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 2021  maggio 26 Mercoledì calendario

Biografia di Giuseppe Tornatore

Giuseppe Tornatore, nato a Bagheria (Palermo) il 27 maggio 1956 (65 anni). Regista. Sceneggiatore. Produttore. Vincitore di numerosi premi, tra cui il Gran premio speciale della giuria del Festival di Cannes (1989) e il premio Oscar al miglior film straniero (1990) per Nuovo cinema Paradiso. «Il mio mestiere è quello d’inventare storie. Di scovarle, elaborarle, sognarle, scriverle e lasciarle nel cassetto. Ogni tanto accade un incidente di percorso, e questo incidente è il film» (a Giancarlo Dotto) • Terzo dei cinque figli del segretario della sezione comunista di Bagheria («ma nel tempo mio padre ha lavorato alla Cgil, alla Federbraccianti, in Federazione») Giuseppe «Peppino» Tornatore. «Il mio inizio è raccontato esattamente in una sequenza che ho ricostruito in Baarìa, proprio come me lo ricordo. Avrò avuto sei anni, e mio padre mi portò al cinema. Entrammo in questo luogo buio, io non sapevo cosa fosse: lì per lì mi sono spaventato, all’epoca si entrava al cinema in qualunque momento. Si aprì questa tenda pesante, e poi vidi sullo schermo delle immagini in bianco e nero: due uomini giganteschi che combattevano, uno dei due aveva un arpione. Il film era Uno sguardo dal ponte di Sidney Lumet. Quando si accesero le luci, quei due uomini giganteschi erano spariti, e io mi chiedevo – grandi com’erano – dove si fossero cacciati. Quello è stato il momento in cui ho cominciato a interrogarmi su come si facesse a produrre quelle immagini. Poi, ronzando intorno al cinema e a quelli che ci lavoravano, piano piano capii tante cose: a 9 anni misi piede per la prima volta in una cabina di proiezione, a 13 anni ho fatto la mia prima giornata di lavoro. Proiettai una copia vecchia e rovinatissima di Un dollaro d’onore con John Wayne e Dean Martin» (a Paola Piacenza). «Da ragazzino non mangiavo quasi nulla. Ero il tormento di mia mamma Marianna, che per farmi mandar giù qualche boccone le ha provate tutte». La pasta al pomodoro, la faceva senza cipolle, il pesce spada solo a fette sottili e condito con la salsina all’olio e rosmarino, “altrimenti lo trovavo stoppaccioso”. E a Natale lo sfincione per Peppuccio (“in casa eravamo sette o otto Giuseppe, perciò per distinguerci mi chiamavano così”) aveva meno condimento degli altri. “Insomma, mia madre cucinava per tutta la famiglia, mio papà, mio fratello e le mie tre sorelle, e poi preparava le cose speciali per me. Poveretta, quanto ha sofferto – ricorda –. Quando sono partito per il militare pensava che sarei morto di fame. Ma io non lo facevo apposta: è che il cibo non mi interessava proprio. Fosse stato per me, mi sarei dimenticato di mangiare”. Del resto, a otto, dieci anni il futuro regista premio Oscar già girava per Bagheria con la macchina fotografica a ritrarre le scene di paese. Gli anziani che passeggiavano di spalle, i carretti abbandonati nei vicoli. A tredici, dopo la scuola, faceva il proiezionista per guadagnare quel tanto che bastava a comprare la pellicola e gli obiettivi. Nella sua vita non c’era spazio per altro. […] Quel bimbo che vaga per Bagheria a caccia di scene da fotografare è la fonte d’ispirazione di tutto il cinema di Tornatore. Gran parte di quello che il regista ci ha mostrato sullo schermo […] è un’elaborazione di quelle immagini» (Alessandra Dal Monte). «Durante l’adolescenza a Bagheria, […] fonda un cenacolo culturale autonomo denominato “Circolo L’incontro” assieme a Mimmo Aiello e Biagio Napoli – un autentico atto “sovversivo” volto a ribaltare l’idea di terrore e orrore propagata dall’escalation di violenza mafiosa. Con pochissimi mezzi a disposizione, film a noleggio dalle Paoline, sedie “prestate” e luoghi di fortuna, “L’incontro” riuscì a intrattenere il pubblico bagherese grazie a pellicole del calibro de La terra trema (1948) di Luchino Visconti, Vincitori e vinti (1961) di Stanley Kramer, Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi, ma anche Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, Lancillotto e Ginevra (1974) di Robert Bresson e Nashville (1975) di Robert Altman» (Francesco Fabio Parrino). «Ha passato tutte le sere degli anni del liceo facendo il proiezionista al cinema di Villabate, “provando un sentimento di onnipotenza quando sentivo che in sala la gente rideva, e sentendomi svuotato quando c’erano pochi spettatori distratti”» (Patrizia Carrano). «Nella mia classe al liceo sono stato il primo ad avere la macchina, già a 18 anni. […] La prima fu una 500 blu usata: quando la acquistai era di color crema, ma la feci restaurare e riverniciare. […] Avevo lavorato come fotografo ed ero riuscito a mettere un po’ di soldi da parte: sotto questo profilo ero in vantaggio rispetto ai coetanei, anche a quelli più agiati» (a Emanuele Barbaresi). «Dopo il liceo, il padre spinse il terzo dei cinque figli a iscriversi a un concorso per un posto in banca: Giuseppe lo vinse, ma non si presentò. Ci rimase male il genitore. Mannina [Marianna, la madre – ndr] sa che il figlio non avrebbe mai potuto stare a contare soldi: “Gli era scoppiata la passione per la fotografia e il cinema. E, se si mette in testa qualcosa, non si arrende mai”» (Stefania Berbenni). «Qual è la scelta che le ha cambiato la vita? “Rinunciare a un posto fisso. Quando lo dissi a mio padre, rimase sconcertato”. È vero che lei a inizio carriera girava i filmini dei matrimoni e delle prime comunioni? “Foto e film. Con ciò che guadagnavo mi finanziavo documentari”» (Vittorio Zincone). «A 19 anni già realizzava dei piccoli cortometraggi in superotto, che finanziava facendo – professionalmente – i filmini dei matrimoni. “Nel 1979 girai Scene di morte a Bagheria: avevo ripreso il mio paese nella settimana di Ferragosto, fra le due e le tre del pomeriggio”. Poi, le prime collaborazioni con la Rai regionale, che acquistò un suo documentario: Guttuso l’aveva visto e molto amato. Finalmente, il cinema: “Con la cooperativa che avevo fondato feci la produzione esecutiva del film realizzato da Giuseppe Ferrara sul generale Dalla Chiesa [Cento giorni a Palermo – ndr]”» (Carrano). «Per me lasciare la Sicilia fu, all’epoca, un’esperienza traumatica. Avevo sempre sognato di andare via. Proprio il fatto di aver incubato a lungo questo progetto l’ha resa un’esperienza più importante di quanto non fosse veramente. Spostarsi a dieci ore di treno non dovrebbe essere una tragedia, ma, per il tipo di educazione ricevuta, mi sentivo come se dovessi andare oltre le Colonne d’Ercole. […] I primi tempi dopo il