22 aprile 2021
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Biografia di Arrigo Cipriani
Arrigo Cipriani, nato a Verona il 23 aprile 1932 (89 anni). Ristoratore. Imprenditore. Proprietario dell’Harry’s Bar di Venezia (dichiarato nel 2001 patrimonio nazionale dal ministero dei Beni culturali) e della relativa catena di locali, sparsi in tutto il mondo. «Sono l’unico uomo al mondo che si chiama come un bar, anziché viceversa» • «Il padre Giuseppe era nato a Verona il 4 novembre 1900 da una famiglia poverissima, ultimo di otto figli. […] “Era figlio di un manovale che a Verona si spaccava la schiena per 80 centesimi al giorno. Nel 1904 mio nonno decise di emigrare per fame in Germania, nel Baden-Württemberg. Trovò lavoro come muratore, a 23 marchi la settimana, cinque volte quello che guadagnava in Italia. La nonna s’ingegnava facendo da mangiare agli italiani. I tedeschi li chiamavano bonariamente Itaka. Alla vigilia della Prima guerra mondiale quel nomignolo divenne un’offesa, così il nonno rientrò a Verona. Mio padre trovò lavoro prima da Molinari e poi da Tommasi, due delle migliori pasticcerie. Montava a mano le uova dalla mattina alla sera, per 3 lire a settimana. Fu arruolato e mandato al fronte, ma ebbe fortuna: il 4 novembre 1918, mentre si trovava ad Ala, il conflitto finì. Quel giorno compiva 18 anni”. E che cosa fece? “Tornò a casa, si comprò un frac e divenne cameriere nei migliori alberghi: Gatto Nero, Torcolo, Gabbia d’Oro. Poi salì di grado peregrinando negli hotel di varie località fra Italia, Francia e Belgio. Vi rimaneva al massimo 6 mesi, il tempo d’imparare ciò che non sapeva. Finché non approdò al Monaco di Venezia, distante appena 3 metri da quello che sarebbe diventato l’Harry’s Bar. Nel 1926 sposò Giulietta. Il viaggio di nozze durò un giorno. A Padova credettero di visitare la basilica del Santo, salvo scoprire anni dopo che avevano visto un’altra chiesa. In serata arrivarono a Venezia, dove l’indomani mio padre prese servizio all’Hotel Europa-Britannia. Fu il proprietario a dirgli: ‘Lei deve fare il barman’”. E lì incontrò Harry Pickering? “Sì, uno studente che abitava in albergo con una vecchia zia, accompagnata da un gigolò e da un cane pechinese”» (Stefano Lorenzetto). «Harry Pickering, […] trasferitosi negli anni Venti a Venezia con una zia, venne da questa piantato in asso con pochissimi soldi. Giuseppe Cipriani, […] all’epoca barman nell’hotel in cui risiedeva l’americano, impietosito dalla vicenda prestò al giovane 10 mila lire, somma considerevole per l’epoca, per consentirgli di rientrare in patria. Qualche anno dopo, il giovane, guarito dall’alcolismo, tornò a Venezia, e, rintracciato Cipriani, in segno di gratitudine gli restituì l’intera somma aggiungendovi 30 mila lire perché potesse aprire una sua attività in proprio. Cipriani decise quindi di chiamare il suo locale “Harry’s Bar” in onore del suo benefattore, inaugurando la sua attività il 13 maggio 1931» (Nino Materi). «Mio papà diceva che nacque di venerdì. Sbagliato: ho controllato, era un mercoledì». Poco meno di un anno dopo nacque Arrigo Cipriani, anch’egli, come il padre, a Verona, «e infatti parla tuttora un veronese purissimo, per nulla imbastardito dal veneziano. […] A Giulietta, madre di Arrigo alias Harry, si ruppero le acque mentre si trovava nella casa paterna, “al capezzale di mia nonna, che stava morendo”. Il nonno, Gaetano Andolfi, socialista di vecchia data e fervente antifascista, era un ferroviere. Ovviamente il patron dell’Harry’s Bar non può avere alcun