7 aprile 2021
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Biografia di Alberto Angela
Alberto Angela, nato a Parigi (Francia) l’8 aprile 1962 (59 anni). Paleoantropologo. Divulgatore scientifico. Conduttore televisivo. Saggista. Giornalista. «Ho conservato due disegni che ho fatto quando avevo otto anni: nel primo, facevo uno scavo e trovavo un dinosauro; nel secondo, disegnavo un gruppo di uomini preistorici. Fin da piccolo volevo studiare il passato lontano: l’ho fatto, e continuo a farlo» (a Cristina Lacava) • «Gli Angela sono alla terza generazione di divulgatori: Carlo Angela, mio nonno, neuropsichiatra, aveva una rubrica alla radio» (a Leandro Palestini). «Mio nonno, il papà di mio papà, è stato in Congo all’inizio del ’900, come medico. Ha vissuto in Africa per molti anni. È bello pensare che questa voglia di scoprire il mondo sia un po’ nel Dna della nostra famiglia» • Secondogenito di Piero Angela, giornalista e divulgatore scientifico, e Margherita Pastore, ex ballerina del Teatro alla Scala di Milano. «Potrei dire che sono molto più figlio di mamma. Piero mi ha guidato nel mondo del pensiero, lei in quello dell’arte e dell’armonia. Si sono sposati giovanissimi, si sono trovati a vivere a Parigi, anni difficili. Credo che questo li abbia uniti ancora di più» (a Silvia Fumarola). «Lei è nato a Parigi. “Mio papà era corrispondente da Parigi, prima per la radio, poi per la televisione. Dopo sono stato quattro anni in Belgio. E, infine, Roma”» (Laura Larcan). «Da piccolo guardava le trasmissioni di suo padre Piero Angela? “Lo vedevo in tv, ma ce l’avevo in casa: ancora meglio”. Ha fatto molti viaggi con i suoi genitori? “Sì, anche con le tende: l’Himalaya, le isole sperdute dell’Indonesia, le Ande, il Sud America. Era l’epoca in cui potevi trovare ancora cose intatte. Allora per arrivare in India un jumbo si fermava a Teheran e dovevi trascorrere lì la notte. Era tutto più lento. Non c’era l’aria condizionata, infatti oggi non ne ho bisogno…”» (Eleonora Barbieri). «Abbiamo fatto tanti viaggi in famiglia, ma le storie più belle erano quelle di papà, le sue avventure: ascoltarlo era un po’ come leggere Salgari. Ha cominciato che non c’era la televisione ed è ancora in prima serata: è un patrimonio». A Roma frequentò il liceo francese Chateaubriand. «La materia preferita a scuola? “Storia”. Ma dài. La più odiata? “Matematica: ho avuto insegnanti sbagliati”. Il gioco preferito da bambino? “Costruivo ambienti e modelli con la plastilina. E poi disegnavo. Ero un bambino creativo”. Tranquillo o vivace? “Pestifero. A 10 anni ero già finito 11 volte all’ospedale. Correvo sempre: ero il più veloce della scuola. E poi spiegavo, raccontavo quello che mi succedeva, ero un divulgatore in erba. Praticamente ero già in onda. All’asilo a fine anno assegnavano i premi per il disegno, per l’arte, per la musica. Ne inventarono uno per me: il premio per l’eloquenza”» (Alex Adami). «È stato bocciato in quinta elementare. “Attenzione. Era una scuola molto rigida, non è che sia stato bocciato perché non studiavo. Era stato molto complicato, avevo fatto un esame e sono stato bocciato per un punto”» (Elvira Serra). Da piccolo «“sognavo di fare l’oceanografo, volevo studiare gli squali”. Perché gli squali? “Non saprei, è un animale preistorico e ha personalità rispetto agli altri che vivono nell’acqua. Il mio mito era Jacques Cousteau: ero attratto dall’esplorazione. Poi a Napoli vedo un ricercatore giapponese chino su un microscopio ottico che guardava le alghe. Ho capito che fare l’oceanografo non voleva dire solo fare immersioni. Da ragazzino disegnavo uomini preistorici e dinosauri: mi sono laureato in Scienze naturali alla Sapienza e ho indirizzato gli studi alla paleontologia umana. Gli amici andavano a divertirsi, io partivo volontario nelle spedizioni”» (Fumarola). «Ancora prima di laurearmi facevo parte di un’associazione che organizzava spedizioni, dappertutto. In quei viaggi mi sono formato anche come raccontatore e divulgatore» (a Francesco Merlo). «“Mi sono laureato in Scienze naturali a Roma e ho seguito corsi ad Harvard, alla Ucla e alla Columbia”. […] Poi, però, ai libri ha preferito le spedizioni in giro per il mondo. “Le ricerche sul campo sono fondamentali. Sono stato in Congo, in Tanzania ero impegnato per una fondazione che collaborava con l’Università di Berkeley: seguivano gli studi sull’uomo preistorico. Sono quelli che avevano scoperto Lucy. Poi ho fatto spedizioni in Oman, Etiopia, Mongolia, a cercare scheletri di dinosauri, la mia passione. Esperienze emozionanti che ti danno una formazione umana oltre che scientifica”. Faceva una vita da Indiana Jones. Qualche ricordo? “La tenda assalita dalle formiche legionarie, circondata dalle iene, dagli ippopotami. Siamo stati vittime di un rapimento. Sa cosa vuol dire attraversare un fiume in zattera con un cannibale?”