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 2021  aprile 16 Venerdì calendario

Biografia di Cynthia Ozick

Cynthia Ozick, nata a New York il 17 aprile 1928 (93 anni). Scrittrice. «La più cerebrale e raffinata delle scrittrici ebree americane» (Susanna Nirenstein, Rep) • «Citata da David Foster Wallace fra i tre migliori scrittori americani insieme a Cormac McCarthy e Don De Lillo, finalista al Man Booker International Prize e al Pulitzer, vincitrice del National Book Critics Circle Award e di varie edizioni del Pen e di altri premi, soprattutto per le sue short stories. È autrice di una ventina di libri tra racconti, romanzi, saggi, di cui solo una metà tradotti in italiano» (Caterina Soffici, TuttoLibri) • Esordio nel 1966 con il romanzo Trust (1966), seguito dalle raccolte di racconti Il rabbino pagano (1971) e Bloodshed and three novellas (1976). Notevole successo con La galassia cannibale (1983) e Il Messia di Stoccolma (1987), cui hanno fatto seguito Lo scialle (1989) e Le carte della signorina Puttermesser (1997). Del 2010 il romanzo Corpi estranei (2010), che racconta Gli Ambasciatori di Henry James come un negativo fotografico, lasciando intatta la trama ma stravolgendone il significato. Da ultimo, appena pubblicato negli Stati Uniti, Antiquities. Tra i saggi Art and ardor (1983), Metaphor and memory (1989), Fame and folly (1996) e Di chi è Anne Frank? (1997). Ha scritto, anche l’opera teatrale Blue light (1994).
Vita Nata a New York da una coppia di ebrei russi emigrati negli Stati Uniti, William Ozick e Celia Regelson. Seconda di due figli, è cresciuta nel Bronx • «La madre arrivò negli strati Uniti da bambina, il padre a 21 anni per sfuggire alla coscrizione zarista. Gestivano insieme una farmacia, si rivolgevano l’un l’altro in pubblico come Mr e Mrs O, e allevarono i due figli in quella che Ozick ora vede come la fine del XIX secolo. “Certamente c’erano molte automobili, ma il lattaio veniva con il cavallo nel Bronx, e d’estate gli stronzi dei cavalli rimanevano sul marciapiede e il sole era molto caldo e le strade erano fatte di catrame e questi stronzi sprofondavano nel catrame e avevano questo profumo di fienile e di campagna e non è stata un’esperienza olfattiva spiacevole”. Prende fiato e ride» (a Emma Brockes, The Guardian). • «Aveva cominciato a scrivere negli anni Sessanta, sognando di farsi pubblicare dalla Partisan Review. Non era una ragazza della buona società. Figlia di due immigrati russi, aveva vissuta un’infanzia tranquilla all’ombra della farmacia del padre nel Bronx, malgrado qualche teppistello della zona le tirasse sassi perché era ebrea» (Elisabetta Rasy, Sole) • «Oggi guarda indietro con stupore ai suoi anni di scuola superiore, che coincisero esattamente con la Seconda Guerra Mondiale. Aveva più o meno la stessa età di Anne Frank, eppure, dice, anche se ovviamente erano a conoscenza di Hitler, era molto isolata da quello che stava succedendo in Europa. Ha persino studiato il tedesco (non per scelta), scoprendo che le piaceva. “Nel mezzo della guerra c’era Heine, c’era Goethe, c’era Schiller. Quando ripenso a quanto ero felice, studiando tedesco e venendo bocciata in algebra, e penso a quello che stava succedendo agli altri adolescenti ebrei dall’altra parte del mondo, sono così perplessa» (a Brockes) • «Poi studi di medio livello: New York University e un master all’università dell’Ohio con una tesi su Henry James. James era il suo idolo, e teneva d’occhio, come quasi tutti i giovani dotati di allora, il modernismo e le sue complicate sirene. Anni dopo, scegliendola per un omaggio sul New York Times, avrebbe esplicitato