trasferimento a Roma ricordo che dovevo tornare a casa tutti i mesi, poi hanno cominciato a diventare due, tre, cinque, fino all’affrancamento». «Giovanissimo, […] seduce Goffredo Lombardo, il tycoon della Titanus, che lo accompagna all’esordio con Il camorrista (1986)» (Giorgio Gosetti). «Cosa ricorda di più del suo film d’esordio? […] “Vi racconto un particolare aneddoto angosciante. Nel 1985 girai buona parte del film fra Napoli e dintorni. Una scena si svolgeva davanti al Palazzo di giustizia napoletano. Uno dei personaggi, un avvocato, parlava con delle persone. A un certo punto, irrompeva una motocicletta. Il centauro a bordo si fermava davanti al capannello per gambizzare l’avvocato. La gente, le comparse dovevano urlare. Per il mio desiderio di realismo – ero molto giovane –, organizzai la scena con le macchine d’intorno nascoste. Oltre le comparse c’era la vita vera d’intorno al Palazzo. Volevo riprendere la reazione dei passanti. Ma successe che quando la motocicletta arrivò reagirono tutti come fosse una cosa vera. Il motociclista schizzò via e sentii delle urla in cima al Palazzo. Guardai e vidi che c’erano dei militari che, mitra in pugno, puntavano verso l’attore-gambizzatore, che scappò via. […] Furono attimi di terrore: abbiamo davvero rischiato la tragedia”» (Stefano Biolchini). La pellicola, incentrata sulla figura del fondatore della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo, interpretato da Ben Gazzara, ottiene un discreto successo di pubblico e di critica, e nel 1987 valse a Tornatore il Nastro d’argento quale miglior regista esordiente. L’anno successivo, col secondo lungometraggio, il regista realizzò il suo capolavoro: Nuovo cinema Paradiso, «ovvero la magia in celluloide. In una sala cinematografica si ritrova il popolo di un’intera piazza, che piange e gioisce davanti a ombre sfuggenti, parole toccanti e baci appassionati. Un film corale dove il primo protagonista è il cinema stesso, che diventa uno specchio di emozioni per gli abitanti di un paesino siciliano dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il piccolo Totò (il bravo Salvatore Cascio) e il paterno Alfredo (un toccante Philippe Noiret) altro non sono che i suoi fedelissimi servitori, ammaliati dalla magia di celluloide» (Giacomo Aricò e Tommaso Montagna). «Le musiche di Ennio Morricone fanno da contorno a un film che si rivela perfetto nella sua dolcezza e segnano l’inizio di un sodalizio importante tra il regista e il compositore» (Ginevra Amadio). «Avevo in testa la storia di Nuovo cinema Paradiso […] prima del mio primo film Il camorrista, e prima di fare il regista della seconda unità di Cento giorni a Palermo, per il quale ho poi anche seguito la produzione esecutiva. Pensavo, e prendevo appunti su pezzettini di carta. E, come faccio sempre, infilavo i pezzetti di carta in una cassettina-salvadanaio: con gli anni, se mi fossi convinto che ne valeva la pena, dopo aver riempito la cassetta, l’avrei aperta, avrei riletto, avrei rimesso in ordine i pezzetti di carta, ne sarebbe venuta fuori una sceneggiatura… Pensavo al film, scrivevo, e non osavo proporlo: erano i primi anni ’80, e i pochissimi esordi erano tutti di stampo eccessivamente autobiografico. Poi, un giorno, […] raccontai tutto a voce, come un cantastorie, a Lombardo. Lui mi chiese di scrivere subito un trattamento. Era il dicembre dell’87. Aprii la cassetta: eseguii. Già sulla carta era un film costoso. Lombardo non voleva la coproduzione tv. Io, scrivendo, mi ero entusiasmato. Non volevo rinunciare. Stampai un’infinità di copie del mio lavoro, e le mandai in giro. Pochi giorni dopo mi risposero, a ruota, prima Cristaldi e poi Rizzoli: io, che non avevo mai avuto prima d’allora a chi dire di no, ma solo gente cui chiedere di essere ricevuto e ascoltato, mi sono posto il problema di chi scegliere. Soffrendo, ho firmato con Cristaldi per il Paradiso, e con Rizzoli per […] Stanno tutti bene. E poi? E poi ho girato il film. Con Cristaldi avevamo voglia di farlo vedere prima possibile. Abbiamo portato a Bari praticamente il premontato: due ore e cinquanta di film. Il pubblico quasi delirò, facendo maturare nei distributori l’idea che Nuovo cinema Paradiso, per uscire, non avesse neanche bisogno di lancio. Scesero in campo i critici, e si spaccarono in due fazioni: i favorevoli, come Morandini, Caprara, Frosali o Borelli, e i contrari, Kezich, Cosulich, Reggiani, Tornabuoni. La giuria diede un giudizio indecoroso: premio per il miglior contributo alla prima parte del film. E io cominciai a pensare, a interrogarmi…» (ad Anna Maria Mori). «Nuovo cinema Paradiso uscì il 18 novembre 1988. […] Non ebbe una grande accoglienza. “Non andò bene per niente, incassò pochissimo. All’epoca non ci siamo spiegati il perché, ci siamo solo rimasti tanto male. Molti ancora oggi insistono su questa storia della lunghezza [originariamente, circa due ore e mezza – ndr], ma, quando il film uscì nella versione più corta, andò malissimo lo stesso”. Lo accorciò di quasi mezz’ora. “L’atteggiamento della critica e quello del pubblico non cambiò di un’unghia. Una bocciatura definitiva, sembrò. Il film andò poi a Cannes ed ebbe un grande successo. Quando vinse l’Oscar, uscì per la quarta volta e fece 10 miliardi in tutto il mondo”. […] Aveva nella testa l’idea di un film che parlasse a tutti, quando l’ha scritto? “Assolutamente no. Lo pensavo un film che avrebbero capito in Italia e basta. A Cannes ero molto preoccupato. Se in Italia il film aveva sortito quell’effetto così deludente, chissà lì. Accade invece il miracolo. In un anno e mezzo, ho vissuto con Nuovo cinema Paradiso tutto ciò che può accadere nella vita di un regista: l’insuccesso e il successo più grande, il successo medio, le incomprensioni e il trionfo. Tutto”» (Dotto). «Cosa rappresenta quel film per lei? “Potrei dire tutto, per la storia che racconto e per le implicazioni personali che coinvolgono la storia”. […] La notte degli Oscar? “A Hollywood per istruirti ti davano un rappresentante dell’Academy: il mio fu Cesare Danova, attore italiano che viveva lì. Fu lui a dire a me e a Franco Cristaldi, il produttore, che il discorsetto di ringraziamento, in caso di vittoria, doveva essere al massimo di 45 secondi. Mi ero fatto dare un consiglio da Fellini: se vinci l’Oscar, prenditelo tu, sennò Cristaldi te lo frega e ti fa fare una copia”. Come andò a finire? “Cristaldi mi disse: o parli prima tu e l’Oscar lo prendo io, o facciamo il contrario. L’Oscar a me, risposi. Era l’anno della Glasnost, così in collegamento da Mosca, accanto a Jack Lemmon da Los