualcosa a proposito della musica di questo album. Avrei molto desiderato farlo; ma, se ci fossero parole per esprimerlo, non ci sarebbe bisogno della musica”. Così parlò, secco, Keith Jarrett. A proposito di Life Between the Exit Signs, il primo disco a suo nome, come band leader. Era il 1967, Keith aveva la chioma afro e ventidue anni, ma già sei di carriera (e nove album) come “sideman” con Don Jacoby, Charles Lloyd, i Jazz Messengers di Art Blakey; presto nel parterre de rois di Miles Davis post-Bitches Brew. […] Otto brani, quattro per lato: […] Life Between the Exit Signs è un album già tagliato preciso sulla mano e la testa di Jarrett: melodie lunghe, modulari, articolate per gradi e cadenze che servono materia armonicamente e ritmicamente flessibile all’improvvisazione. Il contrabbasso profondo di Charlie Haden e la batteria quasi tribale di Paul Motian, compagni di un trio prediletto, antivirtuosi, accentano il pensiero forte di un Jarrett allo stato puro. Perfino la copertina – Keith a due teste, due cartelli di Uscita, due sguardi in contrary motion – suggerisce quel che verrà. Perché su due vie iniziò a correre Jarrett fra il ’67 e il ’76. Una è quella afroamericana degli album Vortex, Atlantic e Impulse, in trio con Haden e Motian (Restoration Ruin, 1968; Somewhere Before, 1968; The Mourning of a Star, 1971) e in quartetto con Haden, Motian e Dewey Redman (El Juicio, 1971; Birth, 1971; Expectations, 1972; Fort Yawuh, 1973; Treasure Island, 1974; Back Hand, 1974; Death and the Flower, 1974; Mysteries, 1975; Shades, 1975; Byablue, 1976; Bop-Be, 1976, ultimo Impulse). L’altra è la via europea, che pure si presenta biforcuta: il Jarrett che debutta nel ’71 sulla tedesca Ecm è già doppio. Quell’anno escono insieme Ruta and Daitya, mirabile duetto con le percussioni di Jack DeJohnette, conosciuto con Miles e rimasto compagno per sempre, e Facing You, il primo solo di pianoforte classico ma improvvisato, l’inizio di tutto» (Cella). «Aveva ventisei anni quando mise in musica le regole della Commedia dell’arte, la sua specialità: i concerti di piano improvisation, l’improvvisazione solitaria al piano. Funziona così. Jarrett sale sul palco e si siede sullo sgabello davanti al pianoforte. Non ha ancora idea di che cosa suonerà. […] Si concentra, in sala non vola mosca. L’attesa diventa imbarazzante. Infine si china sulla tastiera, le mani si avvicinano ai tasti, ne sfiorano uno, arriva una nota, poi l’altra, e succede quello che nessuno pensa sia possibile. Jarrett compone sull’istante: non c’è partitura, la sua è una composizione istantanea, senza rete, suona quello che la mente in una frazione di secondo gli suggerisce. Lo sforzo è sovrumano. Si contorce, ondeggia, si alza dallo sgabello, batte i piedi sul legno del palcoscenico, si agita, cerca di accompagnare le note anche con il corpo, canticchia la melodia un attimo prima di eseguirla, ansima. C’è chi dice che fa l’amore col pianoforte. Quello che conta è la prima nota, le prime quattro. A volte l’attacco è faticoso, Jarrett non riesce a trovare il seme giusto, spesso gli riesce difficile uscire da una situazione in cui si è cacciato. Capita che brancoli alla ricerca di un nucleo fecondo che tarda ad arrivare, ma il più delle volte la musica è meravigliosa. Si sentono Chopin e il blues, il jazz informale e la poesia post romantica, un ritmo ostinato o una melodia indiana» (Rocca). «Negli anni Settanta, una volta, Keith Jarrett si era appena seduto al grande pianoforte a coda montato sul palco di un anfiteatro all’aperto di Washington. Era solo, e rimase per diversi minuti in silenzio fissando la tastiera. A un certo punto, il religioso silenzio del pubblico fu interrotto da uno spettatore che gli gridò: “Do diesis maggiore!”. “Grazie, ne avevo bisogno”, rispose Jarrett, che su quell’accordo cominciò uno dei suoi celebri concerti di improvvisazione solitaria» (Vizio). «Il lungo viaggio di Jarrett all’esplorazione del potenziale del recital in piano solo liberamente improvvisato […] ha prodotto alcuni dei suoi dischi più amati, tra i quali The Köln Concert (1975), un disco che a tutt’oggi ha raggiunto la cifra di tre milioni di copie vendute, risultato incredibile per una registrazione di jazz» (Stuart Nicholson). Tale successo risulta ancor più sorprendente considerando le circostanze, a dir poco rocambolesche, in cui tale concerto fu eseguito e registrato, a Colonia, il 24 gennaio 1975. «Keith Jarrett aveva appena 29 anni ed era già famosissimo. Dopo diverse collaborazioni prestigiose, era sbarcato in Europa per la prima tournée da solo. A Colonia arrivò da Zurigo nel pomeriggio di un gelido giorno di pioggia che sembrava fatto apposta per mandare tutti al diavolo: non dormiva da due giorni, aveva un mal di schiena furioso e, quando nel pomeriggio salì sul palco per le prove, invece del pianoforte che aveva chiesto (un Bösendorfer Grand Imperial), ne trovò uno più piccolo, scordato e con i pedali fuori uso. “Ok, me ne vado”, disse più o meno: era il minimo. Ma l’organizzatrice era una ragazzina di 19 anni, Vera Brandes, e quella notte era il sogno della sua vita, e non poteva lasciarla svanire così: inseguì Keith Jarrett disperata fin fuori dal teatro: lo trovò che era già in macchina, gli implorò di suonare lo stesso, gli promise che il piano lo avrebbe fatto accordare, certo era piccolo per il teatro da 1.400 posti, tutti venduti, ma, disse più o meno, “ti prego, fallo per me”. Vera Brandes doveva avere una passione