. Veramente no. “Ho scoperto che era un cannibale dopo la traversata. Una loro caratteristica è affilarsi i denti a triangolo, tipo quelli dello squalo. Prendo lo zaino, dico una cosa stupida in francese e questo ragazzo sorride: i denti erano appuntiti. Sul momento mi sono sentito a disagio, ma era una persona dolcissima, faceva il pastore”» (Fumarola). «“In Etiopia ci è capitato di finire in una imboscata, fatta per uccidere. Una situazione di tiro incrociato, con proiettili da tutte le parti. Gli aggressori pensavano fossimo di una fazione nemica”. Come è andata? “Bene, alla fine: ne siamo usciti illesi. Però quando ci hanno circondati mi sono detto: è finita, come facciamo? Quando hanno capito il malinteso, dopo qualche ora siamo usciti da quell’incubo. Eppure era una zona tranquilla, eravamo stati attenti”» (Barbieri). «Cosa le hanno insegnato quelle spedizioni? “Lo spirito di gruppo, la psicologia, come sono importanti i dettagli, le battute per smorzare la tensione. Le persone con cui lavori diventano una famiglia: vedevo più loro che i miei”. Più che Cousteau voleva diventare Indiana Jones? “Esiste il paleontologo da laboratorio e quello da campo: Indiana Jones ha il suo fascino. Devi saper estrarre, imparare a trovare le cose. Io non vedo mai l’insieme, ma i dettagli: se cade qualcosa di minuscolo sotto il tavolo, la trovo”. La svolta? “La definirei la chiamata del destino. Facendo gli scavi trovo un osso, la tempia di un ominide: tutti a festeggiare. Mi offrono il PhD a Berkeley: come fare un gol. Di fronte a un tramonto, era il 1988, seduto su un bidone, comincio a pensare che il mio futuro non può essere lontano dall’Italia. Poi si scopre che si erano sbagliati ad analizzare il reperto: l’osso trovato non era di un ominide, apparteneva a un babbuino gigante. C’era stato il gol, ma poi il Var: anche una cosa brutta ti indica la via”. Vuol dire la via per la tv? “Grazie al Centro studi Ligabue comincio a lavorare, scrivo un programma che si chiamava Albatros: roba da pionieri, prendevo le foto dalle enciclopedie. Tv del Canton Ticino, poi Andrea Melodia l’ha comprato e l’ha messo a Telemontecarlo”. Ha avuto dubbi quando ha iniziato a lavorare con suo padre? “Ma certo, sai che sei visto malissimo. Anche Piero non era convinto. Al primo grande programma sul corpo umano non mi ha voluto. Poi lo convinse proprio Melodia, che era a Rai 1. Devi dimostrare sul campo di essere bravo, un po’ come Maldini. Mi sono detto: ‘È un problema nella testa degli altri. Hai un cognome, e adesso ti fai un nome’”» (Fumarola). «Con mio padre ci siamo guardati in faccia, abbiamo detto: la frittata è fatta, tanto vale lavorare insieme. Come in un poliziesco, lui analizza la realtà, io cerco il colpevole da inviato sul campo» (ad Annarita Briganti). «Così abbiamo cominciato a lavorare insieme al Pianeta dei dinosauri, poi a Ulisse. Più che padre e figlio, eravamo colleghi». Dapprima collaboratore del padre in numerose trasmissioni di Rai 1, quali Il pianeta dei dinosauri (1993), Superquark (dal 1995) e Viaggio nel cosmo (1998), Alberto Angela debuttò alla conduzione nel 1997 con Passaggio a Nord-Ovest (tuttora in produzione), nella fascia pomeridiana di Rai 1, cui seguirono altri programmi di approfondimento documentaristico trasmessi in prima serata, quali Ulisse – Il piacere della scoperta (dal 2000: fino al 2018 su Rai 3, poi su Rai 1), Stanotte a… (dal 2015) e Meraviglie – La penisola dei tesori (dal 2018), entrambi su Rai 1, con i quali ha riscosso grande successo di pubblico e di critica, riuscendo persino a vincere la sfida degli ascolti del sabato sera con le più popolari e popolaresche trasmissioni della concorrenza. «Cos’ha rappresentato portare Ulisse su Rai 1 il sabato? “Una