Angeles, c’era un’attrice russa. Vinsi. Cristaldi disse che il 26 marzo era la sua data fortunata perché quello stesso giorno, tanti anni prima, ritirando l’Oscar per Amarcord aveva incontrato la sua seconda moglie, Zeudi Araya. Quando fu il mio turno, esordii così: ‘Excuse me’. E tolsero il collegamento. Non avevamo capito che erano 45 secondi in tutto: li consumò tutti Cristaldi”. Cosa successe? “Imbarazzo generale. Bill Conti, il direttore d’orchestra della cerimonia, mi guardava mortificato. Il Los Angeles Times titolò: ‘Tornatore ha vinto due Oscar in un solo colpo, per il migliore film straniero e per il più breve ringraziamento nella storia degli Oscar’. È andata meglio così, avevo preparato un discorso stupido: scusatemi per il mio pessimo inglese, spero che tra di voi ci sia una donna che, come per Cristaldi, diventerà mia moglie. Riuscii a dire solo ‘scusatemi’”» (Valerio Cappelli). «Lei visse l’Oscar come rivincita su un’Italia dalla quale si era sentito incompreso. “Fu L’Espresso a scrivere in copertina ‘Incompreso’. Da Los Angeles io me ne tornai a chiudermi in moviola, dove stavo montando Stanno tutti bene. Fellini mi telefonava e mi diceva: ‘Sei scemo, ma come? In un momento bello come questo te ne stai lì chiuso? Esci, divertiti, scopatele tutte: un momento così non si ripete’. Ma io non me lo sono goduto per niente”» (Paolo D’Agostini). «Dopo il delizioso e malinconicamente romantico Stanno tutti bene (1990), con cui Tornatore porta in scena un dramma familiare dalle tinte monicelliane cucito addosso al personaggio di Matteo Scuro (Marcello Mastroianni), arriva quello che probabilmente è uno dei film più insoliti del cineasta bagherese: Una pura formalità (1994), un Kammerspiel definito dallo stesso autore come “un anomalo regalo di una notte infinita, insonne”» (Parrino). «Il suo film più audace. Con Depardieu e Polański. […] Una sfida metafisica e apparentemente anticinematografica. “Non fu per niente una sterile esercitazione di stile, come spesso viene ripetuto. Fu una folgorazione narrativa. Secondo la sensazione chiara, la convinzione esaltante di aver messo le mani su qualcosa di totalmente originale, su un prototipo. Il vecchio Mario Cecchi Gori, sulle mie intenzioni, disse ‘È difficile, non farà una lira’, ma me lo fece fare, e anche con una certa larghezza di mezzi. Il figlio Vittorio, alla fine, disse ‘Non si capisce niente, ma si capisce che è un grande film’. E al Festival di Cannes lo fecero a pezzi, me ne dissero di tutti i colori, mi offesero e umiliarono. Mi ferì il fatto che nessuno capì il mio coraggio. Il giudizio più gentile fu ‘velleitario’”» (D’Agostini). Migliore accoglienza ricevette, l’anno successivo, L’uomo delle stelle, il cui protagonista è interpretato da Sergio Castellitto: la pellicola valse infatti a Tornatore il Leone d’argento per la miglior regia (1995), la candidatura al premio Oscar al miglior film straniero (1996) e il David di Donatello alla miglior regia (1996). Lo spunto per il film gli era venuto da uno dei suoi innumerevoli appunti, «che spesso vengono da lontano, da molto prima che i film venissero fatti. […] “I miei appunti sono anche di due righe. Per esempio, quello che prefigurava L’uomo delle stelle. L’avevo buttato giù dopo il racconto di un amico che rievocava il dopoguerra: ricordava un avventuriero che girava i paesi fingendo di fare provini per il cinema, facendosi pagare, per poi sparire. Avrò avuto diciassette anni. Mi sono trovato tra le mani queste due righe e ho fatto il film, il più veloce della mia carriera”» (D’Agostini). In seguito, a partire dal monologo teatrale Novecento di Alessandro Baricco, «Tornatore costruisce la sua Leggenda del pianista sull’oceano come un appassionato omaggio al cinema epico-lirico di Leone. Sbeffeggiato dai critici antipatizzanti, il film, avvolto dalla musica di Morricone, è sfrontato e affascinante, con almeno tre scene-madri da ricordare» (Claudio Carabba). «La leggenda del pianista sull’oceano mi ha fatto capire che […] i film fanno come gli pare. Doveva essere un film di transizione, da fare nell’attesa di mettere in piedi un altro progetto, ed è divenuto il film più duro e impegnativo che abbia fatto sinora. Sembrava un film nato dall’improvviso innamoramento per il bellissimo monologo di Baricco, quasi un voler lasciarsi andare a vicende e atmosfere altrui, e invece, girando girando, mi sono reso conto che stavo respirando un clima mio, che i temi in fondo erano gli stessi di alcuni miei film già fatti o di altri rimasti solo carta. Sembrava un film dalla vita facile, […] e invece […] si è poi rivelato un dolorosissimo e travagliatissimo inferno. Volevo che avesse lo stesso respiro del breve racconto da cui è tratto, e invece, quasi senza accorgermene, l’epicità nascosta della parabola di Novecento mi ha talmente coinvolto da averne fatto infine un romanzo cinematografico. Pensavo che il centro del film fosse la precarietà dell’esistenza umana, lo smarrimento del non sentirsi figli né di un secolo che muore né di quello che nasce, pensavo fosse l’amicizia, il coraggio di essere amici, e via di questo passo… Invece ora […] mi sembra sia diventato qualcos’altro, un film sulla necessità di raccontare storie, sull’importanza di sentirsele raccontare, sull’impossibilità, insomma, di fare a meno del racconto. Non c’è niente da fare: i film fanno di testa propria!». Nel 2000, «con Malèna inventa Monica Bellucci al cinema. “Femmina cinematografica allo stato puro. Malèna nacque dal desiderio di fare un film subito dopo Il pianista sull’oceano. Un film che mi aveva stremato. Mi sentivo come se tutte le mattine stessi andando a costruire una piramide da solo. Malèna, l’unico film tratto da un soggetto non mio, doveva aiutarmi a scendere dalla nave, e ci riuscì. Era il meno ambizioso, il più semplice dei miei film, quello contro il quale la critica si è accanita di più”» (Dotto). «Malèna è stato un risultato deludente? “Niente affatto, ma per la storia è diventato un flop. Come La leggenda del pianista sull’oceano. Un film che sancisce un momento di rischio produttivo nella nostra compagine asfittica, povera e paurosa del cinema italiano, e ti incassa 11 miliardi di lire è stato bollato dalla stampa italiana come flop. Malèna in America ha confermato che tra i primi quindici film stranieri di tutti i tempi ce ne sono due o addirittura tre miei. In Italia me l’hanno tirato addosso perché avevo osato prendere una non attrice come protagonista. […] Per chi ancora aspettava che io dimostrassi se l’Oscar era meritato, Malèna dava molte possibilità di