notevole, perché Jarrett accettò: alle 23 e 30 salì sul palco e letteralmente creò musica per circa un’ora. Suonò in modo incredibile, forse proprio perché sapeva che il pianoforte non era adatto, ci mise una energia e una intensità mai viste, dicono, prima e dopo. Il suo manager registrò l’esibizione e quel concerto è diventato il disco di piano solo più venduto della storia del jazz. Avrebbe potuto non suonare, quella sera, Keith Jarrett, ne aveva tutte le ragioni. E invece ha suonato, e ne è venuto fuori il più bel concerto della sua vita» (Riccardo Luna). «È con questo album che Jarrett ha creato il suo manifesto sonoro, ha concretizzato la sua idea di musica che ingloba l’intero universo espressivo, dal classico al country, dal blues al jazz alle cantilene folk: una musica basata essenzialmente sull’improvvisazione, mai fine a se stessa, ancorata saldamente all’emotività, dove la tecnica è sempre al servizio della creatività e dell’espressione» (Ernesto Assante). «Quell’album […] ha segnato la sua storia e la sua vita, trasformandosi in un successo strabordante, […] capace di disegnare un format musicale pianistico (quello delle cavalcate solistiche solitarie) che ha avuto tantissimi epigoni: da Herbie Hancock a Chick Corea, a Stefano Bollani, a Einaudi e Allevi. […] Da quel momento è diventato un riferimento della musica con una popolarità da rockstar» (Marco Molendini). «Ho una relazione complessa con The Köln Concert: innanzi tutto mi rendo conto che il modo in cui ho suonato il piano non è nemmeno lontanamente paragonabile a come lo suono oggi, perciò se lo ascolto come pianista non sento il tocco come lo sento oggi, non sento le dinamiche, non lo sento venir fuori dalle mie mani. Ma ci sono queste melodie, e queste sezioni accostate l’una all’altra, che si creano da sole: non c’è nient’altro di simile nella mia discografia. È stato un momento unico: avevo il piano sbagliato, e non è che proprio mi piaccia il mio tocco, ma c’erano delle idee che mi giravano per la testa, ero giovane e ci sono questi colori e questi voicings, che in quel momento nessuno suonava. Quel che accade è che, con l’andar del tempo, un disco ha molto a che fare con il modo in cui viene accolto, con il tempo che passa, e tutte queste cose vanno avanti finché il disco diventa una cosa da avere assolutamente». Nel frattempo, comunque, nella discografia di Jarrett si susseguono «capolavori che scivolano uno via dall’altro perché aprono scenari diversi. In the Light (1973), album in otto parti per pianoforte, clavicembalo, flauto, gruppo di fiati, orchestra sinfonica (della Radio di Stoccarda) e Ralph Towner alla chitarra, di acclaratamente jazz ha poco o nulla. Nel ’74, il bellissimo e già “diverso” Belonging inaugura lo stile del quartetto nordico (Jan Garbarek ai sax, Palle Danielsson al contrabbasso, Jon Christensen alla batteria). A stretto giro, altri exit signs: nel ’75 la leggenda The Köln Concert, pianoforte dal vivo in totale improvvisazione; nel ’76 Hymns/Spheres, in cui Jarrett scopre il fascino irresistibile dell’organo barocco nella chiesa benedettina di Ottobeuren e su un luminoso Karl Joseph Riepp (1710-1775) vola tra nuvole di suono che un jazzista nemmeno può immaginare (Jarrett ormai non è più solo un jazzista). Nello stesso 1976 esce il monumentale Sun Bear Concerts, in cui il pianoforte solo di Jarrett ha la sua cattedrale: 10 dischi “live in Japan” avvolti in un capolavoro di grafica stile Sol Levante. Seguono in fila i quattro album con Garbarek e i jazzisti del nord, intrecciati agli ultimi due col quartetto americano, poi (’79) un’altra virata solistica con Invocations/The Moth and the Flame per pianoforte, organo, voce e sax soprano (Jarrett, solo Jarrett), quasi una coda sfrangiata di Hymns/Spheres. Quando nel 1980 Jarrett ritorna al pianoforte solo, non è per suonare se stesso ma per celebrare francescanamente la mistica di Gurdjieff. Di segno opposto, The Celestial Hawk, per pianoforte, percussioni e orchestra, riapre i polmoni ai grandi respiri strumentali. Nello stesso anno. Dal doppio exit sign siamo sconfinati in una frenesia multidirezionale» (Cella). «Jarrett, nella sua carriera, si è mosso soprattutto in tre direzioni: da un lato le interpretazioni classiche di Bach e altri autori come Šostakovič, dall’altra il suo meraviglioso trio jazzistico con Gary Peacock (scomparso nel settembre 2020) e Jack DeJohnette, con i quali eseguiva soprattutto standard (da qui il nome “The Standards Trio”), e infine il suo lavoro solistico, che da entrambi questi mondi traeva linfa e al quale è sottesa un’idea di musica totale. Il trio, quel trio, è, a nostro avviso, l’espressione più alta del fare musica di Jarrett» (Helmut Failoni). «Con […] Gary Peacock, contrabbasso dalla scansione inarrivabile quanto il cristallino nitore del cantato, e Jack DeJohnette, la cui batteria non conosce limiti di energia, dinamica e musicalità, […] dal 1983 […] ha avviato un lavoro immane e profondissimo di rilettura degli standard, Bibbia e koinè di ogni jazzista che si rispetti. Restituendo a quei classici rubati nei decenni alla canzone americana e a Broadway una freschezza e una intensità che solo la sua monacale dedizione alla grande tradizione del piano jazz e la sua impressionante concentrazione potevano prima concepire e poi eseguire. Della tecnica del trio non val la pena dire: vola oltre le opinioni. Sono invece lo scavo rispettoso e ogni volta stupefacente nelle strutture, il loro