20 maggio 2021
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Biografia di Maria Grazia Ciani
Maria Grazia Ciani, nata a Pola (allora appartenente all’Italia, oggi alla Croazia) il 21 maggio 1940 (81 anni). Grecista. Accademica. Saggista. Traduttrice. Scrittrice. «La letteratura è forse l’unica Itaca a cui un esule può aspirare» • «Dove è nata? “A Pola, pochi giorni prima dello scoppio della guerra. Durante il conflitto traslocai dai nonni materni in campagna, precisamente a Gallesano, dove sono rimasta fino alla fine delle ostilità. Ricordo vagamente il ritorno di mio padre dalla guerra, ufficiale di marina. Non ho memoria di altri eventi particolari. In casa dei nonni mi sono sentita più che altro un’ospite provvisoria”. È buffo in una bambina. “È come un ritorno tardivo di consapevolezza. Non ho sviluppato nessun senso delle radici e nessun sentimento di appartenenza. Crebbi da sola. Sono stata amata, ma senza attenzioni particolari. Nessuno allora badava ai bambini, almeno dal punto di vista psicologico. C’erano altre tensioni, come se l’attenzione alla vita materiale richiedesse sforzi che lasciavano fuori la preoccupazione per l’infanzia”. È stata una bambina felice o no? “La felicità è un sentimento che l’infanzia deprime o esalta in un batter di ciglia. Ero figlia unica. Mio padre spesso fuori sulle navi, mentre mia madre si occupava di me. Era laureata in Francese a Ca’ Foscari, ma non ha mai insegnato. Penso sia duro aspirare a qualcosa e poi rinunciarvi. Comunque i miei si separarono che avevo 12 anni. Mia madre era di origini dalmate. Il mare l’aveva resa una donna solare. Mio padre era di origini croate, forse ungheresi: so poco di lui. Era chiuso e incline alla malinconia. Fu prima la guerra a separarli, e poi la vita”. […] Nel 1945, finita la guerra, Pola fu occupata dalle truppe di Tito. E per gli italiani cominciò un esodo non semplice. Lei aveva cinque anni. Che cosa le stava riservando il futuro? “Non avevo idea del futuro. Dopo la strage di Vergarolla, dove morirono quasi settanta persone di Pola, si disse che erano stati i servizi segreti di Tito a far saltare il deposito di munizioni. Quel giorno del 18 agosto [1946 – ndr] più di duemila persone assistevano alle gare di nuoto sulla spiaggia. Dopo quell’eccidio cominciò il grande esodo: da Pola andarono via 350 mila persone. Mio padre come militare fu mandato di stanza a Venezia e noi ci trasferimmo a vivere al Lido. Fu lì la mia adolescenza. A Venezia mi diplomai al conservatorio Benedetto Marcello: in pianoforte con Sergio Lorenzi e in solfeggio e composizione con Bruno Maderna”. Sono stati due grandi della musica. Questa passione da dove le arriva? “Dall’ambiente familiare, la cui derivazione asburgica permetteva che in ogni casa fosse d’obbligo avere un pianoforte. Mio padre suonava il violino a orecchio. E poi mio cugino Dino Ciani [morto a soli 32 anni in un’incidente stradale, nel 1974 – ndr], anche lui sfollato da Pola, mostrò grande inclinazione per la musica. […] Era molto amico di Maurizio Pollini. Più o meno coetanei, di loro si parlava come di due enfant prodige. […] Sì, il suo fu vero talento. È stato davvero grande”. E lei? “Ero precisa e avevo agilità. Mi presero al conservatorio dopo una selezione durissima. Che posso dire? Forse non aspiravo a diventare una pianista. A Padova ho fatto la carriera universitaria, ho avuto un figlio. Mio marito, che fu un grande latinista, non aveva una educazione musicale. Ho suonato sempre meno, e mi sono accorta di non possedere più forza nelle dita”» (Antonio Gnoli). Allieva all’Università di Padova di Carlo Diano (1902-1974) – «un grandissimo grecista che non ha avuto i riconoscimenti che meritava. Scriveva poco. Ma ai suoi scritti occorrerebbe tornare. Era talvolta estroverso, talvolta ombroso e irascibile. A volte sembrava distratto, perduto in un mondo “altro”. Eppure non gli sfuggiva nulla» –, che nel 