attaccarmi”» (D’Agostini). Dopo La sconosciuta (2006), «storia cupa d’immigrazione con Michele Placido nel ruolo del cattivo a tutto tondo» (D’Agostini), fu la volta di quello che Tornatore considera il suo opus magnum: Baarìa (2009), «con cui l’autore torna alle origini del suo modo di fare cinema. Con Baarìa, infatti, Tornatore va oltre il semplice processo creativo dello sceneggiatore: piuttosto realizza una trascrizione di una memoria nostalgica composta da “immagini e suggestioni, fatti e leggende, suoni e rumori, parole e idee, ombre e colori, progetti e delusioni, urli e mormorii, tanfi e profumi, miserie e splendori, lacrime e sorrisi”. Una ricostruzione in legno, gesso e ferro della Bagheria della sua memoria, attraverso una struttura narrativa volutamente irregolare, che punta più sulle emozioni che non su un racconto organico» (Parrino). «Dall’immaginario Giancaldo [il piccolo paese siciliano in cui era ambientato Nuovo cinema Paradiso – ndr] alla sua Bagheria, un film che arriva a vent’anni da Nuovo cinema Paradiso, e si parla […] di chiusura del cerchio. “Due film che si fanno eco l’uno con l’altro. Due facce di un unicum che non si poteva raccontare in un solo film. Baarìa è forse il mio film più importante, certo il più personale. Ci pensavo da tempo e mi dicevo: troppo complicato; lo farò, se lo farò, verso i sessant’anni. Sono stati i miei amici produttori a convincermi”. […] “Baarìa è un film che guarda alla commedia all’italiana. È divertire trattando temi drammatici. Lo definirei una commedia epica. Penso a Una vita difficile di Dino Risi. È un film più corale di Cinema Paradiso”» (Dotto). «Il primo spunto risale a prima del mio primo film, e di Cinema Paradiso. Anzi, Nuovo cinema Paradiso fu una costola, un estratto dell’idea, disordinata e confusa, di quello che sarebbe molto tempo dopo diventato Baarìa. Insomma, per me Baarìa, la storia del luogo dal quale provengo, è ‘il’ film. Quello che ho progettato sin dall’inizio della mia carriera». Purtroppo la ricezione della pellicola, soprattutto da parte della critica, fu fortemente viziata da considerazioni extra-cinematografiche. «“Tutto è nato quando Berlusconi (coinvolto attraverso Medusa, di cui è proprietario – ndr), la sera prima che fosse proiettato alla Mostra di Venezia, ha detto che Baarìa è un capolavoro. Un errore che nessun produttore avrebbe commesso. Il suo giudizio ha alzato un muro. E, dunque, dei soldi dati da Berlusconi al mio film si doveva diffidare, ma erano apprezzabili per tutti gli altri venti progetti da lui finanziati”. Come reagì la stampa alla lode dell’ex premier? “Un critico, ancora prima di vederlo, disse: può essere Kubrick, io lo faccio a pezzi”. […] Come andarono gli incassi? “In Italia incassò 12 milioni di euro, una cifra che è considerata più che lusinghiera. Invece anche qui c’è chi disse che era andato male”. Quello che è incontestabile furono i mancati premi… “Non riuscii a vincere niente, altra onta. Dalla Mostra di Venezia ai David di Donatello, dove fui trattato a pesci in faccia. Quattordici candidature, ignorato completamente, a parte la colonna sonora di Ennio Morricone. Fino agli Oscar, dov’ero candidato ma non fui preso in considerazione perché, mi dissero, era uscito un articolo in cui il presidente di Medusa, Carlo Rossella, parlando del meccanismo di Hollywood, dipinse i votanti come gente anziana, pensionati. Quelli si sono offesi. E giù altro veleno”. Baarìa costò molto, 25 milioni di euro. “Ecco, circolò la leggenda che, siccome era costato troppo, non c’erano soldi per finanziare i film di altri registi. In molti ci hanno creduto e mi hanno tolto il saluto”. Poi, gli animalisti… “Sono stato perseguitato: lettere anonime, minacce, denunce. Mi accusarono per la scena dell’uccisione di un bovino. Dissero che ero andato in Tunisia per bypassare la legislazione italiana. Ma io ero lì perché vi avevo girato tutto il film. Fui convocato dal giudice e poi assolto, ma questo non l’ha scritto nessuno. Le amarezze per Baarìa, le porto ancora dentro”» (Cappelli). Il successivo La migliore offerta (2013), con Geoffrey Rush e Donald Sutherland, «ha la genesi più bizzarra di tutti i miei lavori. Quando sono arrivato a Roma nel 1984, un amico mi raccontò di un problema psicologico di sua sorella. Ho lavorato a una ventina di soggetti partendo da questo punto. Ma non ne ha mai funzionato nemmeno uno. Qualche anno fa, una casa d’aste mi ha inviato un catalogo. Ho cominciato a pensare alla storia di un battitore, ma, anche lì, non riuscivo a far quadrare il racconto. Poi, mentre mettevo ordine nel computer, la storia della ragazza e quella del battitore sono finite una accanto all’altra. Ho sentito che si attraevano. Le ho intrecciate come si fa in musica con il contrappunto doppio, ed è venuta fuori una nuova storia». Scarso successo riscosse nel 2016 quello che è a tutt’oggi il suo ultimo lungometraggio, La corrispondenza, incentrato sulla relazione sentimentale a distanza, mediata da cellulari e computer, tra una giovane studentessa di Astrofisica e controfigura cinematografica (Olga Kurylenko) e il suo maturo professore (Jeremy Irons). «“La storia nasce da un mio spunto di circa quindici anni fa. Originariamente erano presenti una figura maschile e più di una femminile, ma la trama era la stessa. All’epoca però sarebbe stato un film di fantascienza, che non era nelle mie corde. Quindi ho continuano a tenerla nel cassetto finché la rivoluzione tecnologica ha trasformato quell’intuizione fantascientifica in puro realismo. Così ho rimesso mano alla storia, tenendo conto di questi nuovi elementi”. […] Fino a che punto parliamo di un film realistico? “Volevo creare un contrappunto tra il realismo, la perfezione logica della tecnologia e l’ineffabile che sappiamo cogliere ma non sempre riusciamo a definire. Mi interessava sottolineare la nostra capacità di captare le cose prima che succedano, di cogliere delle premonizioni”» (Rosa Maiuccaro). «Nella Corrispondenza non c’è nemmeno un granello di polvere siciliano. “Dopo Baarìa sentivo di aver chiuso quel capitolo. Ho deciso di assecondare un istinto che ho sempre avuto: muovermi. Non mi piace l’idea di stare sempre nello stesso posto, avere sempre lo stesso orizzonte. Forse i miei impulsi autobiografici avevano tenuto a bada questa energia centrifuga, ma adesso si è liberata. La corrispondenza è fatto di atmosfere nordiche: si svolge in Inghilterra. […] Chi ha la fortuna – o la disgrazia – di avere un legame forte col posto dove si è nati, come accade a me, sa che raccontarlo o illudersi di averlo raccontato ti rafforza. Io