bella sfida. La Rai ha avuto una grande intuizione e coraggio ad aprire questa oasi di cultura in una serata da sempre destinata ad altro. Si è fidata degli italiani, il merito è tutto del pubblico. Andavo in onda il sabato anche su Rai 3, ma è diverso. Approdare su Rai 1 è stata una straordinaria opportunità. […] Si è percepita, da parte della gente, la necessità di una televisione credibile, affidabile, e guarda caso è avvenuto con l’esplosione del web. Le due cose sono collegate, riguardano la maturità del pubblico e l’impatto sui giovani: nell’èra del web si può comunicare diversamente”. Che peso hanno gli ascolti? “Per me il grande risultato è stato andare in onda. Lo share è una specie di semaforo, ma il valore è fare un programma che parli a tutti”» (Fumarola). «Nessun’altra nazione mette nella rete ammiraglia un programma che parla di arte. Perché lo fa l’Italia? Perché funziona. Perché, anche se la gente non ha avuto la fortuna di studiare arte, vive in un ambiente pregno di storia». Attualmente sta lavorando alla XXI edizione di Ulisse – Il piacere della scoperta. «Come sta vivendo questo momento storico? “Come tutti, cercando di evitare l’esposizione al rischio contagi. Con una certezza: se siamo tutti uniti ne usciremo. Come nella scena del film Il gladiatore in cui si ritrovano sull’arena e sta per aprirsi uno dei cancelli. Russell Crowe dice: qualunque cosa esca da lì, avremo maggiore probabilità di sopravvivenza se rimarremo uniti. È una regola che vale ancora oggi”» (Larcan) • «Nel 2002 lei è stato sequestrato. “Esperienza tosta. Giravamo nel delta del Niger, e per oltre 15 ore abbiamo vissuto da condannati a morte: tutti percossi, minacciati e poi derubati, dalle attrezzature ai contanti, fino alle fedi nuziali e agli orologi. Sempre sul filo di una tortura psicologica. […] Eravamo nell’incertezza assoluta: in quei casi non puoi prevedere nulla, non ci sono parametri psicologici, non puoi aggrapparti alle tue certezze occidentali”. E poi? “Ci hanno abbandonati nel deserto, sono andati alle nostre macchine e le hanno devastate. Il giorno dopo sono tornati e ci hanno lasciati liberi”» (Alessandro Ferrucci) • Copiosa produzione libraria, dai primi testi divulgativi scritti a quattro mani insieme al padre (La straordinaria storia dell’uomo, Mondadori, 1989; La straordinaria storia della vita sulla Terra, Mondadori, 1992; Il pianeta dei dinosauri, Mondadori, 1993) a quelli scritti in proprio, tra i quali Una giornata nell’antica Roma (Rai-Eri, 2007), Amore e sesso nell’antica Roma (Rai-Eri, 2012), I tre giorni di Pompei (Rai-Eri, 2014) e, da ultimo, una monografia su Cleopatra (Cleopatra. La regina che sfidò Roma e conquistò l’eternità, HarperCollins, 2018) e il primo volume di una trilogia dedicata a Nerone (L’ultimo giorno di Roma. Viaggio nella città di Nerone poco prima del grande incendio, HarperCollins, 2020), della quale nella primavera 2021 dovrebbe essere pubblicato il secondo volume, incentrato sul grande incendio che sconvolse Roma nel 64 d.C. «“Nerone è un personaggio enigmatico, inafferrabile. È come un’isola di cui ti hanno dato una mappa sbagliata, e tu la devi scoprire”. Ed è questa la nuova impresa letteraria di Alberto Angela: una trilogia dedicata al controverso imperatore romano sullo sfondo dell’incendio del 18 luglio del 64 d.C. […] “Con l’incendio di Roma non c’entra nulla. Su questo punto sono concordi tutti gli ultimi studi. Non ci sono prove che sia stato lui ad appiccarlo. L’ipotesi più plausibile è che l’incendio abbia avuto una causa accidentale”» (Larcan) • Sposato dal 1993, tre figli: Riccardo (1998), Edoardo (1999) e Alessandro (2004). «A che età ha dato il suo primo bacio? “Avevo 12 anni. E mi ero innamorato”. […] Come fa funzionare il matrimonio? “Regalo rose rosse, da sempre”. Solo? “Sembra una cosa sdolcinata, ma il romanticismo è importante, anche se non facile. Portare dei fiori dicendo ‘buon martedì’ può essere un afrodisiaco”. E poi? “Con mia moglie è stato un colpo di fulmine, che ha retto bene il tempo. L’amore si trasforma in companionship: si sta tutti e due sulla barca, ci sono difficoltà, si cerca di restare a galla nel mare mosso. Quando arrivano i figli, cambia ancora tutto: non sono il frutto dell’amore, ma qualcosa che ti arriva addosso e devi