1962 fu relatore della sua tesi di laurea in Letteratura greca, dell’ateneo patavino fu quindi a propria volta docente, insegnando, a partire dal 1980, dapprima Lingua e civiltà greca, poi Storia della tradizione classica. Tra le sue varie traduzioni di testi greci (la Biblioteca di Apollodoro, la Medea di Euripide, l’Aiace e l’Edipo re di Sofocle, le Lettere di Platone), particolare apprezzamento le valsero quelle, curate per la casa editrice Marsilio, dell’Iliade (1990) – per la quale nel 1991 ottenne il Premio letterario internazionale Mondello – e dell’Odissea (1994), entrambe in prosa. «“Non sono stata io a scegliere Omero, anche se è vero che ho sempre prediletto l’epica. È stato il mio editore Cesare De Michelis, della casa editrice Marsilio, che mi ha convinta a tradurre prima l’Iliade e poi l’Odissea. Ho affrontato l’impresa con una certa dose di incoscienza, ma forse è stato bene così, altrimenti non avrei avuto il coraggio di intraprendere un lavoro così difficile e così lungo. Sono stata incoraggiata, spinta a impegnarmi, sostenuta nei momenti di sconforto, ma, insomma, sono arrivata in fondo. E Omero rimane l’autore che preferisco, anche perché è quello che ho approfondito di più”. […] Lei ha utilizzato la prosa: perché? “Bella domanda! Esiste una bibliografia sterminata sul problema della traduzione, e ancora non si è giunti a una definizione. […] Né poesia né prosa sono la soluzione ottimale se non si coglie il ritmo della lingua di origine, e soprattutto il significato profondo del lessico usato dagli antichi. L’ideale è il poeta che ha l’‘orecchio assoluto’ come i musicisti, altrimenti la traduzione diventa una resa verso per verso, che in realtà è una specie di prosa spezzata. Io ho scelto la prosa perché non sono poeta e non mi riesce di tradurre rispettando fedelmente la metrica. Perciò ho cercato di dare alla prosa un certo ritmo e ho curato il lessico cercando una terminologia medio-alta che rendesse o per lo meno cercasse di rendere il livello del dettato omerico”» (Camilla Aga). «Allora la scelta fu inevitabile: consideravo l’esametro soprattutto un verso narrativo, e quindi la prosa mi sembrò adatta alle mie possibilità» (a Davide Brullo). «Mi ha guidata una frase di Ernest Ansermet, il grande direttore d’orchestra. Diceva che una prosa che abbia un ritmo è già poesia. Tuttavia oggi sono più che mai convinta che ho tradotto “in perdita d’anima”». «“Per l’Odissea sono abbastanza contenta perché è un ritmo particolare, un esametro più sciolto, ma per l’Iliade no. L’Odissea prelude al romanzo di avventura, e quindi in un certo senso è più facile; l’Iliade […] è più marziale nel contenuto e anche nell’esametro. […] Quello che forse manca alla mia Iliade è il passo eroico, guerriero. E lì non c’è niente da fare. Mancano quegli enjambement, quelle pause che hanno un valore straordinario e che si colgono soltanto se si traduce poeticamente. Se io devo citare in un articolo qualche passo dell’Iliade, la ritraduco in versi sciolti, non vado a prendere la mia”. L’obiettivo della traduzione in prosa qual era? Rivolgersi a un pubblico più ampio? “Forse ho precorso i tempi: adesso la versione in prosa viene apprezzata e riconosciuta, viene letta anche dai giovani liceali. Il Monti resta il Monti: ‘Cantami o diva’ lo conoscono tutti, ma quando si va avanti, quando si arriva alle ‘divine quadrella’, gli studenti delle superiori, ma anche dell’università, restano con gli occhi sbarrati. È sempre una grande traduzione per gli italianisti, ma per tutti gli altri è dura. Una volta si diceva che i classici andrebbero ritradotti ogni vent’anni: io dico anche ogni dieci”» (Cristina Taglietti). Pluridecennale la sua collaborazione con la casa editrice Marsilio, per la quale ha fondato e dirige le collane «Il convivio», dedicata ai classici greci e latini, e «Variazioni sul mito», per la quale «si parte da un mito antico, una figura, un