ricordo diretto di quel lieto evento, che per i coniugi Cipriani segnò l’arrivo dell’ultimogenito, l’unico maschio dopo Bruna e Carla, detta Carlina, ma anche Tinta in seguito alle nozze con il regista Tinto Brass, oggi entrambe defunte. […] Il genitore lo fece battezzare con il nome, tradotto in italiano, del bar che da allora è il più famoso al mondo» (Lorenzetto). «Mi sarei chiamato Harry, in onore del nostro Harry’s Bar, se nel ’32, in epoca fascista, i nomi anglosassoni non fossero stati proibiti ai nuovi nati» (a Melisa Garzonio). «Mi considero un sopravvissuto. […] Dai 2 ai 15 anni ho avuto tutti i malanni conosciuti dalla scienza. Un medico stava per uccidermi con una dieta ipercalorica che avrebbe dovuto curarmi una gastroenterite. Mia madre ne chiamò un altro che mi salvò prescrivendomi solo acqua Sangemini per 48 ore. Qualche anno dopo anche lui però tentò di ammazzarmi, somministrandomi con le sue mani il purgante durante un attacco di appendicite». In quanto all’Harry’s Bar, «durante la guerra venne requisito dai repubblichini: i fascisti, che odiavano l’inglese, ci costrinsero a ribattezzarlo “Bar Arrigo”» (a Federico Novella). «Mi ricordo l’occupazione. Fummo cacciati, l’Harry’s Bar divenne la mensa della Marina di Salò. Il fascismo fu una cosa orrenda. Purtroppo in Italia non abbiamo una destra liberale» (ad Aldo Cazzullo). «Io ho sentito scoppiare in me la libertà quando nel ’45 le truppe neozelandesi sono entrate a Venezia e l’Harry’s Bar, che era diventato una mensa per marinai, è stato liberato» (a Giovanni Rossi). «Lei quando cominciò a lavorare all’Harry’s Bar? “A 19 anni. Benché poi mi sia laureato in Giurisprudenza, papà mi disse: ‘Non sarai mai un buon avvocato. Da stasera ti metto alla cassa’. La mattina avevo preso 19 a un esame. Per celebrare le mostre di due grandi pittori, mio padre inventò il Bellini, un long drink con succo di pesca bianca e Prosecco, e il Carpaccio, un filetto di manzo affettato sottile e condito con una salsa che chiamavamo ‘universale’, del quale era ghiotta la contessa Amalia Nani Mocenigo. Io invece non ho inventato assolutamente nulla. […] Ho solo imparato il senso del dovere. Sto qui da 70 anni, mezzogiorno e sera. Ma per 35 ho lavorato solo sei giorni la settimana. ‘Te pensi massa a pescàr’, borbottava il papà, perché avevo l’hobby della pesca alla mosca. Oddio, anche della vela e del remo: partecipai alle prime 10 Vogalonga”. […] Quando morì suo padre? “Nel 1980. Fu colto da una brutta influenza, che lo indebolì molto. Rimase assopito per mesi in un dormiveglia. Un giorno spalancò gli occhi e, vedendoci attorno al letto, chiese stupito: ‘Siamo tutti morti?’. Poi mi fece cenno di avvicinarmi, e sussurrò: ‘No l’è che voia morìr, ma moro e no gh’è gnente da far. Mi dispiace, perché pensavo di andarmene a 84 anni’. Invece non ne aveva ancora compiuti 80”. Le ha lasciato le royalty sul Bellini e sul Carpaccio. “Ma quali royalty! Dopo la cessione dell’Hotel Cipriani, il mio marchio è sempre stato conteso. Quando aprii il ristorante Cipriani London, mi fecero causa. La persi. Mi costò 19 milioni di sterline”» (Lorenzetto). «“I clienti non si abituarono subito alla mia presenza – racconta adesso con leggiadra ironia –. Ricordo che i primi tempi una delle due swinging doors dell’entrata si apriva appena per far passare la testa di un cliente. Succedeva spesso che mi chiedessero ‘C’è Cipriani?’