ora mi sento più forte. E questo mi permette di andare per il mondo”» (Piacenza). Tra i suoi ultimi lavori, due documentari: Devotion (2020), «docu-film sull’amore di Dolce e Gabbana per la Sicilia, la “devotion” degli stilisti per l’Isola, […] girato da Giuseppe Tornatore, con le musiche del maestro Ennio Morricone: […] Dolce e Gabbana che creano, Dolce e Gabbana che scelgono Palermo, sulla quale indugia con telecamere e droni la regia del regista bagherese, Dolce e Gabbana che scelgono la città per la grande sfilata di piazza Pretoria, sempre sullo sfondo del film» (Tullio Filippone), e Lo sguardo della musica (di prossima distribuzione), dedicato a Ennio Morricone (1928-2020), grande amico del regista e autore delle musiche di gran parte delle sue pellicole, insieme al quale Tornatore aveva peraltro firmato il libro-intervista Ennio. Un maestro (HarperCollins, 2018). «Anche se mi sembra di averlo conosciuto da sempre, ricordo bene […] quando è arrivato il momento di incontrarlo. Io avevo fatto solo il primo film, Il camorrista, ed ero un totale sconosciuto. Quando stavo preparando Nuovo cinema Paradiso Franco Cristaldi, il produttore, ebbe l’idea di rivolgersi a Ennio. E mi chiese il permesso di mandargli il copione. Non ci credevo. Da persona molto pratica com’è, chiese le date del mio film e rispose subito che nelle stesse date era già impegnato. Ma ecco che dopo due o tre giorni mi arriva una telefonata. "Sono Morricone, ho letto il copione: venga, ché ne parliamo". Gli era piaciuto, gli era piaciuta l’idea dei baci. Solo una cosa mi chiese: non è che vuole il marranzano, lo scacciapensieri? No, lo assicurai, subito, non volevo niente che facesse pensare al folclore siciliano. Si liberò. Poi la storia è continuata. Ha scritto i temi dei miei film prima ancora che io li girassi» • Coltiva da molti anni il progetto di un film sull’assedio di Leningrado (1941-1944). «Relazione con il famoso progetto di Sergio Leone sull’assedio di Leningrado? “Nessuna”. Allora è una leggenda? “Malgrado i pochi testi allora disponibili, essenzialmente I 900 giorni di Salisbury, che è del ’69, Leone capì l’importanza di quella storia, capì che il cinema era in ritardo su quell’episodio della Seconda guerra mondiale. Ma non ha fatto in tempo neanche a scrivere la sceneggiatura, a dispetto di quello che si crede. Lo so, che si pensa che io abbia attinto dall’idea di Leone, ma non è così”. […] “I morti furono circa due milioni: per fame un milione, altri 350-450 mila in evacuazione o attività di guerra, più 600 mila tedeschi. Io ero attratto dall’idea di vivere dentro una città completamente chiusa, lontana dal Cremlino e da Stalin, una città che più si avvicina alla morte più scopre la libertà. Ci fu anche una parte di popolazione che aspettava i tedeschi come liberatori. È uno degli aspetti più motivanti del mio lavoro: scoprire come è vissuta la gente in un luogo e in un tempo non tuo”» (D’Agostini) • «Lei ha lavorato molto in pubblicità. Perché continua a essere una parte del lavoro dei registi che si tende un po’ a tacere? “Io mai. Ne ho fatte alcune di cui sono fiero. La prima, quella per Dolce & Gabbana, mi fece conoscere Monica Bellucci, che mi colpì per la sua volontà di essere messa alla prova. Da lì cominciai a pensare a lei per il soggetto di Luciano Vincenzoni che diventò poi Malèna. Mia è anche la responsabilità della famigliola del Mulino Bianco”» (D’Agostini). «A uno che, volente o nolente, fa pochi film come me, gli spot danno il piacere di tornare sul set fra un progetto e l’altro. E permettono di finanziare i film a cui si tiene senza aver l’obbligo di accettare cose che non convincono» (a Egle Santolini) • Sposato, una figlia. «In casa l’eredità dei “piatti speciali per Peppuccio” è ora nelle mani di Roberta, la moglie bionda, alta e molto paziente: “Gli spaghetti, il pesce… mia mamma le ha passato diverse ricette. E lei […] si è inventata gli straccetti di vitello ai carciofi e mais, che sono diventati il mio piatto preferito”» (Dal Monte) • Pubblicamente accusato nel 2017 dall’ex valletta Miriana Trevisan di averla molestata nel corso di un colloquio nel suo ufficio («Mi appoggiò al muro e cominciò a baciarmi collo e orecchie, le mani sul seno, in modo abbastanza aggressivo. Riuscii a sfilarmi e scappai via. Ero entrata sentendomi una principessa, […] e sono uscita sentendomi uno straccio”), replicò: «Sono lusingato che una giovane donna si ricordi di me dopo tanti anni. Io rammento solo un incontro cordiale, pertanto respingo le insinuazioni mosse nei miei confronti, riservandomi di agire nelle competenti sedi a tutela della mia onorabilità». La vicenda non risulta aver avuto seguito giudiziario (la stessa Trevisan nel 2018 è stata peraltro rinviata a giudizio per diffamazione nei confronti del produttore Massimiliano Caroletti, cui la donna aveva rivolto analoghe accuse) • «Ho un mio personalissimo teorema: amo la Sicilia, ma per esprimere tutto il mio amore ne devo stare lontano». «Farebbe il ponte sullo Stretto? “Non sono contrario a priori all’idea. Anzi, se dovesse esserci un ponte funzionale e funzionante, mi piacerebbe. Però non la ritengo un’opera prioritaria, considerate le condizioni del nostro tempo e, soprattutto, l’inefficienza con cui storicamente costruiamo le opere pubbliche”» (Barbaresi) • «Le hanno mai offerto di trasferirsi a Hollywood? “Sì, più di una volta. Ho rifiutato progetti che non sentivo miei”» (Zincone). «Non credo che riuscirei a “diventare americano”, ma potrei trasferirmi lì per il tempo necessario a fare un film. Solo una volta ho sentito il bisogno di lasciare casa mia per andare a vivere in un altro luogo, ed era perché dove ero nato il cinema non si faceva. Ma forse la mia è solo paura di partire, andarmene, in cerca di un nuovo altrove. […] È come se la mia Bagheria di allora fosse oggi l’Italia. O forse semplicemente si emigra una volta sola» • «Sono credente? In genere penso a Tonino Guerra, che sosteneva: “Se dicessi di credere in Dio direi una bugia, se dicessi di non crederci ne direi una più grande”» • «Tornatore ha un passato da militante del Pci ed è considerato un regista “de sinistra”. Ma, a differenza di molti colleghi impegnati, non ha mai girato una pellicola ispirata ad avvenimenti socio-politici contemporanei (a parte il suo esordio con Il camorrista). Glielo faccio notare. La replica: “È una scelta. Considero fragile il metodo di chi fa un film perché lo impone l’attualità”. […] Lei come sceglie che cosa girare? “Aspetto di essere sicuro che comunque vada manterrò un rapporto positivo con la storia. Lavorare