fatto, e si cerca l’influsso che può aver esercitato sulla cultura europea, nelle varie letterature (soprattutto francese, tedesca, inglese, anche spagnola). È una ricerca difficile: bisogna saper scegliere i testi adatti e poi commentarli nell’introduzione del volume, cercando di tener presente l’epoca in cui sono stati scritti, la personalità e i gusti dell’autore, eccetera. Non è cosa facile, ripeto, ma serve a far capire come l’antichità ha esercitato la sua influenza per secoli, fino ai tempi moderni» (tra i volumi da lei curati: Euripide, Seneca, Grillparzer, Alvaro: “Medea”; Euripide, Seneca, Racine, D’Annunzio: “Fedra”; Omero, Dante, Tennyson, Pascoli, Dallapiccola: “Il volo di Ulisse”). Ancora presso Marsilio, nel 2006 pubblicò il racconto autobiografico Storia di Argo (con prefazione di Claudio Magris), in cui «l’autrice ricorda un passato doloroso a lungo sepolto nella memoria e che finalmente riemerge a sprazzi. Attraverso gli occhi di se stessa bambina, rivive le drammatiche esperienze della popolazione italiana dell’Istria durante e dopo la Seconda guerra mondiale: i bombardamenti, l’occupazione tedesca, l’arrivo degli slavi, l’esodo. A simboleggiare il trauma dell’esilio forzato, lo straziante momento della separazione da York, un cane da pastore tedesco, cui la legava un affetto profondo, abbandonato la notte della fuga. Un animale che per l’autrice simboleggia una tragedia non solo personale. York, che, come Argo, il cane di Ulisse, ha continuato ad aspettare invano il suo ritorno fino alla morte. […] Un micro-romanzo a sfondo autobiografico sorretto da una scrittura limpida e concentrata e da immagini che non mancheranno di incidersi a fondo nella memoria del lettore. Una storia che Magris definisce “una metafora della vita stessa”» (Krsto Babić). «Il testo è diviso in tre parti: il passato remoto, la favola antica di Argo e Ulisse come appare nell’Odissea; il ritorno in età adulta in una terra non più riconoscibile, verso una casa che alla fine non vale la pena di rivedere perché “ha tradito”; ultima l’epifania, il ritrovamento di sé in un capanno dell’entroterra ruvido e abbandonato, dove l’autrice lascerà un disegno-segno: un cane e una bambina, un amore mai reiterato» (Gabriella Imperatori). «Quali ragioni l’hanno indotta e convinta, a diversi decenni da quell’esodo, a elaborare e dare alle stampe quel testo? “Volevo lasciare una traccia dell’esperienza più importante e traumatica della mia vita e l’ho concentrata su York, perché la sua perdita le riassume tutte, anche quelle successive, tutte le perdite della mia vita”. Argo era il cane fedele di Ulisse: York, il suo affezionato cane, […] è il deuteragonista del suo racconto. Il peregrinare di Odisseo, l’approdo a Itaca (che all’esule del Novecento è mancato): è come se lei abbia voluto creare dei nessi con il mito. Trasfigurare la storia, accreditarle valori estetici, può servire a mitigare la sofferenza indicibile della perdita? “Il legame con il mito è quello che Magris mi ha giustamente criticato. E, di fatto, è stato una sorta di escamotage: rievocando l’episodio di Argo, descrivo una sofferenza – quella di Ulisse – che dà ulteriore sfogo alla mia, ma non la mitiga affatto. […] Nel mio caso c’è senz’altro una rimozione profonda, e lo dimostra proprio il fatto che, mettendomi a scrivere, solo di York sono riuscita a parlare, e anche di lui con cenni brevi e asciutti. Come singhiozzi senza lacrime, direi, se non temessi di suonare retorica. Ma tutto il resto è immerso nella nebbia”» (Patrizia C. Hansen). Del 2019 è il romanzo La morte di Penelope (Marsilio), «una piccola meraviglia letteraria. […] Maria Grazia Ciani scrive una storia fatta tutta di monologi, come in un romanzo del Settecento. Sono monologi interiori: perciò la voce dell’anima può espandersi ben più che se il personaggio parlasse in pubblico. Altera e distante, Penelope in segreto ha smesso