. Gli rispondevo di sì, che ero io, ma loro niente, replicavano senza tanti giri di parole ‘No, Cipriani, suo padre’, come per dire: quello vero. È naturale che dopo trentacinque anni volessero vedere in faccia Cipriani, quello vero”. Il “vecchio” Cipriani è stato infatti una figura molto presente nel suo locale fin dal primo anno di apertura, nel 1931. […] Fu quel suo temperamento gioviale, oltre alla maestria assoluta nel preparare i migliori drink, come il Martini secco tanto amato dai suoi clienti più esigenti, che lo avvicinò a personaggi di grande levatura intellettuale, da Truman Capote a Maria Callas, da Orson Welles a Ernest Hemingway, che ambientò il suo romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi proprio a Venezia e all’Harry’s Bar, dove i due protagonisti della storia, la giovane veneziana Renata e il colonnello Richard Cantwell, si ritrovano più volte a conversare davanti a un cocktail. […] “Non c’è che dire, fu lui il vero re dell’Harry’s Bar e di Torcello dopo la guerra – ricorda Cipriani –. Hemingway piombò nel nostro locale nell’autunno del 1948 e per tutto l’inverno visse in un appartamentino intitolato a santa Fosca al primo piano della Locanda a Torcello, che mio padre aveva deciso di tenere aperta in via del tutto eccezionale”» (Guido Andruetto). «“Il libro (Di là dal fiume e tra gli alberi, ndr) ha preso spunto da una specie di nebbia mentre ero all’Harry’s Bar”, disse Ernest Hemingway, che definiva quella piccola stanza “un microcosmo che racchiude tutte le grandezze di quella meravigliosa città”. […] Hemingway si sedeva sempre nel tavolo in fondo a destra, ed era lì che beveva il suo Martini perfetto, “una battaglia combattuta da quindici inglesi, le 15 parti di gin, il miglior antisettico del mondo, e un italiano, il vermouth”» (Giuseppe Fantasia). «E Orson Welles? “Appena entrava gli portavamo una bottiglia di Dom Pérignon ghiacciato e dodici sandwich ai gamberetti. Una volta dovetti inseguirlo in stazione per fargli pagare il conto. Mi gettò un blocchetto di traveller’s cheque dal finestrino: ‘Fai tu la mia firma!’. Aveva un vocione e una forte personalità. Ma una notte andò da solo a ballare all’Antico Martini; la moglie lo distrusse. Il giorno dopo lo vidi a capo chino. Un pulcino bagnato”. […] Chi è la più bella donna che ha visto qui dentro? “La contessa Diana Cooper, con i suoi cappelli enormi: credo non abbia mai preso un raggio di sole in vita sua. Poi Greta Garbo, sempre accompagnata dalla sua sarta russa, Valentina Schlee; e chissà poi se era solo la sarta. E Lauren Bacall, che veniva con Humphrey Bogart: silente e misterioso come nei film. Gli attori spesso assomigliano ai loro ruoli. Come Vittorio Gassman: esplosivo. Alla fine però era depresso. Neppure il suo amico Lino Toffolo lo metteva di buonumore. Non accettava la vecchiaia”. È vero che la contessa Volpi veniva con la cameriera, che però non aveva diritto di consumazione? “L’ho scritto in un libro, e il figlio mi ha tolto il saluto; ma è vero. La mia preferita era la contessa Morosini. Grande giocatrice di poker. Diceva: ‘Vedo!’, e si faceva mostrare le carte, senza scoprire le sue: ‘Vinco io!’. Nessuno osava contraddirla: così la Morosini vinceva sempre. Hemingway comprò una scatola di caviale per fargliene omaggio: il giorno dopo lei la rivendette a mio padre”. Leggendaria anche la contessa Venini. “Nel 1976 il sisma del Friuli devastò il locale. Tutti fuggirono, io rimasi per non lasciarla sola. Cadevano le bottiglie e i quadri, e lei: ‘Mio buon Cipriani, che cos’è questa confusione?’. ‘Il terremoto, contessa’. ‘Ah, che cosa spiacevole!’”