filtraggio attraverso le infinite, colossali esperienze dei tre, il perfetto equilibrio del gruppo a fare di questo lavoro un unicum insostituibile, intreccio di memoria, passione e contemporaneità. Che in nome del più puro interplay non conosce, se non in una misura inevitabile per un trio, le consuete gerarchie col piano primadonna e la ritmica gregaria» (Paolo Russo). «Jarrett ha continuato a suonare questo repertorio perché è la musica che ama, di cui conosce i testi, è lo sfondo del mondo nel suo immaginario musicale, sono pagine che durano nel tempo e che riesce a conservare (e salvare) soltanto continuando a suonarle. È vero, le sue riletture non sono radicali, ma è semplicemente una scelta. Jarrett, lo standard, lo rispetta, lo contempla dapprima a distanza, e quando ci si avvicina non si sovrappone a esso, ne scolpisce la melodicità nella purezza della scrittura originale. Ecco, Jarrett, con gli standard, ha trovato nella melodia la chiave di accesso privilegiata alla sua anima e a quella del pubblico. La sua utopia, in fondo, è proprio quella della ricerca di una melodia infinita» (Failoni). «“L’alchimia che abbiamo quando suoniamo insieme scaturisce dalle nostre separate nature. […] Stiamo insieme da così tanto tempo, ognuno capisce il linguaggio dell’altro, e ci fidiamo reciprocamente al 100%. Siamo come una band underground che, per caso, ha un vasto pubblico. Perché siamo sempre radicali: anche se a volte suoniamo cose che la gente crede di conoscere, quello che stiamo facendo in quei pezzi è qualcosa di non-conformista”. Non era mai successo prima che un piano-trio rimanesse unito così a lungo» (Pellicciotti): il sodalizio durò oltre trent’anni, per sciogliersi infine nel 2014. L’attività concertistica di Jarrett subì una battuta d’arresto nella seconda metà degli anni Novanta, quando «si era rinchiuso in casa per quattro anni, perché colpito da una rara e invalidante malattia che risponde al nome di sindrome da fatica cronica (scientificamente detta encefalomielite mialgica), caratterizzata da continua e profonda stanchezza, disfunzioni cognitive, alterazioni del sonno, dolore e altri sintomi, peggiorati da uno sforzo di qualsiasi genere» (Failoni). «La malattia l’ha reso più umano, più vulnerabile, è stato anche costretto a modificare la sua utopia del “suonare con ferocia” mutuata dal pensiero di G.I. Gurdjieff, studioso armeno teorico dello sviluppo della volontà, a favore di un modo più intenso e rarefatto, come si può ascoltare nell’album […] The Melody at Night, with You, l’unico registrato in casa durante la lunga convalescenza. […] Ha mutato la sua musica a causa della malattia o per un bisogno più intimo di esprimersi? “Nel nuovo disco sono stato costretto a suonare in un certo registro, e questo è servito a ricordarmi un mondo che avevo dimenticato, che c’è una musica che non ha bisogno di molte note. È stata in un certo senso una scelta forzata, ma insieme consapevole. Un passo che avrei dovuto fare comunque, ma che avrei anche potuto non fare se non mi fossi ammalato. […] Nell’album c’è molta energia, anche se non appare. La melodia, poi, è sempre stata nelle mie corde”» (Pellicciotti). Tornato a esibirsi regolarmente tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, il 12 maggio 2003 Jarrett ricevette a Stoccolma, «dalle mani di re Carlo Gustavo di Svezia, l’ambìto Polar Music Prize per il 2003, in pratica il Nobel della musica, che di solito si sdoppia con due vincitori nelle categorie “seria” e “popolare”: ma quest’anno è andato solo all’eclettico Keith, uno dei rari artisti capaci di stupire sia nel jazz che nella classica e nella contemporanea. […] Non è la prima volta che vince premi: che significato ha per lei il riconoscimento svedese? “Significa molto più dei soliti premi, perché non è legato all’industria o alla finta popolarità come i Grammy, ma all’Accademia svedese della musica e alla qualità dei musicisti. È molto interessante che non abbiano premiato una seconda persona quest’anno. Forse perché non hanno trovato nessun tipo di musica in cui non fossi coinvolto. Sono come un giocatore di baseball che ha superato tutte le basi”» (Pellicciotti). L’8 maggio 2015 la sua storica etichetta discografica, la tedesca Ecm di Manfred Eicher, celebrò il suo settantesimo compleanno «tirando fuori insieme Creation e Barber/Bartók/Jarrett, due album che, ascoltati in parallelo, rendono perfetta testimonianza della geniale versatilità del genio di Allentown. Da un lato il jazz, dall’altro la classica, su un versante il piano solo che improvvisa in scena inseguendo l’estasi di un momento, sull’altro l’interprete maniacale che declina al dettaglio lo spartito diventando una sola cosa con esso» (Francesco Prisco). «L’ultima apparizione di Jarrett […] risale al febbraio 2017. Un concerto alla Carnegie Hall di New York, qualche settimana dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, che il pianista aveva aperto con un indignato discorso sulla situazione politica Usa (riprendendo l’affermazione di The Donald di essere “la persona più intelligente in circolazione”, aveva commentato: “Quanto devi essere stupido per pensarlo?”), esortando il pubblico in sala a “rimanere vivo, rimanere sveglio”. Il musicista sarebbe dovuto tornare a esibirsi alla Carnegie nel marzo dell’anno successivo. […] Un’esibizione bruscamente cancellata, insieme al resto del calendario di concerti del pianista. Al tempo, la Ecm, l’etichetta discografica cui il musicista