di aspettare Ulisse. Vent’anni prima, lo ha visto pochissimo, essendo egli subito partito. Lo ha atteso per anni; poi addirittura spera che sia morto. L’uomo era già da giovane per lei impenetrabile e spaventoso, pur avendole provato il suo amore. Nella folla dei Proci bevitori e approfittatori c’è anche il bellissimo e nobile Antinoo: affatto diverso da come lo descrive il Poeta. I suoi monologi lo mostrano perdutamente innamorato della regina. La particolare, fin perversa, nobiltà spirituale dei due è un capolavoro poetico della Ciani perché non confligge col fondo arcaico dell’animo loro. Antinoo non ha mai parlato con la regina, e non l’ha vista in faccia che una volta, ché ella si ricopre di un velo. Quando siede in trono guarda davanti a sé. Pure il loro rapporto, fatto solo di sguardi, è intensissimo: più che se l’eros fosse divenuto carnale. Il polytropos Ulisse si nasconde sotto veste di mendico. L’ultima gara è quella dell’arco del re: solo chi riuscisse a tenderlo, cosa solo a lui concessa, potrebbe avere Penelope. Travestito, Ulisse assiste. Tutti falliscono. Penelope porge per ultimo l’arco al suo Antinoo. Egli lo posa, senza nemmeno tentare il certame. Sa che subito dopo la prima freccia sarà per lui. Il diabolico polytropos aveva già tutto intuito. “Penelope non si era mossa. Ma il velo, per l’ultima volta, era caduto, e questa volta davanti a lei non più Antinoo, ma Ulisse la fissava con i suoi profondi, impenetrabili occhi. Lo riconobbe? Non ne ebbe il tempo. L’ultima freccia la colse in pieno petto, la violenza del colpo la piegò all’indietro, la testa abbandonata, le braccia spalancate in un turbinio di veli: per un istante sembrò che stesse per spiccare il volo. Come una rondine”. Maria Grazia Ciani è l’emula di Pascoli» (Paolo Isotta). «Dal gorgo dell’Odissea ha tratto Penelope, offrendo una “variazione” inattesa. Penelope non è più “angelo del focolare”, che con scaltrezza scansa le avance dei pretendenti, in una vita di attese, ma femmina e appassionata. Come le è venuta l’ispirazione? “Nessuna ispirazione. Semplicemente ho letto i mitografi, che di solito vengono trascurati, e in Apollodoro ho trovato questa variante su Penelope: Odisseo l’avrebbe uccisa perché aveva scoperto che lo aveva tradito con uno dei Proci. Di varianti su Penelope e Odisseo, i mitografi ne riferiscono molte, pur raccomandando cautela: ma è il loro mestiere, sono i giornalisti dell’epoca e devono dare conto anche delle ‘chiacchiere’. Da questa ‘notizia’, di una Penelope uccisa da Odisseo per adulterio, mi è venuta l’idea di un’‘altra’ Penelope, e il resto è nato dall’immaginazione. Non amo le riscritture dei classici, ma, per una Penelope che nell’Odissea non fa che piangere e lamentarsi, ho pensato a una donna che in segreto può coltivare anche altri pensieri e passioni. Anche suo malgrado”» (Brullo). Da ultimo, la Ciani ha pubblicato Le porte del mito. Il mondo greco come un romanzo (Marsilio, 2020), «una raccolta di saggi coordinati fra loro, non una silloge di articoli già scritti. Coniuga ancora una volta, questo libro, la limpidezza e la semplicità con la profondità e la difficoltà. Perché, quanto più breve, tanto più difficile è tentare il racconto della civiltà greca, del suo senso, di quel che ha lasciato al mondo. Eppure di quante cose questo libro è ricco, tanto che occorre leggerlo più volte per afferrarlo» (Isotta). «Un Achille che rifiuta l’eroismo, un Teseo che entra nel Labirinto senza il filo d’Arianna, un Odisseo che muore assassinato dal figlio avuto con la maga Circe. Nel suo ultimo libro Maria Grazia Ciani guarda al mito da prospettive spesso inconsuete. Rintraccia, tra le pieghe dei classici, le ipotesi di racconti mitologici paralleli, appena adombrati dagli antichi. Ma insegue anche le continue metamorfosi delle leggende antiche, comprese le loro più recenti riscritture fumettistiche, inaugurate da Dino Buzzati con