. Tremende le nobildonne. “Ma mi hanno insegnato molto. Come le cortigiane, altra istituzione veneziana. Frequentavo sia le case di lusso sia quelle popolari. Le ragazze erano bravissime e sempre di buon umore: non avevano magnaccia, non erano schiave come ora”. Liz Taylor? “Veniva con Richard Burton e badava a evitare Maria Callas e Onassis. Una coppia al piano di sopra, l’altra sotto. Le divideva Elsa Maxwell, la pettegola di Hollywood”. Onassis com’era? “Non era un signore. Niarchos era un signore”. Cosa vuol dire essere un signore? “Non fare mai il protagonista. Onassis rompeva i piatti. Dovetti dirgli che non si fa. E poi non lasciava mai ai camerieri più di mille lire di mancia”. Agnelli? “Carismatico. La sorella di mia madre, Gabriella, gestiva la locanda di Torcello. Ogni volta l’Avvocato mi chiedeva: ‘Come sta sua zia Gabriella?’. Non avevo cuore di dirgli che era morta da anni. Ero orgoglioso che Agnelli sapesse il nome di mia zia. Perché dargli una cattiva notizia?”. Berlusconi? “Non è mai stato mio cliente. Ma meno male che c’è; altrimenti pure quel poco di destra rimasta in Italia scomparirebbe”. […] È vero che ha conosciuto Ezra Pound? “Eravamo vicini di casa. Di notte declamava le sue poesie ad alta voce, non si riusciva a dormire. Poi veniva qui e non apriva bocca”. Peggy Guggenheim? “Fu mio padre a suggerirle di comprare il palazzo sul Canal Grande. Carattere impossibile; si addolcì dopo il suicidio della figlia, Pegeen. Ogni tanto faceva testamento e me lo faceva firmare; poi lo cambiava, e io rifirmavo”. Truman Capote? “Aveva il coraggio di non nascondere la sua omosessualità, quando non era di moda dichiararla”. Montale? “Veniva con la mosca. Mangiava con le mani, si inzaccherava tutto. Era delizioso, e io lo adoravo: il nostro più grande poeta”. De Chirico? “Non aveva senso dell’umorismo. Gli presentai il mio amico Sebastián Matta, altro grande artista, che sorrise: ‘Quale De Chirico, quello vero o quello falso?’. Lui la prese malissimo”. De Niro? “Simpatico. Ma è convinto di parlare italiano, mentre si esprime in una sorta di dialetto del Sud”» (Cazzullo). «Cipriani ricorda quando Vittorio Emanuele di Savoia gli fece notare che quelle sedie erano troppo piccole: “Prontamente gli risposi che era stato mio padre a disegnarle per suo padre, Vittorio Emanuele III, che, come si sa, era alto solo un metro e cinquantaquattro centimetri. Conquistai così la sua fiducia, e da allora è sempre tornato e non si è più lamentato”» (Fantasia). «“La più indimenticabile, per signorilità, fu la regina Elisabetta II d’Inghilterra. La Locanda Cipriani di Torcello resta l’unico ristorante in cui si sia recata in privato. Il marito, il principe Filippo, era stato cliente dell’Harry’s Bar da ufficiale della Marina britannica. Due mesi prima della visita le mandammo a Buckingham Palace tre menu, con piatti semplicissimi: pasta e fasoi, risotto con le verdure, ravioli di pesce fritto. Li scelse tutti. Al termine del pranzo, regalò a mio padre un paio di gemelli d’oro con lo stemma reale”. […] I clienti per lei sono tutti uguali? “Sì, a patto che non si comportino da protagonisti. Eugenio Montale si metteva in un tavolino nell’antibagno, sotto il telefono a gettoni, ed era un premio Nobel. Ernest Hemingway aveva un posticino tutto suo in un angolo”» (Lorenzetto). «Tutto il mondo, specie quello che conta, è […] passato all’Harry’s Bar. “Le persone qui da noi si sono sempre mischiate. Pluralità nella diversità. Da Woody Allen ai militanti di estrema sinistra”. Gli estremisti, per davvero, all’Harry’s Bar? “Sì, quelli dei centri sociali. Vennero