gestire”. […] All’inizio della carriera lei trascorreva mesi all’estero per le sue ricerche archeologiche. È stato pesante per il ménage familiare? “No: tornavo e facevo i figli. Scherzi a parte, la presenza è molto importante. ‘Presence, not presents’, dicono gli inglesi. Presenza e non regali. Io stavo in giro, ma quando c’ero c’ero”» (Silvia Bombino). «Ha detto che suo padre è stato il suo Salgari: lei lo è per i suoi figli? “Per farli addormentare raccontavo loro le cose che avevo visto. I miei tre ragazzi hanno un’apertura mentale che è un po’ il marchio di famiglia. Sono dotati di creatività e distacco, vedono le cose in modo riflessivo, hanno anche loro un approccio alla vita esplorativo. Edoardo studia Nanotecnologie all’Imperial College a Londra: da lui imparo. Riccardo è laureato in Biologia, ha già due master, stesso entusiasmo del sapere. Il piccoletto, Alessandro, ha diciassette anni. Anche lui è pieno di curiosità”. Diamo un po’ di merito anche a sua moglie Monica? “Certo, merito diviso in due”. Che padre è? “Mai stato severo. Un padre non deve dire le cose, deve comportarsi bene. Fine. Ho sempre applicato questa idea nella vita: ‘Le persone che sono accanto a te sei tu’”» (Fumarola). «Un papà non deve dire ai figli quello che devono fare, semmai consigliare loro quello che è meglio non fare. E ascoltare» • «Chi sono i tuoi maestri? “Mi ispiro a mio padre e a mio nonno, che fu uno psichiatra antifascista di Giustizia e libertà, decorato come ‘Giusto tra le nazioni’ perché salvò molti ebrei. I miei valori sono, fortissimamente, quelli di famiglia”. Fai il mestiere di tuo padre. E sei un’eccezione positiva nel disastroso familismo italiano. “All’inizio ho dovuto combattere con il mio cognome. Ma sono andato avanti per la mia strada”. E ora invece di dire che sei il figlio di Piero dicono che Piero è il padre di Alberto. “È una battuta che fa anche lui, per ridere”» (Merlo) • «Tutti inevitabilmente le chiediamo di suo padre Piero, ma cosa pensa di aver ereditato da sua madre Margherita, cui peraltro somiglia? “A parte il Dna, sia lei che mio padre mi hanno dato la stessa cosa: l’apertura mentale, la voglia di esplorare il mondo”. […] Sul lavoro chiama suo padre per nome. “Da quando abbiamo cominciato a lavorare insieme, tra noi c’è un rapporto tra colleghi: troverei fuori posto chiamarlo papà”. Ma la domenica lo chiama papà o Piero? “Dipende. Però, quando si lavora in un settore come quello del giornalismo scientifico e della divulgazione, scopri che la scienza unisce le generazioni: un anziano, un giovane, uno di età media parlano la stessa lingua”. All’inizio suo padre diceva che avevate spesso battibecchi perché lei era precisino. “Trent’anni fa scrivemmo insieme La straordinaria storia dell’uomo: lui descriveva l’evoluzione con approccio giornalistico, io ci arrivavo con un approccio più da ricercatore. Avevo ancora addosso la polvere dello scavo”» (Serra). «Io ero un bambino che tornava a casa portando pezzi di roccia e serpentelli, mio padre era un ragazzino dotato di una smisurata curiosità per l’intero scibile umano. Lui è un giornalista, io un ricercatore. Lui ha il dono dell’intuito e della sintesi, io ho l’umiltà e la serietà che vengono dai miei studi. Sembriamo intercambiabili, ma non lo siamo» (a Simonetta Robiony) • «Lei crede in Dio? “Questo, non glielo posso dire. Sono cose personali. Quello che è importante è che non abbiamo mai avuto problemi con la Chiesa mentre giravamo. Anzi, sono sempre stati estremamente collaborativi”» (Gianmaria Tammaro) • «Lei in politica? “Sono distante”. Ci ha mai pensato? “Ribadisco: sono distante”. Qualcuno le avrà proposto una candidatura… “No, e poi mi occupo solo di politica antica”» (Ferrucci) • «Dice che la sua regola è “la coerenza”. E significa: “Non mi faccio tentare”. Che vuoi dire? “Che innanzitutto ho detto no alla pubblicità”. Immagino che ti offrano di tutto, da Sanremo in su. “Ci provano”. Anche la politica… “… con me non ci prova nemmeno”. Come mai nelle interviste nascondi le tue opinioni? “Non le nascondo, ma le tengo separate dal lavoro, e dunque le difendo per non farmi arruolare. La mia tv è servizio pubblico”» (Merlo) • «Nel tuo successo c’è l’idea di Patria? “Sicuramente. È quella di Ciampi, un presidente che amo molto ma non ho avuto la fortuna di