la sua rivisitazione della storia di Orfeo ed Euridice nel Poema a fumetti. Il libro è un intreccio caleidoscopico di riflessioni sul mondo del mito e della letteratura antica. Ma è anche il bilancio (provvisorio) di un’intera vita dedicata allo studio dei Greci e allo sforzo di riproporli, senza mai facili attualizzazioni, nel linguaggio della contemporaneità. […] La mitologia, ci insegna Ciani, non è un mondo chiuso, ma un universo mobile e cangiante. Se noi, per esempio, presumiamo di sapere che Teseo entrò nel Labirinto con il filo donatogli da Arianna, ecco che Ciani evoca un’altra storia, dove l’eroe si addentra nella casa del Minotauro con in mano una corona d’oro che gli illumina il cammino. Forse lo stesso gioiello che, secondo il mito, oggi risplende nel cielo trasfigurato nella costellazione della Corona Borealis. Così, alla fine, il libro di Maria Grazia Ciani sembra inseguire lo stesso obiettivo che l’autrice assegna alle favole degli antichi cantori: aprirci gli occhi “sulla dura realtà della vita umana ma anche sull’infinità dei possibili e sulla potenza dell’immaginazione”» (Giorgio Ieranò). «L’autrice si schermisce per essersi concessa questa “specie di evasione”, per essersi lasciata andare alle impressioni, alle ipotesi, alla sperimentazione su quegli stessi temi indagati per anni con il rigore e l’acribia del filologo. Ma è una fortuna che l’abbia fatto. Ogni capitolo di questo libro è un breve, intenso racconto di una storia che anche per coloro che la conoscono o la riconoscono va sempre a finire in modo sorprendente» (Sergio Belardinelli). «Come ha vissuto questo periodo [la pandemia da Covid-19 – ndr]? “In solitudine. Leggendo. Annoiandomi. Pensando, che è la cosa peggiore che possa fare”. Davvero è la peggiore? “Ciò che provo è leggermente patologico. Anche quando vado fuori, io guardo per terra e penso. La mia mente non sta mai ferma. È come una musica, un ritornello, che si insinua nella mia testa e non mi abbandona per giorni. Da brava istriana provo a distrarmi con le faccende domestiche. Stiro, lavo i piatti, spazzo, rammendo e sento che la mia testa si fa leggera. È buffo. Ma è come se improvvisamente azzerassi tutta la tensione: e l’ombra si fa chiara fino a sparire”» (Gnoli) • Vedova del latinista Emilio Pianezzola (1935-2016), da cui ha avuto un figlio. «Com’è il matrimonio tra due lingue morte? “Abbiamo sempre lavorato separatamente, come se facessimo due mestieri diversi. Inoltre io non amo il latino e lo conosco poco e male. Ma lui oltre a essere uno splendido latinista è stato un uomo unico. Posso dire banalmente che la sua assenza mi ha privata del piacere di dare senso alle cose che faccio, se mai le cose che faccio abbiano avuto un senso per me”» (Gnoli) • «Non ho radici. Le uniche che ho messo sono nei libri e in due persone: mia madre e mio marito» • Ha definito la natia Pola «un luogo di bellezza e di pace di cui tuttavia ho perduto ogni traccia, nella memoria. Che non è mai tornato a me, neppure in sogno. […] Sono tornata in Istria due volte. […] Non credo che vi tornerò mai più. Tutto quello che è accaduto in quegli anni mi segue come un’ombra molesta da cui vorrei staccarmi, che vorrei tenere lontana da me, senza riuscirvi. Riesco a estrapolare frammenti di ricordo, lampi di memoria, emozioni circoscritte e autoreferenziali. Con un solo punto fermo, che è diventato per me, nel tempo, il simbolo di una tragedia non solo personale: e tuttavia, al tempo stesso, strettamente personale. Il cane York. […] I miei orizzonti sono limitati. Anzi, inesistenti. Lo sguardo si stacca a fatica dai piedi, che procedono in fretta, un passo dopo l’altro. Così cammino, così vivo. I ricordi, piccoli e grandi, sono banditi. Pesano tuttavia come pietre. E come pietre li chiudo in un sacco immaginario e li metto da parte. Dove, non so, ma so come ritrovarli. Intanto procedo più leggera. Dentro di me non porto