a cena in otto, una sera di novembre del 2004, e mangiarono qui nella stanza [termine sovente usato da Cipriani per designare l’Harry’s Bar – ndr]. Poi se ne andarono alla spicciolata senza pagarem e lasciarono un biglietto su cui c’era scritto: ‘Pagherà Galan, oppure la Nato, o san Precario’. Deve sapere che in quei giorni si svolgeva il vertice Nato qui a Venezia, ma non mi aspettavo che l’Harry’s Bar diventasse il palcoscenico della protesta. Morale della favola, mi chiama il segretario dell’allora presidente della Regione Veneto, Galan, e dice che vuole pagare lui il conto. Ottocento euro. Passano i mesi, e il segretario mi richiama: ‘Arrigo, quando facciamo la cerimonia del pagamento?’. Ho capito che cercava un ritorno d’immagine e gli ho risposto piccato di lasciar perdere. In fondo quei ragazzi avevano le loro ragioni per protestare. Sono sempre stato un po’ rivoluzionario anch’io, non ho mai fatto le serrate come gli altri commercianti, mi batto contro il Mose, e poi Galan non è neanche un mio cliente”» (Guido Andruetto). Ancor oggi (prima che la pandemia da Covid-19 ne imponesse la temporanea chiusura), all’Harry’s Bar, «continuo a fare le stesse cose: giro tra i tavoli dei clienti per assicurarmi che siano contenti e se vedo che hanno terminato di mangiare e non c’è un cameriere nelle vicinanze porto via i piatti vuoti, con l’unica differenza che da qualche anno i clienti, invece di limitarsi a ringraziarmi, hanno cominciato ad alzarsi in piedi, per far onore al mio stato di avanzamento dei lavori». Nel frattempo, comunque, «da quel baretto in calle Vallaresso, a due passi da piazza San Marco, appena 35 metri quadrati con il soffitto alto 2 e mezzo, notificato al ministero dei Beni culturali come monumento d’interesse nazionale, è nato un impero che dà lavoro a 4.000 persone e comprende 21 locali, da New York a Città del Messico, da Los Angeles a Londra, da Riyad a Hong Kong, con quattro sale per banchetti da 1.500 posti ciascuna nella sola Manhattan, e un pastificio Cipriani fondato da Arrigo nel 1985» (Lorenzetto). «A quale ristorante nel mondo, tra i suoi, è più affezionato? “Al primo aperto a New York, nel 1985. Perché fu appunto il primo. Facevamo 350 coperti al giorno. Dovemmo chiudere perché ci sfrattarono e aprirono un altro ristorante. Faceva 15 persone al giorno. Quando ce lo riprendemmo, il giorno dopo c’erano già 350 persone. Quelle che avevamo lasciato. E a New York, dove tutto passa molto velocemente”» (Emiliano Liuzzi). «“La crescita all’estero dei ristoranti è merito di Giuseppe, mio figlio”. E lei condivide? “Certo. Mettere su un ristorante è difficilissimo. C’è da trovare la location, avere le autorizzazioni, cercare 150 persone che siano affidabili ecc. I nostri locali hanno solo camerieri italiani, perché vogliamo portare la nostra cultura e il nostro stile ovunque andiamo”» (Tobia De Stefano). Prima della pandemia, l’Harry’s Bar «dal 1931 aveva sospeso il servizio solo tra il 1943 e il ’45, requisito dai fascisti, e nel primo giorno dell’alluvione del 1966» (Giampaolo Visetti). «“Da quando è scoppiata la pandemia, ho tenuto aperto l’Harry’s Bar non più di un mese, mezze giornate incluse”. Non può distanziare i tavoli. “Furono disegnati da mio padre con una perfetta proporzione corpo, braccia, gambe, come le sedie. La gente muore perché negli ospedali non si aprono mai le finestre. Da noi c’è un impianto di aerazione da 22.500 metri cubi l’ora. In 60 minuti cambiamo l’aria totalmente 17 volte. E nessuno avverte il freddo: il pavimento in