a un film solo perché riguarda temi socialmente di moda mi darebbe la sensazione di ridurre la potenzialità del cinema a quella di un telegiornale”» (Zincone). «Anche quando non faccio un film esplicitamente di impegno politico, i valori di mio padre li porto comunque con me. Ammesso poi che si possa fare un film che non sia politico» • Molto riservato («Spesso questo viene visto come un atteggiamento di superbia che non mi appartiene»). «Personalità schiva, sempre protetto dietro una montatura da occhiali da professore di liceo, gentile nei modi e sommesso nella parola» (Gosetti). «Testardo, intransigente, pignolo, con quel suo amore sconfinato per il cinema» (Umberto Rosso). «Un siciliano che più siciliano non si può. […] Peppino Tornatore è una filtrazione gattopardesca, la versione aggiornata del Principe di Salina. Due guardoni morbosi, che stiano a spiare stelle o facce umane poco importa. Che ci siano telescopi e lenti focali nel loro antro privato o vecchi arnesi di un cinema che non c’è più, proiettori, bobine da 35 millimetri, manifesti d’epoca. […] Il Principe di Salina dice: i siciliani devono andar via prima dei 16 anni per non ritrovarsi perdutamente siciliani. “Andai via a 27, troppo tardi. La crosta si era già formata, e i difetti dei siciliani ce li ho proprio tutti. Introverso, sognatore, permaloso, irriducibile, ambizioso, talvolta insopportabile. Per raggiungere un mio obiettivo non guardo in faccia nessuno”» (Dotto) • «“Le melanzane? In genere rispondo che non mi piacciono. Ma la vuole, la verità? Io non le ho mai assaggiate. Mai”. Giuseppe Tornatore è forse l’unico siciliano a non aver addentato, nemmeno una volta, una mirinciana. Ma neanche la pasta con le sarde. O quella alla Norma. Tutti piatti simbolo della sua terra. E il motivo non è palatale: “So già che mi ripugnerebbero, perché non li trovo attraenti. Ho una guida visiva anche quando mangio: un piatto deve catturarmi lo sguardo”. Sarà la mente da regista a influenzarlo. “Oppure chissà che altro... Dovrei andare dallo psicanalista per scoprirlo”. […] “Ho paura di ingrassare, preferisco mantenermi magro, agile. Mi sembra che anche la mente lavori meglio”. Una forma di ascetismo? “Sì, la mia indole sarebbe quella: mangiare per vivere, non vivere per mangiare”. […] Tornatore […] ammette di essere l’incubo di ogni catering durante le riprese: “Chiedo solo verdure – racconta –. Non mi va mai bene niente di quello che mi portano”. Come quella volta in cui, in un ristorante di Ragusa, ha mandato indietro talmente tante volte il piatto che alla fine il gestore glielo ha dedicato: “Spaghetti alla Tornatore, li ha chiamati. Della versione originale era rimasto davvero poco”» (Dal Monte) • «Sono scaramantico. Anche con il cibo. Se mi cade dell’olio a terra mi terrorizzo. Tanti anni fa un parente ha avuto un incidente gravissimo proprio dopo che mi si era rotta l’oliera: so che è irrazionale, ma credo nella forza degli eventi e accetto che la logica non la possa spiegare». «Non comincio a scrivere e non consegno mai una sceneggiatura di martedì o di venerdì. Il giorno prima di battere il primo ciak mi taglio i capelli a zero. Non tollero il viola sul set, mi fermo se passa un gatto nero e tremo all’idea che qualcuno dopo un brindisi posi il bicchiere sul tavolo prima di aver bevuto. Quando mi chiedono chi è il regista del futuro, evito di rispondere, per non portargli iella» • «Il film preferito? “Costretto a scegliere? Quarto potere di Orson Welles”. Il libro?Cent’anni di solitudine”. La canzone?Il nostro concerto di Umberto Bindi» (Zincone) • «Come spettatore cinematografico mi amo molto, come regista di meno, sono sempre ipercritico. Quando vado al cinema lascio a casa il mio mestiere di regista. Detesto i cineasti che vanno al cinema e spaccano il capello in quattro. Ancora oggi, quando entro al cinema, si spengono le luci e appare la prima immagine del film, per la sola ragione che quel film esiste già mi sta simpatico» • «A cena col nemico? “Con Goffredo Fofi”. Fofi ha coniato l’espressione “tornatores”, per etichettare il cinema che non apprezza, quello di Salvatores e di Tornatore. “Lo stimo molto come critico letterario, meno come critico cinematografico”» (Zincone) • «È vero che i fan la scambiano con il suo collega Gabriele Salvatores? “Sì: purtroppo ci scambiano, né ho mai capito la ragione di ciò. Mi fermano per dirmi ‘Ho visto Mediterraneo…’. Ho un bellissimo rapporto d’amicizia con Salvatores, che stimo. I primi tempi ci seccava, poi abbiamo deciso di non deludere nessuno. Così ci telefoniamo per dirci ‘Ho firmato tre autografi a tuo nome’, e ridiamo”» (Cinzia Romani) • «Celebrato dallo star system a Hollywood, picchiato da sconosciuti in una strada buia di Roma [nell’agosto 2007, da due giovani romeni – ndr]: due esperienze fisiche e psicologiche all’estremo. “Adesso che me lo chiede, trovo delle assonanze. L’Oscar, l’ho vissuto come una grandissima gratificazione e basta. Spente le luci, sono tornato a essere uno che la mattina si sveglia presto per andare a lavorare. I siciliani come me tendono a non fidarsi troppo della fortuna, della felicità. Dopo essere stato aggredito, reagii nella stessa maniera. Ho ripreso subito a lavorare, non ho cambiato le mie abitudini. Ho assorbito tutti i difetti dei siciliani, ma anche qualche pregio. Come quello di non cambiare la propria vita sulla base di un episodio eccezionale. Nel bene e nel male”» (Dotto) • «Lei ha fama di essere maniacale nella cura dei particolari. “Me lo ha detto anche Pupi Avati quando gli ho raccontato che durante le riprese di Baarìa mi sono accorto che le scarpe delle 200 comparse femminili di una scena corale erano dello stesso modello. Non l’avrebbe notato nessuno, ma gliele ho fatte cambiare”» (Zincone). «Per Baarìa, per esempio, ha fatto rifare le piastrelle della strada andando a riprendere lo stampo del tempo, ha scovato i proprietari dei bagni-palafitte sul mare che tenevano i pezzi in magazzino e se li è fatti mandare in Tunisia, ha curato i decori» (Berbenni). «Io per i dettagli divento matto: è la parte più divertente del mio lavoro» • «Io amo le cose della mia vita e mi piace conservarle il più a lungo possibile, in modo che diventino presenze importanti, acquistino, in un certo senso, una loro umanità. La prima macchina fotografica, ce l’ho ancora, così come le prime cineprese» • «Quanti “pizzini” ha nel cassetto? “Tanti. Scrivo tutto: una frase che sento per strada, qualcuno che fa una cosa che mi colpisce. Alcuni mesi fa vedo arrivare un taxi: scende un signore, paga, il taxi va via. Quel