conoscere. Prima di Ciampi la Patria era un valore di destra, guerresco. Lui ha convinto gli italiani a fare pace con la bandiera e con l’inno”. Tu lo canti? “Sì, anche se lo avrei preferito diverso. Va’ pensiero sarebbe stato meglio”. Eppure qualcuno immaginò Va’ pensiero come l’inno della secessione. “Fu un cattivo pensiero. Figuriamoci! È stato la colonna sonora del Risorgimento. Si può dire che grazie a Ciampi anche un brutto inno è diventato un inno. E pensa che Ciampi sembrava un burocrate, un uomo di conti. Invece era un uomo di bellezza”. Che vuoi dire? “Che la sua idea di Patria è fondata sulle emozioni, sui valori di una comunità e non sugli eserciti: sulla bandiera che sventola sul Battistero, a Pompei, nelle Langhe, sulla Reggia di Caserta, sulle notti italiane che sono uniche al mondo. In nessun altro Paese si potrebbe girare una puntata sulla notte come abbiamo fatto a San Pietro, a Firenze, a Venezia, a Torino. Solo da noi la notte è così ricca di colori”. […] L’Italia che racconti è quella che raccontano gli stranieri. I viaggi in Italia per noi sono quelli di Piovene e di Ceronetti e, in tv, di Soldati e di Pasolini: il male d’Italia. Invece tu sembri francese: Montaigne, Chateaubriand, Dumas, Gautier, Stendhal… il Grand Tour come educazione sentimentale. La bella Italia era il luogo dove il mondo cercava il mondo fuori da sé. “È vero che io sono nato a Parigi, ho vissuto in Belgio e ho studiato alla scuola francese a Roma, ma mi sono laureato alla Sapienza. E, anche se ho poi ho studiato in America, sono fierissimo di essere italiano. Purtroppo agli italiani piace parlare male dell’Italia, e magari assecondare i pregiudizi coltivati all’estero”. […] Sembri straniero nell’amor d’Italia, ma sei italianissimo nel fisico, con quelle mani mai ferme. “Le mani parlano, anzi mettono la punteggiatura nel linguaggio parlato. Io non credo che chi gesticola sia un cafone. Tutt’altro. Nel Mediterraneo anche il pensiero è un manu-fatto. E del Sud mi piace tutto”» (Merlo) • «L’arte è l’espressione del bello declinata nelle varie civiltà: non possiamo prescinderne, soprattutto perché viviamo in un Paese che ha un patrimonio unico al mondo. Immaginando un libro di storia, noi ne possediamo tutte le pagine, sin dalla preistoria» (a Tiziana Lupi). «“Vorrei che tutti scoprissero le meraviglie italiane che gli italiani forse non conoscono abbastanza”. Alcune stanno all’estero. “Il Louvre, per esempio, è un covo dove espongono la refurtiva”. Dovrebbero restituirci tutto? “La Gioconda no, perché la portò con sé Leonardo. Ma quel che ci è stato sottratto dopo il 14 luglio del 1789 sì. La Rivoluzione francese, con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, è lo spartiacque. Da quel momento, infatti, la storia non la fanno più solo i vincitori, e dunque, da quella data, il bottino di guerra va sempre restituito, anche se nel mondo i saccheggi sono continuati sino alla metà del XX secolo. Noi abbiamo restituito l’obelisco all’Etiopia. In Francia c’è un lungo elenco di queste meraviglie italiane, da Leonardo a Raffaello al Mantegna…”» (Merlo). «Il Louvre è pieno di opere sottratte da Napoleone con i fucili spianati. Quando giro tra quelle sale e leggo il cartellino “Campagna d’Italia”, avverto un moto di fastidio profondo: vuol dire che è stata razziata» • «In tv sembra sempre tranquillo: si arrabbia mai? “Oh sì, certo. Di solito di fronte all’ottusità e alla stupidità umana”. E che fa, alza la voce? “Porto avanti le mie idee con veemenza, decisione e sicurezza. Diciamo che quando sono arrabbiato si capisce”. […] Ce l’avrà, un difetto. “Ne ho tanti. Il principale è che sono ritardatario. E anche poco mondano”. Non è necessariamente un difetto. Un suo vezzo? “Due caffè la mattina, uno dietro l’altro. E poi non memorizzo nulla sul cellulare: i miei appunti sono solo su foglietti di carta”. Capitolo manutenzione fisica. “Faccio le scale a piedi, lascio la macchina lontano e cammino. Ma il nuoto è lo sport che preferisco: mi rilassa e mi permette di pensare. Ma sono una buona forchetta e mi piace la convivialità della tavola, dove non deve mai mancare il sorriso. Adoro raccontare le barzellette”. La canzone che canticchia più spesso? “I’ve Got You Under My Skin. Sono da sempre fan di Frank Sinatra. E mi piacciono il jazz, il rock