travertino ha una temperatura costante di 19 gradi. […] Gli 80 dipendenti sono tutti in cassa integrazione. Non so quanti posti di lavoro potrò salvare. Pago l’affitto anche se il locale è chiuso”. I muri non sono suoi? “No, degli eredi di Edgardo Morpurgo, presidente delle Generali, che li ricevette come liquidazione. Prima di noi c’era un magazzino di cordami. Fu mia madre a trovare questo posto. Spezzò una maledizione: quelli che aprivano bottega in calle Vallaresso fallivano tutti”. Quanto versa di canone? “Sono 55.000 euro al mese. Da tempo tratto con la proprietà per farmelo ridurre. Dopo 89 anni, penso di averne diritto”» (Lorenzetto). «Certo, oggi se mi metto a fare i conti dico che siamo a un passo dalla fine, ma poi penso che siamo l’Harry’s Bar, e torna la speranza». «Passata la crisi, qual è la prima cosa che farà? “Riabbracciare i miei clienti, che poi sono anche i miei amici. Dentro i muri dell’Harry’s Bar sento la musica del loro vociare. Sono loro il vero arredamento”» (Novella) • Numerosi libri all’attivo, tra cui La leggenda dell’Harry’s Bar (Sperling & Kupfer, 1997), Prigioniero di una stanza a Venezia (Feltrinelli, 2009) ed Elogio dell’accoglienza (Aliberti, 2017). Da ultimo, nel gennaio 2021, è uscito presso Antiga Non son quelli delle stelle. Stare semplicemente bene a tavola tra sapori e storie della cucina del Veneto, Trentino e Friuli-Venezia Giulia, curato da Cipriani e da Edoardo Pittalis con Maurizio Drago e Gian Nicola Pittalis, in cui «sono stati selezionati 200 trattorie e ristoranti del Triveneto che rispettino le 12 regole di Cipriani, scelti da un gruppo di giornalisti enogastronomici. […] Non più i ristoranti “delle stelle”, non più la nouvelle cuisine francese cresciuta dagli anni Settanta, non più gli chef, ma le cuoche e i cuochi, chiamati nel termine italiano. Che sanno presentare dei piatti gustosi» (Maurizio Drago). Di prossima pubblicazione Chiamateci infinito, «storie di persone normali che hanno fatto cose per loro importanti. Quando il nostro viaggio sulla terra si esaurisce, resta l’anima che abbiamo lasciato nelle cose: un libro, un quadro, o un ristorante». «La gavetta furono i miei articoli, spesso graffianti. Non mi tiro indietro neppure oggi, e quando sul tavolo dei direttori dei giornali arrivano le mie cartelle non mancano le telefonate perché ho scritto troppo. Come finisce? Ci si mette d’accordo, ma devo anche tagliare. Un peccato» • Pendente a suo carico un procedimento giudiziario, la cui prima udienza è attualmente fissata all’8 giugno 2021, «per una vicenda di omessi versamenti. Ritenute alla fonte relative ai suoi dipendenti che, tra 2013 e 2014, non erano state versate: 524.716 euro il primo anno, 452.370 euro il secondo. In seguito la società aveva concordato un piano di rientro con l’Agenzia delle entrate, ma che non è stato ancora completamente saldato. Di qui il procedimento penale. […] Si tratta di un procedimento che si è innescato automaticamente sulla base delle dichiarazioni dello stesso imprenditore. Perché il processo di estingua, il debito deve essere saldato prima del dibattimento. Cosa che, nel caso di Cipriani, non è ancora avvenuta. […] “Questa non è evasione fiscale – tiene a precisare lo stesso Arrigo Cipriani –. Io non prendo lo stipendio da cinque anni. E la mia società non ha mai fatto nero. Si tratta di un ritardo di pagamenti. Lo Stato, in pratica, ti dice che sei in ritardo con i pagamenti e ti propone una rateizzazione. Se però superi una certa cifra, scatta il processo. Mi è già successo in