è legato da lunga data, aveva addotto vaghi problemi di salute. E nei due anni successivi non ci sono stati aggiornamenti ufficiali. Fino a quando Jarrett ha finalmente rotto il silenzio, raccontando al NYT cosa gli è successo» (Laura Zangarini). «Un ictus alla fine di febbraio del 2018 seguito da un altro tre mesi dopo, a maggio. È molto difficile che possa mai tornare a suonare in pubblico. “Ero paralizzato”, racconta al New York Times. […] “Il mio lato sinistro è ancora parzialmente paralizzato. Riesco più o meno a camminare con un bastone, ma anche per arrivare a questo ho impiegato parecchio tempo, un anno o più. E non riesco a spostarmi molto per casa”. […] Durante i mesi trascorsi nella clinica, […] ha fatto un uso sporadico della sua stanza del pianoforte, suonando qualche contrappunto con la mano destra. “Facevo finta di essere un Bach monco”, dice. “Ma stavo solo giocando”. Quando di recente, nello studio di registrazione che ha in casa, ha cercato di suonare qualche melodia bepop che conosceva bene, ha scoperto che non se le ricordava più. […] Cresciuto nella fede del cristianesimo scientista, che rifugge dalle cure mediche, Jarrett è tornato a quel mondo spirituale, ma non del tutto. “Non indulgo spesso alla retorica del ‘perché a me?’”, dice. “Essendo un cristiano scientista, dovrei dire ‘Vade retro, Satana’. E un po’ l’ho fatto, quando ero nella clinica. Non so se con successo, però, visto che questa è la situazione”. “Non so come sarà il mio futuro”, aggiunge. “In questo momento non mi sento un pianista. È tutto quello che posso dire al riguardo”. Dopo una pausa, torna sull’argomento. “Ma quando sento qualcuno che suona il piano con due mani provo una frustrazione fisica. Anche solo ascoltare Schubert, o qualcosa suonato in modo sommesso, basta a farmi scattare questa cosa, perché so che non sarei in grado di farlo. E i medici non prevedono che potrò mai recuperare quella capacità, al massimo potrò tornare a tenere in mano una tazza con la mano sinistra. Insomma, non è una cosa tipo ‘Non sparate sul pianista’: mi hanno già sparato. Ah-ha-ha-ha”. […] “Riesco a suonare solo con la mano destra, e non mi convince più”, dice Jarrett. “Faccio perfino dei sogni in cui ho gli stessi problemi che nella realtà: mi ritrovo che cerco di suonare, ma è esattamente come nella vita reale”» (Chinen). «La musica che scavalca calendari e geografie, stili e linguaggi, è ormai costretta a misurarsi con l’assenza di uno dei protagonisti più liberi e originali della contemporaneità, premiato (giusto, giustissimo) con un Leone d’oro alla Biennale Musica 2018 che già non poteva ricevere con le sue mani. […] Merita di essere tenuto stretto anche questo Budapest Concert che si è aggiunto il 30 ottobre, in cui rivive la serata del 3 luglio 2016 nella Sala Béla Bartók della capitale d’Ungheria. Un pezzo che per Jarrett è “The Gold Standard”, la perla del tour europeo di quell’anno. Non c’è niente di estremo o di rivoluzionario, jarrettianamente parlando, in quel concerto. Anzi. Rispetto agli archi lunghi delle improvvisazioni del passato, Budapest Concert è un esercizio di sintesi in dodici episodi (più due bis) che Jarrett chiama “parti”. […] Per rami di famiglia, Keith ha origini centroeuropee, tedesche, ungheresi per via di madre. […] Nella capitale dell’Ungheria, Jarrett sente di aver toccato il punto più alto del suo ultimo tour mondiale, prima del doppio knock out. C’è qualcosa di simbolico in tutto questo? Di estremo, sì» (Cella) • «Per Jarrett il “desiderio feroce di suonare” (parole sue) non era solo una ragione di vita, come ogni musicista potrebbe rivendicare, ma il fondamento filosofico dell’esistenza. […] Essere un pianista, per Jarrett, voleva dire (vuol dire) essere parte di una macchina, costituita da tre componenti inscindibili: il pianoforte nella sua materialità, il suono come fenomeno fisico, e il corpo/mente del suonatore. È un’idea, non solo un’immagine metaforica, che si collega agli insegnamenti di Georges Ivanovič Gurdjieff, filosofo, maestro di vita e di pensiero, vissuto tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, che ha avuto tra i suoi seguaci (anche decenni dopo la morte) artisti di molte generazioni e discipline, da Frank Lloyd Wright a Peter Brook, da Robert Fripp a Franco Battiato, e a Jarrett. […] Per Jarrett, per quel Jarrett, il corpo non è soltanto lo strumento che permette alla mente di esprimersi attraverso i suoni: anzi, è precisamente parte inscindibile della mente musicale. Il grande merito di Jarrett, grazie alla sua fama, e al suo stile, è di avere riportato il corpo al centro del concertismo, dopo più di un secolo nel quale la musica cosiddetta “colta” era stata soggetta ad un processo di decorporeizzazione, ridotta a puro pensiero reificato nella notazione musicale. […] Per moltissimi ascoltatori Jarrett ha restituito all’improvvisazione pianistica quella carnalità che aveva ancora nella prima metà dell’Ottocento. Per questo la paralisi della parte sinistra del corpo di Jarrett, e il solo parziale recupero della destra, non solo ci tolgono un pianista: ci tolgono una musica che aveva colmato un vuoto» (Franco Fabbri) • Due matrimoni alle spalle, dal primo dei quali ha avuto due figli, Gabriel e Noah, oggi rispettivamente batterista e bassista. «Vive in una casa ottocentesca in un minuscolo paese del New Jersey, ed esce molto poco» (Vizio) • «Vengo da un contesto religioso, e questo sicuramente ha influito sulle mie convinzioni