la sua ammirazione per una musa difficile e preziosa del Novecento, Gertrude Stein. Combatteva sul versante opposto di quegli scrittori, che il secolo aveva moltiplicato, perennemente all’inseguimento degli eventi della cronaca, pronti ad afferrare le schegge e i bagliori dell’attualità. Per lei, l’unica attualità possibile era la letteratura, la sua scrittura era nata da una lettura furiosa e onnivora fin dalla prima giovinezza: “A venticinque anni leggevo diciotto ore al giorno, romanzi, filosofia, critica, poesia, storia ebraica, Gibbon... Leggevo e leggevo e questo mi ha trasformato in una specie di mostro...”» (Rasy, cit.) • «Il primo romanzo, Trust (1966), non apparve fino a quando non raggiunse di fatto l’età geriatrica di trentasette anni. “Ci si siede, si legge e si scrive, mese dopo mese, anno dopo anno”, ha detto Ozick del suo lungo limbo prestampato. “Ci si siede, invidiando altri giovani scrittori che hanno raggiunto un livello più alto di sé stessi. Senza la fretta, la spazzatura e la cotta del mondo, si diventa svuotati. La cavità si riempie di invidia”. Trust, un omaggio di seicentocinquanta pagine a Henry James, ispiratore di Ozick, ha fatto ben poco per migliorare il riconoscimento del suo nome (“Nessuno l’ha mai letto”, ha detto diversi decenni dopo, esagerando solo leggermente il caso.) Alla fine, è stata l’invidia stessa a diventare il mezzo della sua ascesa letteraria. Negli anni successivi a Trust, Ozick ha preso una pausa dalla forma del romanzo, producendo una sequenza di storie e romanzi feroci in cui i suoi personaggi più memorabili – tipicamente scrittori ebreo-americani, come il loro creatore – sono infiammati da “l’angoscia dell’esclusione, dalla cultura letteraria tradizionale”. Ozick è stata una fervente critica della politica dell’identità sin dagli anni Settanta (si veda, ad esempio, la sua diatriba contro il femminismo di seconda ondata, Literature and the Politics of Sex: A Dissent), e tuttavia pochi hanno scritto così bene sull’autostima incostante dei socialmente emarginati» (Giles Harvey, The New Yorker) • «Fu uno dei primi scrittori americani, in anni in cui l’orrore di quanto era appena accaduto spingeva alla rimozione piuttosto che al racconto, a parlare della catastrofe degli ebrei europei, tanto da mettere in soggezione colleghi più famosi e più affermati come Saul Bellow, il quale, si legge nell’epistolario dello scrittore, si giustifica mestamente con lei per non aver prestato in gioventù la giusta considerazione a quanto era accaduto dall’altra parte dell’oceano. Ma il suo modo di parlare della Shoah e più in generale della scomparsa – della soppressione – di un mondo non era né drammaticamente elegiaco, né nostalgico né meramente accusatorio, come è evidente nei racconti pubblicati nell’ampio volume La farfalla e il semaforo edito da Bompiani. Pur proclamandosi una devota della letteratura e sostenendo nei suoi numerosi saggi critici che la fine del romanzo vorrebbe dire la fine dell’umano, Ozick non si è preclusa pubblici e temerari interventi di politica culturale e di politica tout court, andando a testa bassa contro stelle della sinistra americana, come ad esempio Susan Sontag, in tema di Israele e sionismo, di cui è un’appassionata sostenitrice, o per il livellamento critico tra cultura alta e cultura bassa che spensieratamente molti esponenti delle avanguardie culturali novecentesche hanno propugnato. Così come ha sostenuto la differenza tra la letteratura e il cinema o la televisione, e disprezzato senza mezzi termini le scuole di scrittura, i cultural studies e i gender studies, le biografie degli scrittori ( sostiene che la verità di uno scrittore può essere più chiaramente illuminata dalla singola frase di una sua opera piuttosto che da dozzine di sue biografie), il femminismo, la “politica del sesso”, e soprattutto quegli autori che hanno come fine la gloria e il potere personale e non la gloria e il potere della letteratura» (Rasy, cit.) • «Lei non rifiuta l’ etichetta di scrittrice ebrea – anche se la definisce “contraddittoria”. Bellow non l’accettava, anzi giudicava Singer “troppo ebraico”. Cosa vuol dire per lei? «È vero che ho definito “scrittore ebreo” un ossimoro. Perché ebraismo vuol dire dominio delle emozioni, decoro, attendibilità, alta moralità, responsabilità; l’immaginazione dello scrittore invece è capricciosa e spericolata, e se c’è una canaglia nel racconto, lo scrittore entrerà con zelo nella psiche del farabutto. Così, se nella vita mi sforzo di essere ebraicamente responsabile, quando afferro la penna, posso fare qualsiasi cosa. Insomma le due componenti dello “scrittore ebreo” – il buon cittadino e la bestia feroce – sono destinate a scontrarsi» (a Susanna Nirenstein, Rep) • «Se Anna Frank non fosse morta di tifo a Bergen-Belsen, sfinita e quasi nuda al gelo, all’inizio del 1945, un paio di giorni dopo sua sorella Margot, e un mese prima della liberazione, divorata dai pidocchi e dall’orrore, adesso avrebbe sessantotto anni e sarebbe uno dei più importanti scrittori del ventesimo secolo. “Era nata per essere una scrittrice”, dice Cynthia Ozick in Di chi è Anne Frank?, pubblicato per la prima volta sul New Yorker nel 1997, uscito in Italia per La nave di Teseo. È un appassionato, preciso, e per niente consolatorio saggio sull’appropriazione e sull’edulcorazione del diario di un’adolescente segregata e clandestina, divenuta al tempo stesso il simbolo dell’Olocausto e di un’amnesia collettiva. Le parole di Cynthia Ozick fanno vergognare per quanto sono vere, documentate, evidenti. Per quante volte abbiamo pensato che in fondo Anna Frank ha scritto il diario di un’adolescente in una condizione “strana” (parole di Anna) e avventurosa, nascosta in una soffitta ma in fondo felice. Una come noi, piena di sogni e di speranze e di conflitti con la madre, e di grandiosa immaginazione e consapevolezza. E per quante volte abbiamo sorvolato, consolatori, superficiali e volgari, sul fatto che “lei e sua sorella Margot furono tra le 3.659 donne trasportate su un carro bestiame da Auschwitz fino alle impietose condizioni di Bergen-Belsen, lungo un desolato tratto di fango» (Annalena Benini, Foglio) • «Come è nato il suo amore per i libri? “Penso nello stesso modo che capita a tutti i lettori. Si comincia da bambini. Non c’è un motivo particolare. Sai semplicemente che tu devi leggere per stare bene. E oggi sono finalmente nel mio paradiso di lettrice perché leggo da quando mi sveglio la mattina alla sera quando vado a dormire. Privilegi dell’età. A 90 anni è un lusso che posso permettermi”. Lei è considerata una delle voci dell’ebraismo americano. L’hanno anche definita la Emily Dickinson del Bronx. Come concilia tutta queste anime? “Io mi sento profondamente ebrea. E anche profondamente una scrittrice. Sono due realtà parallele. Ma mi sento anche profondamente americana. L’America salvò i miei nonni e tanti altri immigrati. Quindi credo nell’America e credo che sia un paese eccezionale”» (a Caterina Soffici, cit.) • Sposata con l’avvocato Bernard Hallote. Una figlia Rachel Hallote, professoressa di storia alla State University of New York at Purchase e capo del suo programma di studi ebraici • Oggi vive nella contea di Westchester, nello stato di New York.