niente. E non sogno mai: né il paese, né la casa con la terrazza, le scale, la tettoia. E neppure York». «La memoria non condivisa, […] le pietre chiuse nel sacco sono la mia zavorra, un peso che mi isola dagli altri ma che costituisce anche, per me, una specie di amaro conforto, quasi un segno di distinzione» • «La scelta del mondo antico come campo di lavoro di tutta la vita è stato forse un modo inconscio per seppellire ogni emozione in un’epoca arcaica, “morta”, e quindi non più soggetta a mutamenti o manipolazioni». «Alla fine, sa qual è la verità? Sono una persona che non ha passioni. Non posso dire che sia stata appassionata di qualcosa: né della musica né del greco. Se qualcuno mi dice “fai questo”, io lo faccio. Ho tradotto a calci Iliade e Odissea. E questo grazie a Cesare De Michelis, straordinario editore della Marsilio. Per me fu un’impresa colossale ma non volevo farla: potevo vivere benissimo senza Omero». «Il greco mi affascina sempre, non rimpiango la scelta che ho fatto. Scrivo volentieri e mi piace anche parlare. Nella vita quotidiana alterno lo studio ad altre occupazioni: amo la musica di tutti i generi, la palestra per gli esercizi a corpo libero, le passeggiate (mi piace camminare). Leggo romanzi moderni, mi piacciono le novità della Sellerio, della Feltrinelli, di Adelphi, eccetera: ho infatti una notevole biblioteca moderna. Sono molto curiosa di tutto». «Via col vento insieme a La grande pioggia di Louis Bromfield è stato il primo libro che ho letto. Il film, l’ho visto decine di volte» • «Una signora appartata che vive a Padova. […] È una strana donna: proviene direttamente dal fondo di un labirinto» (Gnoli) • «Uno dei massimi grecisti del nostro Paese» (Belardinelli). «All’inizio degli anni Novanta, le sue traduzioni dell’Iliade e dell’Odissea, dove il verso epico viene trasformato in una prosa limpida e scorrevole, hanno rotto il canone dell’Omero italiano, che, dopo il Monti e il Pindemonte, aveva conosciuto una sola vera frattura, quella rappresentata dalle versioni di Rosa Calzecchi Onesti, nate sotto gli auspici di Cesare Pavese» (Ieranò). In particolare, a proposito della sua traduzione dell’Iliade: «Generazioni di lettori saranno grati a lei e, speriamo, a san Gerolamo, per questo Omero fluido, elegante senza affettazione: dove il mare non è più urlante ma sonoro, e le navi tornano a essere concave da curve che erano diventate. L’Omero della Ciani si legge, a destra del greco, in una bella, autonoma prosa, eppure resta lui, Omero, estraniato dai millenni che ci separano dalla sua anonima composizione orale e insieme nostro, carne della nostra letteratura: quel mitico testo da cui hanno imparato a scrivere tutti coloro che sono venuti dopo. […] Ne esce il piccolo miracolo di una versione amica del lettore, buona compagna di corsi universitari e ospite insostituibile di ogni biblioteca domestica» (Maurizio Bettini) • «Si dice che la differenza tra Iliade e Odissea sta nel fatto che il primo è il poema della forza, mentre l’altro è il poema del viaggio e del ritorno. “È la lettura che ne dà Simone Weil. A mio parere l’Iliade rappresenta l’antica aristocrazia feudale, che educa i figli alle armi, all’agonismo, ma anche alla musica. È l’età delle guerre ma soprattutto dei guerrieri, chiusi nel loro mondo, bramosi di fama, onore e gloria, talvolta feroci ma non immuni dalla pietà. Nell’Iliade la figura di Ulisse sembra introdotta a forza. L’Odissea propone invece l’archetipo dell’uomo legato ai beni materiali, arido, cinico, spesso crudele, anche se capace lui pure di nobili azioni. È il compendio dell’uomo moderno”» (Gnoli). «“Preferisco tuttora l’Iliade. È, sì, un poema di guerra, ma ha in sé anche un lato contrario alla guerra medesima. Ne fa vedere il volto più feroce, ma anche risvolti umani. Anche Achille conosce la resipiscenza. L’incontro con Priamo è una tregua d’armi, una sepoltura di morti. Ci appare