spirituali, che credo siano percepibili anche all’ascolto della mia musica. Direi, anzi, che ne facciano inscindibilmente parte. Suonare è un rituale comunitario, che – se vuoi – può assurgere allo stato di una preghiera e nel silenzio di una preghiera. Non parlo in termini di religioni, ma di religiosità, del rivolgersi a un potere superiore, a un’entità suprema che ci connette al mondo così come alle nostre aspirazioni e realizzazioni interiori» • «Mi sento molto più europeo che americano, specie in politica. […] Sono sempre stato un sovversivo come americano. La musica che suono ha molto a che fare con il mio Paese. Sono nato lì. Ma il resto della cultura americana non mi appartiene nel profondo» • Grande passione per la lettura, e anche per la scrittura. «“Leggere è per me fondamentale. Non per l’esercizio della lettura in sé, ma perché nulla ti lascia un segno dentro di te come quello che leggi. La vita cambia, si modifica all’atto del leggere, nello scorrere di una frase che ti risuonerà dentro e diventerà parte di te”. Credevo che la musica facesse lo stesso effetto… “Sì, ma non come la grande letteratura. E non sto parlando, ovviamente, solo dei ‘classici’. Io misuro tutto attraverso la lettura. È vero, anche la musica può lasciarti qualcosa di indelebile, ma credo sia più difficile avvertire qualcosa del genere per un musicista. Quando ascolto un lavoro musicale mi confronto con esso, cerco di afferrarne il meccanismo: una volta capito il funzionamento, mi limito a prenderne atto, ma cerco di evitare che esso interferisca con il mio modo di pensare la musica. La letteratura mi ha sempre affascinato di più, soprattutto mi ha maggiormente segnato: tu sei e diventi ciò che leggi. Sotto questo profilo, sia la letteratura sia la scrittura mi hanno accompagnato costantemente e incessantemente”. Anche la scrittura? […] “Diciamo che scrivo, ho sempre scritto. […] Ho scritto saggi, certamente. Ma in modo particolare mi ha attratto la forma del racconto. Racconti umoristici, soprattutto”. In che senso? “Nel senso che erano scritti per far ridere fragorosamente!”» (Gianni Morelenbaum Gualberto) • «Ai suoi tempi è stato anche un discreto tennista» (Nicholson) • «Moralista solitario, ascetico perfezionista» (Pellicciotti) • «Fama di artista burbero dal pessimo carattere. […] È nota l’intransigenza dell’artista, che non ha mai sopportato imperfezioni e che è noto per aver più volte interrotto le sue esibizioni, anche bruscamente, soltanto per una luce non perfettamente puntata o per un cauto mormorio tra il pubblico» (Laura Valente). «Nella sua carriera Jarrett ha interrotto concerti per qualche colpo di tosse di troppo o per qualche commento scambiato dal pubblico, ma soprattutto, a partire dagli anni Duemila, per le foto del pubblico. In quella che è forse diventata la più famosa sbroccata da palco della storia del jazz moderno, Jarrett disse al pubblico che si era radunato a Perugia per sentirlo nell’edizione del 2007 di Umbria Jazz che “quegli stronzi con la macchina fotografica devono metterla via subito”, perché il privilegio era di chi stava ascoltando lui, DeJohnette e Peacock. Se avesse visto un altro flash, disse, si sarebbe riservato il diritto di smettere di suonare e “di lasciare questa cazzo di città”. Fu un episodio spiacevole a detta di tutti, e il direttore del festival Carlo Pagnotta disse che Jarrett non sarebbe tornato. A sorpresa, invece, fu invitato di nuovo nel 2013: ci andò, ma appena salito sul palco intravide qualcuno nelle prime file scattare una foto senza flash, nonostante le accorate raccomandazioni di Pagnotta, e se ne andò via per un po’. Dovette salire il suo manager a chiedere di nuovo la collaborazione del pubblico, e Jarrett infine tornò sul palco, facendo buona parte del concerto al buio, per prevenire nuovi fotografi clandestini» (Vizio). «Gli aneddoti sulle sue nevrosi si sprecano: tutti ne raccontano uno diverso, sempre pronti a dimostrare quanto fu profetico Jarrett stesso, una sera del 1971 a Torino. Allora suonava nel gruppo di Miles Davis, non era ancora Keith Jarrett. Davanti a un piatto di spaghetti. disse a Franco Fayenz: “Sai, Franco, ho paura di quando sarò celebre, perché potrei perdere il senso delle proporzioni”. […] Una volta a New York, innervosito per la poca attenzione di un paio di spettatori, li apostrofò così: “Vi comunico che non state assistendo a un concerto, ma a un evento”. C’è chi dice siano le bizze di un artista viziato. Lui dice: “Io rischio. Dunque, se non è tutto perfetto, se non riesco a concentrarmi, non suono”. […] “Improvvisare è molto pericoloso”, ha detto in un’intervista. “Hai una sola chance, vivi l’esperienza del voler suonare, ma questa volontà deve essere feroce, devi separare la parte di te che ascolta, pur tenendola lì, e insieme suonare, devi sentire quello che vuoi, e a quel punto, solo a quel punto, le tue dita faranno quello che vuoi”» (Rocca). «Dice di non avere un pubblico ideale, “e non è vero che lo maltratto, ma non hanno capito che tocca a loro chiudere il cerchio disegnato da me: se c’è troppo rumore, non parliamo dei flash, non riesco più a sentirla, quella musica”» (Valerio Cappelli). «“Qualunque cosa accada sul palco dipende dal pubblico più di quanto il pubblico stesso sappia. Questa miscela chimica tra me esecutore e chi mi ascolta significa che, più il pubblico mi viene vicino, più io vado vicino a lui, e più sentiamo l’uno le esperienze dell’altro”. Quindi, l’immagine di un Jarrett