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 2021  maggio 18 Martedì calendario

Biografia di Livio Berruti

Livio Berruti, nato a Torino il 19 maggio 1939 (82 anni). Ex sprinter. Medaglia d’oro dei 200 metri alle Olimpiadi di Roma del 1960, primo europeo nella storia dei Giochi. Ventiquattro record italiani (tre sui 100 metri sino a 10,3”, 10 nei 200 metri, 11 in staffetta 4x100 metri) e 15 vittorie ai campionati italiani (sei nei 100 metri, 8 nei 200 metri, una in staffetta 4x100 metri).
Vita «Sono cresciuto nel vercellese, a Stroppiana, dai nonni, dove sono rimasto fino al 1950. Non ho sofferto la fame durante la guerra. In campagna si stava bene. Ho fatto le elementari dalle suore e poi sono venuto a Torino per gli esami di quinta elementare. Mio padre, che era un perito chimico, dirigeva una sezione dell’Arsenale militare di Torino: era esperto in pellame e forniva all’esercito il materiale necessario» (a Francesca Bolino) • «Mia nonna possedeva una riseria, la chiamavamo così. E la frase in voga tra noi rampolli era: andum a mondin! Andiamo a mondine. La sera le mondine aspettavano che i ragazzi le portassero a ballare. Venivano dal Veneto e dormivano in una specie di caserma. Il ricordo più vivido? Il montone che mi regalò mio padre quando avevo sei anni e che viveva con me come fosse un cane. E poi la cerimonia del maiale, che si teneva a novembre. Io ero addetto all’assaggio del ripieno degli agnolotti e facevo a gara con mio nonno a chi ne mangiava di più» (a Enrico Sisti) • Figlio unico di una famiglia della media borghesia, frequentò il liceo classico Cavour di Torino, dove fu scoperto come velocista nel corso delle selezioni per i campionati studenteschi, nei quali vinse gli 80 m in 8,7”, record tuttora imbattuto • «Lei come iniziò? “Inseguendo i gatti in campagna. Mi accorsi di essere veloce perché spesso li acchiappavo, e perché, a tennis, quando scendevo a rete arrivavo così veloce che non riuscivo a fermarmi e mi toccava saltarla”. Tennista mancato. “Di più. Iniziai a correre per giocare a tennis gratis”. Non proprio un avvio romantico. “Ho applicato la regola secondo cui è il caso a determinare il futuro di ciascuno”. E a lei che successe per caso? “Al ginnasio, liceo Cavour di Torino, un giorno facemmo l’ora di educazione fisica con un’altra classe, quella del più veloce della scuola, Saverio D’Urso; siamo amici ancora adesso e continua a dirmi che feci fatica a batterlo... Non è vero. Il prof, Melchiorre Bracco, che fin lì mi aveva considerato un saltatore, mi iscrisse agli 80 metri ai campionati studenteschi. Non mi ero mai allenato eppure, pronti e via, feci 9’’1, miglior tempo nazionale. Felice Foglietti, un compagno che gareggiava per il gruppo Lancia, mi disse: Dai, vieni a fare la staffetta con noi.... Perché no?, pensai, alla Lancia avevano degli splendidi campi da tennis... Alla prima gara sui 100 feci 114; poi 112. Il prof mi disse: Nelle prossime vai più piano sennò passerai di categoria e non potrò schierarti ai campionati scolastici.... Solo che un giorno invitarono Gigi Gnocchi, il primatista italiano. Era in batteria con me. Per far contento il prof avevo mangiato, così, con la digestione in corso, sarei andato più piano. Niente: 11 netti. Addio campionati con la scuola. Però iniziai a gareggiare stabilmente per il gruppo Lancia e altrettanto stabilmente a giocare gratis a tennis”» (a Benny Casadei Lucchi) • «Mio padre Michele e mia madre Alda erano d’accordo su un punto fondamentale: se