questo mondo di dolore, anche se la gran parte dell’Iliade è formata da duelli aristocratici. Amo le similitudini dell’Iliade: aprono il mondo della pace, il mondo come sarà quando l’erba ricrescerà sui prati, parafrasando Ermanno Olmi. Alla prima impressione è un poema di guerra, ma lancia messaggi che saranno ripresi nell’Odissea, come quando Nestore parla dei tempi di guerra come di quelli peggiori”. Odisseo, quasi paradigma dell’uomo greco, è figura dai diversi volti… “Su Odisseo è stata scritta una marea. Per quello che riguarda unicamente l’Odissea, Ulisse non è più solo il guerriero conquistatore di Troia con l’inganno: questo inganno […] rappresenta un passaggio di mentalità. È un uomo che sa adattarsi alle circostanze: Ulisse è il prototipo dell’uomo moderno che sa servirsi dell’inganno. Per questo è disprezzato dai tragici fino all’età bizantina. Tornerà in auge grazie all’immortale passo di Dante”» (Giovanni Masciola). «Io non amo Ulisse. Preferisco Achille» • «La lingua greca antica è morta. Non reagisce, non risponde. Bisogna indovinare, e non sempre riesce. Scivola come un serpente. Credere di averla in pugno è spesso un’illusione pericolosa. Quello che una parola significa in Omero può voler dire tutt’altro in Platone. Era il mio maestro Carlo Diano a ricordare agli allievi che su certi termini non si poteva mai essere sicuri e che fondamentale era la contestualizzazione». «Addentrarsi in una lingua morta è come entrare in un labirinto da cui talvolta si può uscire, talvolta no. Mi spiego: una lingua morta non reagisce, non risponde, non fornisce prove: tutto è affidato alla scienza filologica. Ma la scienza filologica non sempre è in grado di risolvere certi problemi posti dal lessico, dall’insieme di un’espressione. La lingua greca antica ha senza dubbio come base Omero, ma ovviamente si evolve nel tempo, e soprattutto, direi, “a scatti”: c’è un linguaggio omerico, un linguaggio tragico, e poi poetico, storico, retorico, filosofico e, non da ultimo, medico. E ognuno si crea un proprio stile e un proprio linguaggio, attingendo alla base omerica, ma innovando e arricchendo la lingua stessa con termini nuovi. La mia impressione è che a ogni autore si debba incominciare da capo, con prudenza, senza dare nulla per scontato: il lessico, per esempio, va controllato, certo termini assumono sfumature diverse a secondo degli usi. Per questo io ho affermato che questa lingua è sfuggente: è necessario esaminare non ogni parola naturalmente, ma soprattutto determinati termini, nel loro contesto e non in senso generale. E anche in questo caso, spesso, non si arriva a essere totalmente sicuri del vero significato, e quindi a comprendere che cosa volevano “dirci” gli antichi» (a Giovanna Di Marco). «Nessuna traduzione potrà mai rendere in pieno lo spirito, direi l’anima dell’originale. La traduzione può essere uno splendido prodotto che appartiene però alla lingua di arrivo, è poesia “italiana” che si ispira al greco, ma non corrisponde all’originale, mai. La poetessa inglese Virginia Woolf, che pure si era cimentata a tradurre dal greco, ha finito col dire che il greco è intraducibile, che il greco si può leggere solo in greco. È un’esagerazione, certo, inoltre quello che ha detto vale per tutte le lingue: l’originale è sempre meglio, però, se non avessimo le traduzioni, ci sarebbe negata la conoscenza di tanti capolavori». «Tutta la teoria sulla traduzione, e i volumi sono ormai centinaia, non dà una regola, perché ogni traduttore ha una sua personalità e si fa la sua regola. È sempre un contatto diretto, personale. C’è qualcosa che si perde e anche qualcosa che si acquista. Le due lingue possono anche dare e ricevere l’una dall’altra. A volte l’italiano restituisce meglio quello che l’altra lingua non rende con altrettanta forza. In altri casi è l’inverso. Ciò che si perde, piuttosto, è l’aura della lingua di partenza, non quella