signore attraversa la strada, ferma un altro taxi e riparte. Perché l’ha fatto? È finito nel cassetto…”. […] Anche Woody Allen ha un cassetto pieno di “pizzini”: ognuno è un’idea… “Gabriel García Márquez quando uscì Nuovo cinema Paradiso mi mandò un fax. C’era scritto: ‘Questo è il film che avrei voluto fare se fossi riuscito a diventare regista come avevo sognato da ragazzo’, e aggiungeva: ‘A casa mia si cucinano dei buoni spaghetti al pomodoro. Se ti va, passami a trovare’. E io ci andai: sono rimasto una settimana a Città del Messico. Ci vedevamo tutti i giorni per due o tre ore a chiacchierare. Finché mi disse: ‘Quando ti viene un’idea, non scrivere niente, stai alla larga dalla pagina. Più tempo impieghi a pensare una storia, più facile ti sarà poi scriverla. Meno tempo le concedi, più soffrirai’. È l’approccio più onesto coi nostri fantasmi. Che in fondo ci chiedono solo di trovare loro un ordine”» (Piacenza) • «Quanti soggetti cinematografici elabora ogni anno? “Tanti. Scrivo tutte le mattine un’ora prima di andare sul set e ogni giorno quando non giro”. La storia che ha visto al cinema e avrebbe voluto realizzare?Una giornata particolare di Ettore Scola”. La storia che i produttori non le hanno mai fatto girare? “Quella di Ulisse raccontata dal punto di vista di Penelope. Immagino che ci fossero un po’ troppi problemi produttivi”. Sarebbe una fiction perfetta per la tv, a puntate. “Non lo farei mai. […] Me ne hanno proposte molte. Ma ho sempre rifiutato”. Per snobberia? “No. Se la storia da raccontare imponesse più puntate, accetterei il format. Ho sempre sognato di portare sullo schermo I Beati Paoli. È un romanzo d’appendice sulla massoneria settecentesca. La snobberia non mi appartiene”. Ha mai visto un cinepanettone? “Certo. Più generi si vedono, più si allena la propria capacità di giudizio. Ho fatto lodi sperticate ad Avatar, film che ubriaca”» (Zincone) • «È vero che quando incontra i produttori porta con sé una rosa di storie e lascia scegliere a loro? “Sì. E capita anche che non venga scelta la migliore delle proposte. Come quando portai La sconosciuta a Giampaolo Letta”» (Zincone). «Il set è un posto dove si sputa sangue, ma è il cuore del film. Non lo sono la scrittura né il montaggio. Il mondo del cinema non è mai riuscito a comunicare al pubblico l’essenza vitale di un set. Questo senso di ciurma che va e viene. Danni e dolori». «Lei va sempre a vedere i suoi film? “Appena escono, mi affaccio a spettacolo iniziato e mi nascondo nel buio per ascoltare la sala. Dai rumori si capisce molto”. Un esempio? “Quando entrai al cinema Barberini durante la proiezione del Pianista sull’oceano, capii che funzionava perché c’era un silenzio sacro. Ma succede anche di intercettare la delusione, eh”. Racconti, racconti. “La prima volta che è uscito Nuovo cinema Paradiso m’infilai all’Ariston, a Roma. In sala c’erano 5 persone. Uscii e la cassiera mi disse: ‘Film bello. Ma non lavora’. A fine proiezione andai dai ragazzi che l’avevano visto, fingendo di decidere se entrare. Chiesi: ‘Com’è?’. Uno sentenziò: ‘Una merda’. Capito?”» (Zincone). «Quando finisco un film, mi viene subito voglia di ripartire con un altro. […] Mi piace zigzagare. Mi eccita il salto nel buio. Ho il complesso dell’opera prima. Quando ho fatto il mio primo film, sono stato l’uomo più felice del mondo. E ogni volta cerco di ritrovare quella sensazione. Quando affronti un’opera prima hai soprattutto paura, e la paura è amica della creatività: la sicurezza ti tradisce, puzza di routine. Se durante le riprese sono troppo sicuro dormo più di cinque ore, viceversa non dormo mai più di tre ore e mezza» • «Di chi si fida il solitario Tornatore, a chi sottopone quello che sta pensando e preparando? “Avevo quattro persone, solo quattro, e purtroppo, di queste, tre non ci sono più. Me n’è rimasta una sola, un amico. È lui il mio test. Sì, lo so, è una mia incapacità quella di non essere riuscito a costruirmi un gruppo. Colpa del mio carattere. Io sono ossessivo e non sopporto che uno sceneggiatore, magari impegnato contemporaneamente anche con un altro regista, non condivida in pieno la mia immersione totale. Ti manca il contraddittorio, così, certo che è un rischio. Devi fare e al tempo stesso essere il critico di quello che hai fatto, l’avvocato del diavolo di te stesso. È faticoso, ma ho rinunciato a correggermi. Mi accetto come sono, mi sento in pace. Figuriamoci che neanche riuscivo a fare i compiti in compagnia, da ragazzo”» (D’Agostini). «Lei ha sempre partecipato poco alla comunità cinematografica italiana. Si pensa che abbia un carattere suscettibile. Si sente isolato? “So che c’è la leggenda del mio carattere scontroso. […] Non mi sento isolato dalla comunità del cinema, ma il mio non essere nato a Roma, l’esser venuto da fuori mi ha reso non un isolato ma un estraneo. Quanto al cattivo carattere, la cosa più sciocca che possa fare uno che gode di questa fama è cercare di dimostrare che non è vero. […] Comunque in tutta onestà non credo che la componente di scontrosità del mio carattere possa aver giustificato un certo clima che si è creato intorno a me e per un po’ mi ha fatto soffrire. Ora non più, non me ne curo assolutamente. Si è arrivati al punto di scrivere che non sapevo usare i congiuntivi”» (D’Agostini) • «Un uomo che ama il cinema in modo viscerale, chiave e mezzo per ricordare e per accendere la memoria. Un regista che crede nell’immagine e che ha alle sue spalle la sua terra, la Sicilia. Profondo conoscitore dei sentimenti umani, Tornatore ha in sé tutta la sostanza del grande cinema italiano» (Aricò e Montagna). «Un cinema che è visione nostalgica del passato e della gioventù, forse pessimistica, forse critica, ma profondamente segnata dall’inscindibile legame con la propria terra di appartenenza. […] Il cineasta di Bagheria sceglie di combattere i pregiudizi e i codici inequivocabili di certi luoghi comuni attraverso una visione cinematografica malinconicamente nostalgica – quasi felliniana –, che racconta della Sicilia come terra romantica, sognatrice, che non vive di sola mafia e violenza» (Parrino). «Giuseppe “Peppuccio” Tornatore resta, suo malgrado, una figura anomala del cinema italiano: sembra talvolta ispirarsi alla saggezza disincantata del Principe di Salina del Gattopardo e talaltra ritrovare la passione e il calore del sindacalista che ha visto nel padre amatissimo. Ha sempre fatto un cinema molto lontano da quello di Francesco Rosi, ma per nessun altro autore ha professato altrettanta venerazione; è stato generoso coi suoi conterranei (i primi passi nella regia