talmente concentrato sull’atto creativo da escludere il pubblico è tutta parte di una leggenda. “È quello che molta gente pensa. Uno dei miei grandi lussi è il fatto che, non portando materiale predeterminato, rispondo a qualunque tipo di sensazione chimica ci sia nella sala, tra le persone che siedono nel teatro e me. Non darò loro quel che sentono di volere, perché sono abbastanza istruiti da sapere che stanno commissionando una nuova opera, sul serio. […] Immaginare che il mio lavoro sia fatto con l’esclusione del pubblico è un errore, ed è un errore che il pubblico ha commesso perché io sono sensibile alle loro debolezze: pensano che io voglia una sala sterile, igienizzata, silenziosa, quando tutto quel che voglio è la loro attenzione, e il rispetto per il processo, il processo creativo, il che significa che neanche io posso starnutire sul palco!”» (Nicholson). «Considerando che tutti gli album di Jarrett, tranne un numero ristretto, sono registrazioni di esibizioni dal vivo, la sua reputazione di scontrosità forse andrebbe interpretata come il lato turbolento di una relazione di co-dipendenza. Ha sintetizzato al meglio la questione durante un concerto solista alla Carnegie Hall nel 2015, quando annunciò: “La cosa importante di cui nessuno sembra rendersi conto è questa: non riuscirei a fare quello che faccio senza di voi”. Ora che è costretto a rinegoziare il suo legame con il pianoforte, Jarrett si trova di fronte alla prospettiva verosimile della fine anche di quell’altro legame, con il pubblico. “Ora come ora, non riesco nemmeno a parlare di questa cosa”, dice quando viene fuori la questione» (Chinen). «È anche vero che, in qualche modo, le mattane hanno contribuito alla sua fama, dando alle sue apparizioni un senso di magica instabilità e, perfino, di sacralità» (Molendini) • «Il rapporto di Jarrett con l’Italia e il pubblico della penisola è sempre stato molto particolare, e felice. Fu sigillato dall’album La Scala, che fissa su cd un concerto tenuto al Teatro alla Scala di Milano nel 1995 e fu pubblicato due anni dopo. Si trattò, recitano le note di copertina, del “primo concerto mai tenuto da un musicista che fonda la propria arte sull’improvvisazione nel teatro d’opera più famoso del mondo”. In quell’occasione Jarrett interpretò anche una indimenticabile Over the Rainbow» (Fabio Greco). «La trattativa tra Keith Jarrett e il Teatro alla Scala era durata due anni. Fu l’evento musicale dell’anno, l’incontro tra un pianista che non porta mai la giacca, al massimo un gilet, e un teatro d’opera sempre più spaventato dalla profanazione che avrebbe subìto» (Rocca). In Italia, inoltre, Jarrett si è più volte esibito al Teatro San Carlo di Napoli, e con particolare soddisfazione. «Come tutti sanno, sono piuttosto esigente durante le performance. Il pubblico giapponese è il più tranquillo, quello americano ha imparato a non tossire, ma quello napoletano li ha superati tutti: silenzio assoluto in sala, non si sentiva volare una mosca anche quando suonavo pianissimo, salvo poi esplodere alla fine in un entusiasmo tipicamente partenopeo. Sa che per un certo periodo ho vagheggiato di trasferirmi in Italia? Ma alla fine sono uno stanziale» • «Uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi» (Luna). «Uno dei più grandi pianisti della storia del jazz. […] Una delle personalità più originali e straordinarie della musica dei nostri tempi, un musicista che con il suo lavoro ha contribuito in maniera determinante a far cadere le barriere tra musica accademica e musica popolare, accreditando il jazz e l’improvvisazione nelle sale da concerto di tutto il mondo, non ultima la Scala di Milano. […] È forse il più popolare e amato tra i musicisti di frontiera, vero e proprio simbolo di una musica che va al di là dei generi, che mescola senza problemi culture, stili, linguaggi diversi e che insegue, allo stesso tempo, una nuova idea di classicità» (Assante). «Come Louis Armstrong, Charlie Parker e Miles Davis prima di lui, Keith Jarrett “è” il jazz. Sin dalla giovine età lo ha sempre suonato divinamente, a maturità raggiunta ha contribuito a trasformarlo e, oggi, più che suonarlo lo impersona» (Prisco). «È l’eccellenza della musica in ogni forma. Chiamarlo jazzista è una limitazione, anche se, per formazione, il titolo gli spetta di diritto» (Videtti). «È un autore di musica contemporanea: il jazz non lo contiene tutto. […] “Un musicista jazz”, scrive Jarrett, “va in scena sperando di avere un rendez-vous con la musica. Sa che la musica è lì (è sempre così). Ma l’incontro dipende non solo dal sapere ma dall’essere aperti. La musica dev’essere riconosciuta e rivelata all’ascoltatore, il primo dei quali è il musicista stesso”. Ascoltare, un’attitudine che i compositori occidentali dal dopoguerra scaricano volentieri su chi sta seduto in sala, mentre il musicista jazz nasce come orecchio aperto sull’imprevedibile. Nei suoi viaggi andata e ritorno da Bach a Miles, Jarrett ha versato gli elementi liberi dell’improvvisazione nella musica colta e la disciplina dei testi scritti nell’improvvisazione. Separare i tanti Jarrett che sono in Jarrett significa non aver capito niente, non solo di Jarrett, ma della contemporaneità tout court» (Cella). «La sua eterodossia ne fa un esempio artistico a se stante, senza possibili riferimenti a un unico ambito musicale: più che al jazz in sé, Jarrett ha fatto fare un grande balzo in avanti alla cosiddetta “Americana”, impresa riuscita a pochissimi