fossi andato bene a scuola avrei potuto correre tutto il tempo, in caso contrario, meglio smettere subito (…) Mi allenavo un’ora e mezza due volte alla settimana, sempre dopo lo studio e la lettura. In testa mentre correvo mi facevano compagnia le note jazz di Bix Beiderbecke e di quelli che poi sono diventati i miei amici, Gianni Basso e Franco Cerri…» (a Massimiliano Castellani) • Tesserato dal club Lancia, già nel 1959 corse i 200 in 20”7. «Chi era il suo allenatore allora? “Peppino Russo. Un giorno mi disse: ‘Berruti, poiché corri bene la curva, prova i 200 metri con Cazzola che è un campione. Parti con lui’. Lo feci e vinsi di nuovo. La notizia apparse su Tuttosport. Io ero felice, ma accade un imprevisto che ho poi scoperto anni dopo: certi amici medici dei miei genitori iniziarono a preoccuparsi”. Perché? “Allora la medicina sportiva era agli inizi. Chiamarono mio padre dicendogli: ‘Non può fare i 200 metri, è troppo giovane e gracile. Fai attenzione, lo stanno rovinando’”. E suo padre cosa fece? “Prese carta e penna e scrisse alla Federazione, diffidandoli dal farmi correre i 200 metri. Naturalmente la sua lettera non fu presa in considerazione”» (a Francesca Bolino) • Arrivò al record del mondo e al titolo olimpico del 3 settembre 1960 correndo due volte, a distanza di un’ora (semifinale e finale), in 20”5, interrompendo il dominio nordamericano fino a quel momento incontrastato • «Alle 15.50 del 3 settembre 1960, in semifinale, Livio Berruti aveva annichilito gli avversari correndo in scioltezza gli ultimi 40 metri e bloccando il cronometro ad uno stupefacente 20”5, primato mondiale uguagliato. A partire da quel momento, il territorio del mezzo giro di pista non dovette sembrargli ostile, tale fu il distacco con cui, accosciato a terra timoroso d’aver speso troppo in semifinale, s’attardò ad assistere al riscaldamento degli avversari. Fu in quei minuti che Ray Norton, Lester Carney, Stonewall Johnson, Marian Foik, Abdoulaye Seye, tre americani, un polacco, un franco-senegalese, compresero come la loro condanna fosse stata annunciata con due ore d’anticipo. Berruti, il tecnico Giuseppe Russo a dieci metri, iniziò a muoversi quaranta minuti prima del colpo di pistola dello starter Primo Pedrazzini. Il distacco che gli segnava il volto aveva un’unica spiegazione: Berruti non conosceva emozioni. La corsa in curva di Berruti non era umanità in azione. Era una linea disegnata da Raffaello. A 90 metri dall’arrivo, uno scarto imprevedibile, un irrazionale irrigidimento dell’azione avrebbe potuto privarlo della vittoria. Non accadde. Solo un leggero cedimento finale, reso ancor più visibile dalla violenta rimonta del nero meno atteso, Carney, secondo sul filo a sette centesimi da Livio. I cronometri furono bloccati ancora a 20.5 manuale, 20.62 elettrico […] Ebbe in premio la Fiat 500 destinata ai campioni olimpici. Nelle tasche, un assegno di 800mila lire del Coni, un altro da 400mila per i due primati mondiali. Rientrando giorni dopo a Torino alla guida di una 600, fu inseguito, bloccato e multato per eccesso di velocità da una monolitica pattuglia della Stradale» (Augusto Frasca) • «Per oro e record del mondo mi dettero un 1 milione e 200 mila lire con cui mi comprai una Giulietta Sprint che di milioni ne costava 2. La 500 donata dalla Fiat? Non l’ho mai vista. Però con la 600 io e Ormezzano viaggiammo da Roma a Torino inseguiti dalla polizia» (a Sisti) • «“Ho sognato di scrivere questo articolo per tutta la mia vita”. Così, concedendosi