di Roberto Andò si devono a lui) e coltiva come un fiore prezioso la memoria culturale e la curiosità intellettuale» (Gosetti) • «Si sprecano nel caso suo gli accostamenti a Fellini e a Leone. “Mi trovo a disagio quando mi insultano ma anche quando mi fanno dei grandi complimenti. Penso di non meritare né i primi né i secondi. Non mi sento all’altezza neanche di un centimetro del lavoro che hanno fatto questi grandi registi. Sergio e Federico furono i primi a vedere Cinema Paradiso, quando ancora non era nelle sale. Il primo in assoluto fu Leone. Gli piacque. Mi disse: stai attento perché ti faranno nero. Secondo lui, il film era molto ambizioso e io troppo giovane. Federico lo vide il giorno dopo. Piacque anche a lui. ‘Ma perché questo senso di morte, a 32 anni?’, mi disse”. Con Fellini si stabilì un rapporto. “Ci sentivamo. Lo andavo a prendere con la mia 126 bianca. Lui non guidava più, dopo un brutto incidente. Lo portavo prima di Natale a Grottaferrata da Claudio, che ci regalava i panettoni. Tornavamo con la 126 carica di questi panettoni. Era molto divertente”. Parlavate soprattutto di cinema? “Credo che lui, a differenza mia, andasse poco al cinema. Non me ne fregava niente, di scoprire se ci fossero affinità tra noi due: non credo ce ne fossero. Ero avido di sapere tutto del suo cinema”» (Dotto) • «Fu dura per lei giovane regista imporre la sua autorità a due attori come Polański e Depardieu? “Più volte mi hanno chiesto se non avevo paura. No, forse per incoscienza. Mi è servito a capire che gli attori più grandi sono anche i più facili. Loro due accettarono solo sul mio racconto, senza leggere il copione. Mi ero fissato che dovevano essere loro. Facilissimi sono stati per me anche Mastroianni, Noiret. A rendere difficili gli attori è l’insicurezza, l’immaturità. Ho avuto paura solo al mio primo film, Il camorrista, perché ero io insicuro e Ben Gazzara era il mito dei film di Cassavetes”» (D’Agostini) • «Sono un regista che lavora dove è possibile. Ci sono certe storie che non riesco a fare in italiano. La leggenda del pianista sull’oceano non me l’avrebbero mai fatto fare qui, per ragioni puramente produttive. Un film in italiano non ha le stesse vendite di un film internazionale. Avessi girato Baarìa in inglese, sarei stato un pazzo. Avessi girato in siciliano La leggenda del pianista sull’oceano, sarei stato un pazzo. Scelgo la linea in base al progetto. Una pura formalità, lo girai in francese» • «Qualunque film nasce da un percorso di tormento e dolore, qualcosa di attinente alla spiritualità. Quanto più è ignoto il destino del film, tanto più c’è la condivisione di un calvario che porta alla fine del film. Il set è un luogo religioso, non è caotico come si può pensare secondo un approccio superficiale. […] Come una lente ottica si imprime su una pellicola sensibile, gli eventi fanno lo stesso con la memoria. Nuovo cinema Paradiso è un film sulla memoria. E sulla nostalgia. In un momento di disorientamento e paura, in cui le sale si stavano svuotando, ho raccontato la gioia e la facilità di innescare un meccanismo della memoria. Un lungo ricordo, il proiettore della memoria. Una pura formalità, invece, è la negazione della memoria. Recuperandola, il protagonista prende coscienza di non essere più. Quante folgorazioni può avere un regista? L’ho chiesto a tanti registi, e tutti mi hanno risposto allo stesso modo: se hai fortuna, una. Ecco, Una pura formalità è la mia folgorazione. Un mistero in cui assassino e vittima coincidono. Ho scelto un percorso criptico per non abbracciare la banalità. Ho accettato la difficoltà della narrazione. Non ebbe successo, ma ne sono orgoglioso. Olmi lo amava molto. È un caso in cui si è tolto per ottenere bellezza» • «Lei ha fatto film molto dichiaratamente autobiografici, ma in quelli che non lo sembrano […] riconosce quanto c’è di suo? “Me lo chiedo spesso, e talvolta, quando un film è finito, mi sembra di intuire che – attraverso vie misteriose – molto di quello che ho vissuto si è trasformato, si è insinuato. Cose che non vorrei spiattellare sullo schermo, ma a dispetto di questa mia ritrosia poi ci finiscono, senza nemmeno che io me ne accorga. Per fortuna nessuno, quasi nessuno, si accorgerà che quella cosa parla di nervi tuoi, sangue tuo» (Piacenza) • «Lei non è un regista prolifico. “Ho realizzato undici film. Sei anni se ne sono andati per il progetto sull’assedio di Leningrado, mai andato in porto. Una volta Fellini mi disse: ‘Ricordati che esistono solo i film che fai. I film che non fai non esistono’. Anche se non sei persuaso del tutto, vai’”» (Cappelli) • «Non credo che col tempo si imparino più cose: si mette solo a fuoco ciò che non si è capito di sé» • «Sono autodidatta. Ma fin da ragazzino non mi occupo d’altro. Credo che la migliore scuola di cinema sia andare al cinema». «Vorrei fare tutto, dall’operatore di macchina al fonico, dal produttore alla comparsa. L’attore, no: ci ho provato al liceo, con Pirandello, ed ero un cane». «Mi mette paura chi si avvicina a questo mondo, oggi, attraverso la telecamerina, coltivando un’idea di facilità che espone a molti equivoci, illusioni e delusioni. Non diffido della nuova tecnologia. Il linguaggio delle immagini si sta conquistando gli stessi diritti che nel corso di secoli si è conquistata la scrittura. Oggi, a differenza dei tempi di Dante, tutti possono scrivere, e lo fanno. Ma solo alcuni diventano libri importanti: tantissimi altri restano nel nulla» • «Quando lo consegno al pubblico, il film continua a essere modificato dalle innumerevoli interpretazioni, più o meno in buona fede, più o meno accurate. Il pubblico, e intendo tutto il pubblico – i critici, i distributori, gli addetti ai lavori –, opera un’azione di ulteriore riscrittura del film. Ognuno ha da dire la propria, e io chiamo tutto questo “l’opera del vento”, come uno scultore che lascia la sua scultura e a quel punto il tempo e gli agenti atmosferici continuano – senza che lo scultore lo voglia o possa impedire che questo accada – a scolpire la pietra. E, infatti, a distanza di secoli le statue diventano tutt’altra cosa» (ad Alessia Liparoti) • «Non so se il cinema aspiri a fare miracoli, ma i film suscitano nelle persone effetti miracolosi. […] La vera aspirazione di un cineasta è fare un film o un pezzetto di un film che sia un miracolo per qualcuno. Ero a promuovere Stanno tutti bene in America, e una signora mi disse che era andata a trovare il padre alla casa di riposo dopo aver visto il film. Serve una cosa così costosa come un film per innescare un così piccolo gesto? Forse sì».