jazzisti presi singolarmente» (Morelenbaum Gualberto). «Insopportabile insuperabile indisponente Jarrett: ultimo, sublime maestro del jazz, pianista dal tocco sopraffino in perenne sfida con se stesso, alla ricerca dell’assoluto. Impresa impossibile, anche se l’indisponente Keith ci è andato spesso molto vicino, schivando le insidie del proprio sfrenato narcisismo e a costo di pagare il prezzo di un equilibrio emotivo instabile» (Molendini) • «Se c’è un pianista che vale la pena di ascoltare, […] qualsiasi cosa voglia suonare, ebbene è Keith Jarrett, capace di commuovere e di esaltare, in grado di inventare ogni sera, in ogni concerto, inedite figure musicali e al tempo stesso in grado di far viaggiare chi ascolta in una straordinaria macchina sonora che non conosce limiti di tempo e di spazio. Ogni suo concerto, insomma, è una vera e propria esperienza, un modo per arrivare straordinariamente vicini al cuore della musica stessa, per provare a carpirne il segreto. Un segreto che Keith Jarrett conosce davvero bene» (Assante). «In fondo Jarrett celebra un rito senza tempo, per certi versi antichissimo, rende omaggio alla creazione, alla composizione istantanea, e lo fa davanti al pubblico, condividendo con gli spettatori l’emozione della scoperta, il cammino, passo dopo passo, verso qualcosa che lui stesso non conosce prima di iniziare questi viaggi» (Gino Castaldo). «L’impressione […] è che sia un suono molto cercato, poco spontaneo e libero, anche se dice di suonare dal nulla. A tratti il fraseggio è freddo e si perde in un formalismo astratto, poi si trasforma improvvisamente in un’ondata swing, un’onda anomala che si perde in divagazioni, una malia increspata di figurazioni minimaliste, una brezza ipnotica che è tutto il contrario di quel fraseggio freddo con cui apre la tastiera, e allora ti sembra di ammirare una volta gotica restando nel guscio di un’intimità. Sembra come se questo artista inquieto e fragile, che ha un rapporto fisico col pianoforte, fosse alla ricerca della formula definitiva, di una perfezione irraggiungibile, che non esiste. Quel che è certo è che suonare, per il pianista più dotato e urticante, è un atto estremo» (Cappelli). «Le esibizioni solistiche di Keith Jarrett hanno attirato in tutto il mondo un pubblico che è del tutto inusuale, non solo per il jazz, ma per la musica improvvisata in genere. La comunità jarrettiana è qualcosa di più di un incontro tra amanti della musica: i suoi concerti sono più che manifestazioni artistiche. Sono un rito, un avvenimento spirituale, si potrebbe dire trip collettivi, durante i quali uno stregone della musica trasporta i suoi seguaci dal silenzio, via via, attraverso gli spazi della sua immaginazione, e di nuovo al silenzio» (Peter Rüedi). «Il jazz è di per se stesso improvvisazione. Ogni momento storico della musica nera ne è segnato. […] Ma l’improvvisazione di Keith Jarrett ha qualcosa di diverso, di religioso e di più universale. È musica fatta di mille musiche e s’impone asceticamente di inventare ogni volta tutto: lo stile, la forma, il contenitore stesso. […] Anche il più distratto degli spettatori, solo che sia sensibile ai segni, davanti a un’improvvisazione di Keith Jarrett non può fare a meno di avvertire l’alone di un rito sciamanico, il corpo che geme, si inarca e si flette sul pianoforte quasi a possederlo, tende ad annullare le distanze della materia, in uno stato di possessione, attraverso la musica, simile e opposto a quello dei sufi. Nell’improvvisazione di Jarrett si usa il corpo per generare musica; nella danza cosmica dei dervisci la musica è la scala per l’estasi. In entrambi i casi si tratta di uscire di sé» (Cella) • «Come ci si sente sul palco col pensiero di dover partire da zero? “Non so neanch’io cosa aspettarmi, mi affido all’esperienza. Ho solo la certezza che qualcosa accadrà. Non so esattamente quando e dove o in quale parte del concerto, ma c’è un momento in cui la musica si svela nella mia testa in maniera meravigliosa”. Cos’ha in mente quando appoggia le sue mani sulla tastiera? Una melodia? Uno schema? “No, niente di niente. […] Di solito parto con quattro accordi in la minore, senza sapere dove mi condurranno. Mi fido dei messaggi che arrivano dall’interno del mio corpo, ma non saprei dire, in quegli istanti, perché suono quel che suono”. Che importanza hanno i dettagli, il teatro, il pubblico, il camerino, l’accoglienza? “Tutto può fare la differenza, e questo spiega perché i momenti migliori arrivano sempre nel secondo set: è lì che finalmente riesco ad abbandonarmi totalmente alla musica, non ricordo neanche dove mi trovo. Dov’è la mia testa? Dov’è voltato il mio cervello? Cosa voglio fare? Qualsiasi sia la risposta, voglio che quel momento duri fino alla fine del concerto. Non voglio organizzarlo in una struttura musicale, ma tuttavia è una complessa struttura di sentimenti ed emozioni. […] È tutto legato all’emozione, che cresce e cresce, inizia con un preludio e procede in profondità a livello emozionale”» (Videtti). «Io amo creare struttura, dare corpo e logica, il che è ben più complesso da fare in un ambito che non sia scritto ma improvvisato. […] Il contesto può darmi qualcosa, il luogo, il tipo di pubblico, ma sono “io” a reagire: è pur sempre la “mia” musica a dovere prendere le mosse da tutto ciò» (Morelenbaum Gualberto) • «È verosimile pensare a Keith Jarrett come a uno di quegli artisti che sono allo stesso tempo fuori e dentro il tempo in cui vivono. Difficile