di Springsteen e la musica anni ’80”» (Adami). «Mai fumato. Mai droghe. E non bevo. Non mi piace il vino» • «“Quando sono all’estero mi porto sempre il caffè dall’Italia: non riesco a farne a meno, ovunque mi trovi”. Che cos’ha sempre nel frigo? “Ho una debolezza: il tiramisù. Casalingo o di pasticceria, non manca mai. Per il resto, largo ai prodotti sani: spremute, centrifugati, latte bio”» (Lacava). «Odio la nouvelle cuisine, non voglio mangiare esperimenti. Sono molto tradizionale». «Il caffè italiano è Patria quando sulle Ande ne senti l’odore. Ed è Patria stare a tavola, a fare convivio quando sei all’estero» • «Che musica ascolta? “Un po’ di tutto, dalla Pastorale di Ludwig van Beethoven alla musica brasiliana – da Toquinho a Vinícius de Moraes – ai Coldplay”. […] Il libro preferito? “Amore e odio, di Irenäus Eibl-Eibesfeldt, un etologo che ha messo a confronto i comportamenti umani innati e quelli degli animali. Mi piacciono i romanzi di avventura o di fantascienza, tutto Isaac Asimov per esempio, ma anche il De bello Gallico, dove Giulio Cesare ci descrive un’Europa che non conosciamo, ricca di foreste, attraversata da fiumi e abitata da popoli di cui si sono perse le tracce. Peccato che ai ragazzi quest’opera non piaccia: andrebbe riletta a scuola finita, senza l’obbligo degli esercizi di traduzione”» (Lacava). «Qual è un film che fa parte della sua vita? “2001 Odissea nello spazio, Ben Hur, Il gladiatore, Indiana Jones. Li sento molto miei. […] Questi film mi piacciono perché c’è un’esplorazione: della dimensione personale, del pianeta, di epoche”» (Larcan). «Adoro Clint Eastwood» • «Ha una collezione? “Le sabbie del deserto. Ho iniziato anni fa, quando partivo per le mie spedizioni da paleontologo, prima di cominciare con la tv. Riempivo con la sabbia i rullini fotografici, poi, tornato in Italia, travasavo il materiale nelle boccette di vetro. Ne ho più di una ventina, e dai colori riesco sempre a identificare il deserto di provenienza. Mi ricordo il Ténéré, per esempio, nel cuore del Sahara, addirittura bicolore: la mia jeep si era bloccata su una duna color salmone, ma quando sono sceso ho visto che le impronte lasciavano orme bianche. […] Dai miei viaggi porto sempre qualcosa a casa. Ho esposto abiti e strumenti musicali in teche appese al muro e in tavoli con vetrine trasparenti, come in un museo. Rappresentano tutto il mio mondo, la mia vita”» (Lacava) • «La prima cosa che mette in valigia? “Coltellino multiuso e giaccone con tante tasche”. Cosa non manca mai nel suo bagaglio? “Macchina fotografica, o comunque lo smartphone per fare le foto”» (Adami) • «La redazione di Ulisse è al secondo piano di una palazzina d’epoca nel quartiere Prati a Roma. […] L’ufficio di Alberto non è grande: “Tanto sono sempre in giro, qui ci sto poco”, spiega. C’è una scaffalatura di metallo stracolma di libri e riviste di architettura, archeologia, storia, ambiente. Poi una stampa che riproduce il ritratto di Paquio Proculo, un famoso affresco di Pompei (“È uno dei luoghi al mondo dove non mi stanco mai di tornare”), l’immagine del trapezophoros (“Un basamento con due grifoni alati che predano un cerbiatto: un capolavoro scoperto in Puglia”). E il poster di un astronauta sulla Luna: “Lo guardo e mi aiuta a ridimensionare le seccature quotidiane. Quegli uomini sono arrivati lassù, a 300 mila chilometri dalla Terra: se qualcosa fosse andato male, nessuno sarebbe andato a recuperarli. Quelli, sì, che erano problemi”» (Adami) • «A lui sono stati dedicati una specie di piccolo mollusco (il Prunum albertoangelai, che vive nei mari della Colombia) e un asteroide (80652 Albertoangela)» (Sonia Montrella) • «La popolarità cambia la vita? “La televisione non mi ha cambiato, cerco di mantenermi normale. Sono come Ulisse che si mette la cera nelle orecchie. Lavoro, studio, il resto è un mondo di plastica. Ma siamo animali sociali, ci pettiniamo la mattina per essere accolti nel gruppo, le dinamiche di gruppo sono fortissime”. Le sue quali sono? “Non sono mondano, sento la falsità di certe situazioni. Apparire non mi piace: si basa tutto su cosa diranno gli altri di te. Il mio ideale sarebbe fare questo lavoro e avere l’anonimato quando cammino per strada”. Sono nati i fan club, è stato promosso sex symbol: da ragazzo la