scena, quella parola in particolare, quel periodo. E questo non dipende dal traduttore. A me succede di leggere un libro in francese, poi la traduzione italiana e poi tornare al francese per recuperare quell’atmosfera che ho perso. Il testo originale mi restituisce un profumo diverso» • «Mi chiedo […] se esista anche una influenza negativa, “rischiosa” dei Greci sul nostro modo di vivere. Penso, ad esempio, all’abuso della retorica, alla capacità di ricostruire la realtà in modo alterato (ma straordinariamente credibile) e ideologico. A un “complesso di superiorità” che potremmo aver ereditato… “La lingua un dono assoluto. Il potere della lingua il più pericoloso dei doni. Della parola i Greci hanno scandagliato tutti i risvolti possibili, le hanno tolto innocenza e verità. Hanno trasformato la spada scintillante in un velenoso serpente. Il logos megas dynastes ha inquinato per sempre ogni forma di comunicazione. Di questo ‘dono’ non potremo liberarci mai. È forse la loro vendetta, affidata all’arma apparentemente più innocua, gli epea pteroenta, le parole che volano e si disperdono nell’aria, ma, come le frecce, mirano sempre a un bersaglio”» (Giuseppina Norcia). «Il grande potere della parola, l’ho appreso dagli antichi Greci, e loro – credo – l’hanno insegnato al mondo. È proprio questa consapevolezza che ha condizionato la mia scrittura personale, che tende a pesare ogni singolo termine. Sono certa che la parola può avere una funzione taumaturgica perché non spiega soltanto la realtà, ma la condiziona e può contribuire a crearla» • «Non dimentichiamo che […] gli antichi Greci […] hanno posto le basi del nostro mondo. L’Europa senza i classici greci non esisterebbe, almeno come la conosciamo. Anche se c’è molto Oriente nella Grecia antica, ed è poco noto». «Erano presuntuosi, arroganti, autoreferenziali, duplici. Ma ci hanno insegnato il culto della bellezza, la paura della vecchiaia, l’orrore per la morte. Ci hanno fatto capire il valore della profondità e il piacere della leggerezza; la dignità e il coraggio nel rapporto col divino; l’ambizione, la competitività, il gusto della gara e del gioco; lo slancio dell’eroismo e l’importanza dei gesti quotidiani. L’amore per la vita su questa terra e non oltre. Ci hanno insegnato a riconoscere il peso delle passioni, le conseguenze funeste della mancanza di controllo, che è rinuncia alla coscienza di sé, perdita di identità e di “forma”. Ci hanno ammonito a mantenere la “misura”. E a dare, ognuno di noi, un senso alla propria vita: gnothi sauton. Era certamente un’utopia che non hanno mai raggiunto, ma in cui hanno creduto e che hanno cercato ostinatamente di conseguire. Forse sono questi i doni migliori che hanno lasciato in eredità ai “barbari”. Ma in tanti secoli solo uno, credo, ha dato frutti fecondi: l’arma della parola, la parola come arma. Oggi, attuale più che mai» • «Senza una base di conoscenza dei classici, gran parte della letteratura occidentale diventa incomprensibile (a partire da Shakespeare, tanto per fare un nome)». «In diverse forme gli omerici, i “classici” in genere hanno nutrito la grande letteratura d’Occidente. […] Oggi le sembra ancora così pervasiva la forza simbolica, l’energia ispiratrice degli omerici? “È difficile pensare anche solo alla letteratura europea senza la conoscenza dei classici greci e latini. Ma ora come ora si stanno allontanando sempre più, e le riscritture e i rimaneggiamenti dei registi per le tragedie ne sono una prova evidente. Il rischio è quello di deformare l’autenticità del messaggio degli antichi, confonderlo con quello delle altre civiltà che solo ora impariamo a conoscere. Ma anche questo fa parte della nuova epoca che stiamo vivendo. È importante che, anche con minore forza ed energia, i classici greci e latini sopravvivano comunque, che non se ne perdano le tracce. In fondo, sono e restano le sentinelle dell’Occidente”» (Brullo).