la necessaria retorica, Gianni Brera avvia il pezzo che celebra sul Giorno del 4 settembre del ’60 la vittoria di Livio Berruti nei duecento piani alle Olimpiadi di Roma, un trionfo che le immagini di repertorio hanno reso leggendario, con il volo augurale dei colombi che accompagna il rettifilo del campione piemontese. “Furono dieci secondi così tormentosi da stupirmi ancora adesso di averli potuti superare. Infine scorsi il filo di lana tendersi sul suo petto: e Berruti cadere. E forse baciare la terra; e il pubblico urlare per lui che aveva vinto. (...) Dovremo ricordarci di questo giorno. Lo sport italiano non ne ha mai vissuti di più esaltanti nella sua storia, che pure è molto notevole”» (Massimo Raffaeli) • «Fiero di essere stato, nel 1960, «il primo europeo a vincere i 200 metri in un’Olimpiade e pure con gli occhiali neri e i calzettoni bianchi». Gli occhiali neri: «Ero miope, li usavo nella vita di tutti i giorni però sono diventati un simbolo di ribellione». I calzini bianchi: «Li portavano in pochi, andava il piede nudo. Io ci correvo bene, per moda li abbinai a un paio di scarpe dello stesso colore» (a Giulia Zonca) • «Le uniche due volte che ho pianto in vita mia è stato quel giorno sul podio appena ho sentito le note dell’inno di Mameli e poi la lunga notte del ”69 quando in diretta tv ho assistito allo sbarco di Armstrong sulla luna» (a Castellani) • Dopo la vittoria olimpica si laureò in Chimica industriale all’Università di Torino. «Nella sua vita di universitario alla facoltà di Chimica e di lettore appassionato del Candido di Voltaire, non era cambiato niente. Neppure dopo che era salito sul podio con al collo la medaglia d’oro capiva perché tanti paparazzi, sconfinati dalla dolce vita felliniana, fossero così interessati alle sue passeggiate platoniche, mano nella mano con la figlia del vento Wilma Rudolph, trionfatrice anche lei nei 200» (Castellani) • Continuò la carriera di corridore dilettante con il quinto posto nella finale dei 200 metri alle Olimpiadi di Tokyo 1964 e il settimo agli Europei di Budapest 1966. Ai Giochi di Città del Messico, nel 1968, fu eliminato nei quarti di finale dei 200 metri, ma fu finalista con la 4x100 metri (settimo) • «A Tokyo nel ”64 ai giapponesi spiegai che forse quel mio volare in curva era frutto di un passato nel pattinaggio. Non l’avessi mai detto! Credo di aver rovinato un’intera generazione di velocisti giapponesi che cominciarono a darsi al pattinaggio, ma senza poi ottenere i risultati sperati quando in pista affrontavano le curve. Andare più veloci, superare i propri limiti umani rimane un mistero. Quei limiti li ha spiegati bene Jacques Monod nel suo libro Il caso e la necessità in cui scrive che a una serie di conseguenze genetiche vanno sommate delle variabili frutto della casualità» (a Castellani) • «Perché smise? “Perché una mattina, nel ’68 ai Giochi del Messico, mi sono accorto di non essere più innamorato, puff, tutto era svanito. A 30 anni iniziai a fare account in un’agenzia pubblicitaria”» (a Sisti) • «La memoria più cara in assoluto. “Bruxelles, 1961. Oro al Mondiale militare nello stadio dell’Heysel, che diventerà tristemente noto. Mi viene incontro un anziano, che mi bacia le mani e mi ringrazia. È un vecchio emigrato che con il mio successo si era sentito riscattato dalle angherie che subiva come italiano all’estero. Nel raccontarglielo mi commuovo ancora”» (a Gaia Piccardi) • «Lei e Pietro Mennea. “Mi dispiace dirlo: è stato un grande atleta