negare che sia un contemporaneo, almeno come sensibilità e percezione, non fosse altro che per il fatto di essere uscito dal laboratorio di Miles Davis, che era un maestro assoluto e visionario di modernità, ma anche per quel privilegio accordato all’improvvisazione, che è per definizione un’arte del presente, nel suo svolgersi nel momento stesso in cui viene percepita. Ma è anche vero che nella sua musica c’è sempre un senso di altera distanza dal mondo, come se Jarrett vivesse in un universo tutto suo, il che è per molti versi inconfutabile ed è confermato puntualmente dalle sue parole, quando si decide a parlare di sé. È fuori dai giochi e dalle mode culturali, fuori dalle bagarre dell’ambiente, un intellettuale isolato e silenzioso che parla prevalentemente attraverso la sua musica, poco disposto a lasciarsi influenzare da quello che gli accade intorno. Non sembra granché interessato all’evoluzione tecnologica, meno che mai alle questioni terrene del sociale. Quello che gli interessa è barattare il senso del quotidiano con un briciolo di eternità» (Castaldo) • «Lei si sente del tutto a suo agio […] nel cambiare costantemente mondi: dall’accademico all’improvvisazione, e viceversa. Mi chiedo però se siano contesti che si influenzano a vicenda, oppure lei voglia o sappia tenerli separati… “Fondamentalmente cerco di tenerli separati. […] Se devi affrontare un testo musicale scritto, devi lavorare e prepararti in un altro modo. Se improvvisi, sei solo con te stesso, cerchi di approfondire il tuo pensiero, di esplorarlo compiutamente, di dare forma e logica a quello che sei in quel momento e oltre. È una relazione intima, personale, profonda. Se devi avvicinarti a un altro autore, il procedimento per certi versi è lo stesso, perché devi immedesimarti, devi arrivare al momento in cui tu sei l’altro compositore, in cui riesci a pensare come lui, non devi pensare a te stesso e a come suonare quella musica attraverso te stesso. Devi, invece, pensare a come essere il compositore e a come suonare la sua musica attraverso di lui, identificandoti nel suo pensiero. Ecco perché non si può eseguire e interpretare musica di altri autori senza conoscere tutto il loro contesto, almeno quello storico”. […] Lei improvvisa suonando Mozart, per esempio? “No”. Non si concede qualche libertà neanche nella cadenze? […] “No, in genere no. Ogni tanto, forse, qualche piccola cosa. […] Non voglio stravolgere il pensiero dell’autore, né però voglio pensare che esso possa essere del tutto immobilizzato”» (Morelenbaum Gualberto). «Alla luce della sua esperienza riesce ancora a concepire dei confini tra musica scritta e improvvisazione? Steve Reich sostiene con fermezza che è una questione di approccio e di metodo: la musica classica contemporanea deve essere scritta. “Questa è una stronzata bella e buona. Io compongo da una vita, sono andato ben al di là dell’esperienza jazzistica e considero l’improvvisazione la più contemporanea delle musiche contemporanee. L’ambiente della musica classica è malato di pragmatismo, i jazzisti sono molto fortunati a non esserne condizionati. Io sono nel mezzo: quando improvviso cerco di adattare la mia vita al momento, e se ci riesco so che sta succedendo qualcosa di buono in musica. E, mi creda, Bach, Mozart e Beethoven sono altrettanto contemporanei, perché riescono ancora a convincermi all’ascolto, al contrario della maggior parte dei maestri di musica contemporanea. Decisamente avrei preferito vivere nelle loro epoche, in un mondo senza internet”» (Videtti) • «Prima di affermarsi come leader, ha suonato con Charles Lloyd, i Jazz Messengers di Art Blakey e Miles Davis: cosa le hanno insegnato? “Per Blakey è una risposta difficile: era un uomo molto dolce, ma quando provavamo nuove composizioni mandava il figlio al suo posto. Quando abbiamo registrato, Art Blakey non aveva ancora ascoltato la musica alla quale avevo contribuito anch’io. L’unico che mi ha insegnato qualcosa è stato Miles. Da lui ho imparato che ci sono diversi modi di dirigere una band. Me li ha fatti scoprire. Ma quando ero con Miles entrambi sapevamo che sarebbe durato poco. Così è stato. Miles è stato il miglior ascoltatore di una band con la quale abbia lavorato. A volte poteva voler dire che fosse il musicista migliore. Anche quando suonava la stessa frase due volte, ti convinceva che la stavi ascoltando per la prima volta. Credo sia stato l’unico leader che ho lasciato sapendo molte più cose di quando sono entrato nel gruppo. Non tanto sulla musica, ma su come essere leader”» (Pellicciotti) • «Il silenzio è più importante della musica, e anche più potente». «Non c’è nessun altro di mia conoscenza che sia più impegnato di me a ricercare l’espressione e l’integrità, senza inchinarsi alle pressioni del mercato». «Dico continuamente ai miei allievi: “Se devi suonare, suona come se fosse l’ultima volta”» • «Quanto ha dovuto sacrificare per arrivare a questo livello? “Ogni cosa, tutto. Quando parlo con gli studenti, la prima cosa che chiedo è: a cosa non rinunceresti mai? Se rispondono ‘uscire con gli amici’, ‘avere del tempo libero’, ‘divertirmi’, ribatto: non ho nulla da insegnarti. C’è un solo modo di fare questo mestiere: dedicargli la vita. Io sono tra i fortunati, per la relazione trentennale che ho con la mia seconda moglie e per essermi tenuto alla larga dalle droghe. Ma niente avrebbe potuto trascinarmi via dalla musica. Io trovo pace solo nella realizzazione delle cose che amo”» (Videtti).