corteggiavano? (ride) “Scherza? No, nessuno diceva che ero bello. Nella comunicazione vale l’insieme, l’aspetto fisico non è fondamentale. Conta la lunghezza d’onda che crei, la parola chiave è empatia”. […] Come si definirebbe? “Una persona normale. Se sono sulla Terra non posso pensare di stare sulla Luna: sono nato in una famiglia normale. Mi sento bene così”» (Fumarola). «“Sono come il naturalista nella savana che guarda con il binocolo: non deve intervenire e giudicare, osserva e basta. Però in tutto questo c’è una cosa che non si dice mai”. Diciamola. “Io sono molto diverso dai miei colleghi: sono un ricercatore prestato alla televisione. Per dieci anni ero nei luoghi dove si fanno documentari, dentro le tende in mezzo al Serengeti, con i leoni. Non faccio tivù per apparire sui rotocalchi, ma per condividere il piacere pazzesco di scoprire cose che non sapevi prima”» (Serra) • «Marcorè l’ha presa in giro: le dispiaceva? “Per Quark andavamo sui siti con l’operatore: per non annoiare mentre racconti le storie, devi per forza muoverti. Non potevo restare fermo, così ho cominciato a camminare gesticolando, ed è nata la famosa imitazione di Neri Marcorè, che era molto divertente. Abbiamo fatto anche servizi in coppia”» (Fumarola) • «Non è un dipendente Rai, giusto? “No, e io e mio padre non abbiamo una società di produzione: non ho mai capito perché la gente lo pensi. Abbiamo contratti a termine che vengono rinnovati a seconda dei risultati, ogni 2-3-4 anni. Per un anno e mezzo sono anche rimasto fuori”. E nessuno l’ha corteggiata? “Tutti. Ma aspettavo la proposta della Rai”. Perché per lei è così importante lavorare in Rai? “Perché la divulgazione va fatta nella rete pubblica nazionale”» (Serra) • «Per essere un buon divulgatore bisogna possedere due qualità fondamentali. La prima è data dalle nozioni scientifiche: devono essere solide. La seconda viene invece dalla capacita di saperle comunicare, che è conseguenza della prima. Se non conosci bene le cose, non sarai mai in grado di spiegarle agli altri» (ad Alberto Pezzini). «La divulgazione ha delle regole? “Usare un linguaggio comune per concetti da storico, da archeologo. E uno stile da romanzo: mi pongo le domande della gente e cerco di rispondere. La storia è racconto, ci deve essere emozione”. Vale anche per l’arte? “In un affresco, un bassorilievo o un monumento guardo i dettagli, in cui vedi lo stile di vita dell’epoca: i vestiti, le navi, le città, i porti. Ho uno sguardo da investigatore. Per esempio, nel caso della Gioconda osservo quello che c’è intorno: gli abiti, il paesaggio, la seggiola su cui è seduta, e alla quale nessuno bada mai”» (Barbieri). «C’è bisogno di qualcuno che racconti la scienza o la cultura e lo faccia in maniera comprensibile. La gente deve arrivare a dire: “Ho capito quello che hai detto, dunque di te mi fido”. Nei dieci anni in cui ho lavorato come ricercatore ho sempre sentito che mancava un intermediario, e mi sono chiesto: perché queste cose devono rimanere confinate nei libri o nei circoli scientifici e culturali e la gente non le sa? […] Certo, la credibilità devi conquistartela sul campo: né io né mio padre, ad esempio, abbiamo mai fatto pubblicità né ospitate in qualche programma per sparare sentenze. È il prezzo che paghiamo perché, stando a metà tra la cultura e lo spettacolo, è necessario trovare un certo equilibrio. Sul come, invece, direi che è fondamentale l’educazione: attraverso lo schermo, noi entriamo a casa della gente, e quando si va a trovare qualcuno non si urla. Quando faccio un programma, cerco di parlare e di comportarmi come se fossi seduto a tavola con chi mi guarda». «I programmi devi farli bene, scendendo dal piedistallo, con la convinzione che la cultura è di tutti. Ottieni i risultati soltanto se c’è qualcuno dall’altra parte. Ho una grande squadra di lavoro (autori, collaboratori, il regista), ma il successo si deve alle persone che ci seguono. La tv è uno specchio: diamo cibo a chi ha fame» (a Silvia D’Onghia). «Insomma: al centro di tutto c’è la curiosità. “Sì, la curiosità è il segreto della divulgazione e della ricerca scientifica. Nella curiosità si riassume lo spirito di Passaggio a Nord-Ovest, Ulisse e credo anche Superquark – ma, quello, dovrebbe chiederlo a mio padre”» (Tammaro) • «Ha girato il mondo per i suoi