ma con me si è comportato da pessimo uomo. Purtroppo la vicenda che ci riguarda non è mai stata messa in evidenza. Era il 1979, un giornalista mi aveva chiesto che cosa pensassi della decisione di Mennea di rinunciare a gareggiare in Coppa del Mondo, a Montreal. Gli avevo risposto che forse aveva paura, precisandogli che però era un commento da non mettere nell’intervista. L’articolo uscì invece con la frase Pietro è un fifone. Ovviamente Mennea la prese male e io iniziai a cercarlo al telefono per spiegargli e chiarire. Niente. Si negava. Così andai da lui, a Formia. C’erano delle gare, aspettai, e all’imbrunire lui dal campo mi fece segno di scendere dagli spalti e raggiungerlo. Iniziammo a camminare, mi teneva sottobraccio, lo seguii fuori dal campo, verso gli aranci. In quel momento, dagli alberi spuntarono suo fratello Vincenzo e altre tre persone. Vincenzo mi tirò un pugno e Pietro iniziò a insultarmi. Per fortuna, da lontano, Erminio Azzaro e Gianfranco Baraldi videro la scena e corsero ad aiutarmi. Arrivò anche un maresciallo dei carabinieri che voleva denunciarli. Ma Luca di Montezemolo, all’epoca a capo delle relazioni esterne Fiat, diede indicazione di bloccare tutto. Mennea gareggiava per l’Iveco e io ero un dirigente Fiat che seguiva l’immagine sportiva del gruppo, per cui...”. Mennea non può controbattere. “Ma questo fu. E c’erano testimoni. Quanto allo sport, lui ha rappresentato il salto di qualità della nostra atletica dal dilettantismo e puro talento al professionismo. Anche Sara Simeoni era una professionista, ma al contrario di Mennea gareggiava con il sorriso, senza rabbia, senza dare un’immagine incacchiata dello sport”» (a Casadei Lucchi) • «Come sta? “Spiritualmente benissimo: ho ancora curiosità, voglia di conoscere e fare. Ho una gamba che, per l’artrosi, non funziona più molto bene: cammino con due bastoni. Non sono più bi-turbo, sono bi-bastone”» (a Gaia Piccardi nel 2019 per gli ottant’anni).
Amori Sposato dal 1988 con l’avvocatessa Silvia Balma Alle Olimpiadi di Roma del 1960 s’innamorò di Wilma Rudolph. “Alta, elegante, magnetica. Due occhi vivi e colmi di promesse. Un fluido ammaliante, dentro il quale immergersi”. Si incontrarono al Villaggio Olimpico e fu un colpo di fulmine: “La Rudolph vorrebbe scambiare la tuta con te, Livio”, gli dissero. Cinque minuti dopo la presentazione li fotografarono già mano nella mano. Nei giorni successivi seguirono incontri fugaci, ma non rimasero mai da soli: “C’erano sguardi lunghissimi, occhi negli occhi, perché da subito ci eravamo sintonizzati. Con le mani, che stringevamo appena potevamo, ci comunicavamo tutto ciò che le parole non esprimevano. Negli abbracci Wilma mi trasmetteva una magia e una volta le rubai un bacio a fior di labbra, fugace e rapidissimo, però i coach erano come cani da guardia, le trasgressioni non erano permesse e all’epoca vigeva una legge ferrea: mai sesso prima delle gare”. […] Conserva ancora, sotto naftalina, la tuta della Rudoplh: “Se ne occupa mia moglie Silvia, che l’accudisce senza gelosia. Nemmeno la Loren e la Lollobrigida mi stregarono così”» (Gaia Piccardi).
Religione «Sono un agnostico. Ritengo che le ideologie politiche e religiose siano soprattutto funzionali al potere di chi comanda in un dato momento» (a Casadei Lucchi).
Vizi «Per ragioni estetiche in finale a Roma cambiai le scarpe, al posto delle Adidas misi le Valsport bianche, più rigide. Volevo che le scarpe fossero bianche e bianche furono. Come le colombe» (a Sisti).