programmi. Il luogo più emozionante? “Le rovine Khmer nella giungla del Sud-Est asiatico, le costruzioni Inca sulle Ande, l’Isola di Pasqua, Petra, che sembra inventata da uno sceneggiatore, è meravigliosa. Ogni volta vedi la grandezza dell’uomo. E poi i deserti”. Perché le piacciono i deserti? “Sono un libro di storia. Basta fermarti per scoprire qualcosa che l’uomo ha lasciato: un fortino, una città abbandonata. Rovine e silenzio. L’umanità: le date e i nomi, li leggi sui libri, quello che non trovi è la vita quotidiana. Perciò faccio divulgazione”. Un posto speciale? “Eh… L’Antartide è un luogo dove vedi il futuro, le basi su altri pianeti, e insieme il passato, come l’uomo sia riuscito a viaggiare in luoghi impossibili. Poi ho visto tante cose, dalle basi segrete sotto le montagne tipo 007 alla più grande tomba egizia, nella quale sono stato il primo a filmare con la mia troupe, fino alle immersioni in un antico relitto. Difficile dire quale mi abbia impressionato di più, però c’è una cosa”. Quale? “Il mondo è pieno di cose belle, ma le più belle le ho viste da noi in Italia. All’estero c’è una sola cosa, meravigliosa, in Italia c’è tutto”» (Barbieri). «Quale esperienza l’ha emozionata di più? “Tante. Il volo in assenza di gravità simulata: la bellezza vera è stata descrivere questa emozione in diretta. Peccato che alla fine, quando ho cominciato a fare piroette, l’operatore avesse finito il nastro”. Un’altra emozione forte? “Il decollo dello Shuttle. Quando ci hanno assegnato il posto nell’area stampa, a cinque chilometri dal punto del lancio, non capivo perché fossimo così lontani. Poi, 3-2-1, decolla e non senti niente, vedi il fumo che si alza, lo shuttle che si inclina, la fiamma che è paragonabile a quella ossidrica, non riesci a guardarla. E il suono violento, quasi un fuoco d’artificio, e tu lo senti qua (si batte il petto, ndr). Mio padre, che aveva assistito al decollo del Saturno 5, lo aveva descritto come un lenzuolo che si strappa. Poi ti accorgi che sono partiti gli allarmi delle auto, e quando vai al press office vedi i quadri storti: l’edificio è stato scosso”. Cosa le insegnano questi momenti? “Penso all’esperienza dell’aurora boreale alle isole Lofoten, una bandiera gigantesca che si muove sulla tua testa e non capisci a quale velocità. Lì ho avuto precisa la percezione della potenza dell’universo: ti ridimensiona molto”» (Serra). «Lei ha un rapporto particolare con Pompei. “Pompei è un luogo incredibile; forse il più straordinario. Non è solo una rovina del passato. È una città intatta, non abbandonata: c’è tutto, hanno trovato i piatti dell’ultimo pasto e hanno trovato le persone. È come se i suoi abitanti se ne fossero andati via solo per un attimo. È l’unico luogo dove riesci a respirare l’atmosfera del passato allo stato puro. Un passato che vive ancora”. […] Nei suoi programmi il racconto della storia molto spesso coincide con il racconto delle persone. “Ed è così. Alla fine, la storia è fatta dalle persone. Ritrovi il tuo stesso modo di pensare in tutti i tempi e in tutte le epoche. Ricordo di aver visto un papiro egizio scritto da una persona anziana che si lamentava dei giovani della sua epoca: li accusava di aver abbandonato le tradizioni e di fischiettare canzoni straniere nei vicoli”» (Tammaro). «La più grande lezione ricevuta? “Quando un sopravvissuto di Hiroshima e Nagasaki, con la benda nera sull’occhio, il viso pieno di cicatrici, mi ha detto: ‘Prendersi carico della sofferenza altrui: questa è la pace’. Poteva odiare il mondo, invece no”» (Fumarola) • «Sente invidia intorno a sé? “No. Non ne ho la percezione, anche se non me ne occupo molto. Faccio il mio”. Si annoia mai? “Mai. Non ne ho il tempo”» (Barbieri). «Non ho idea di cosa sia la monotonia della vita d’ufficio» • «C’è un’esperienza che vorrebbe fare? “Tante. Potrei dire che vorrei andare nello spazio, ma non credo riuscirò. Ho mille sogni, vorrei andare dappertutto”» (Barbieri). «“Credo che avrò sempre una grande fame di conoscenza. Ho la fortuna di avere la stessa curiosità di quando ero piccolo”. Lavorerà fino a 90 anni come suo padre? “Non prevedo la pensione: essendo libero professionista, so che dovrò sempre lavorare. Battute a parte, vado avanti e non mi fermo. Finché posso, cercherò di spiegare il mondo”» (Fumarola).