passato e sono stato assolto. Immagino che molti altri imprenditori si trovino in questa situazione. Ma ci tengo a ribadirlo: io non ho mai evaso le tasse”» (Roberta Brunetti). «Lei ha avuto problemi con la giustizia americana. “Sbagliai a patteggiare, e pagai dieci milioni al fisco. Avrei vinto la causa, perché ero in buona fede. Mi misero in gabbia con mio figlio, e ci fecero aspettare ore. Venne il prosecutor a scusarsi per l’attesa. E Giuseppe: ‘Io invece la ringrazio: in tutta la vita non ho mai passato tanto tempo con mio padre’”» (Cazzullo) • Sposato con Tommasina «Ina» Divarisi, tre figli: Giuseppe, Carmela e Giovanna. «Arrigo cominciò a corteggiare Ina (diminutivo di Tommasina) 7 anni prima del matrimonio. “Allora, filava con un mio amico, compagno di scuola – ricorda –, di famiglia più in vista e decisamente più ricca della mia. Era quel che si dice un buon partito; per lui parteggiava la nonna di Ina, terribile e un po’ snob. Tira e molla infinito, da manicomio. La spuntai. Ero follemente innamorato di quella ragazza. Bella, leggiadra, slanciata. Ina era attratta dalla mia personalità: di sicuro non provava la stessa intensità di sentimento”. “Il primo bacio fu una conquista – racconta –. Il resto, secondo le regole dell’epoca. Un po’ di petting, e il primo rapporto sessuale con la fede al dito”. “Ci sposammo il 20 novembre, una giornata freddissima – continua –. Avrei voluto cantare, ballare, sognare, ridere, scherzare, volare”. […] È l’inizio della vita a due. Cipriani sostiene che qualche sbandata non ha incrinato la sua avventura matrimoniale. “Sposarsi è una cosa seria, un impegno – dice – Oggi, facilmente si scambia l’infatuazione con l’amore, e i disastri si vedono. […] Le infatuazioni, che poco o nulla contano e che poco o niente ti danno, hanno creato momenti di crisi nel mio matrimonio. Al limite della rottura. Intendiamoci, era lei che avrebbe voluto lasciarmi, non io. Mia moglie non è gelosa: esige, però, rispetto”. Per rendere l’idea, racconta un piccolo episodio: “Accadde anni fa, una sera che avevo bevuto. Mi azzardai a fare lo stupido con una donna, in sua presenza. Sul momento, non fiatò. Arrivati a casa, Ina prese una pila di biancheria stirata e mi chiese di portarla al piano di sopra. Abboccai. Così, mentre salivo le scale con le mani occupate, all’improvviso mi arrivò una bastonata…”. […] I caratteri della coppia: “Io non ho pazienza, sono aggressivo. Un po’ lo è anche mia moglie. Ma, a differenza di me, è sempre alla ricerca del perché delle cose. Per lei, lo status quo non esiste. Tutto va sempre rivisto e rivoltato”. “Infatti, Ina, nel corso degli anni, ha cambiato registro – spiega –. Madre presente e affettuosa, quando i figli sono cresciuti è diventata una manager di polso e creativa, dirigendo per dieci anni la nostra fabbrica che produce pasta. Da un po’ di tempo si dedica alla poesia”. […] “Ammetto, però, che bisogna essere un po’ fuori di testa per stare con un marito fantasma. D’altronde, il lavoro mi ha sempre portato fuori casa dalla mattina alla sera inoltrata”. Arrigo provoca: “Il vero segreto del successo di un’unione è il vedersi il meno possibile. O no?”. […] È ora di bilanci, anche per l’inarrestabile patron dell’Harry’s. Una frase secca: “Mi sono innamorato una sola volta nella vita”. Aggiunge, ironico: “A ottant’anni puoi dire tranquillamente ‘ti amo’. Di sicuro, è per sempre”» (Marisa Fumagalli). «La moglie di Arrigo, Ina, […] confida […] di non averlo sposato perché fosse pazza d’amore, ma semplicemente perché lo stimava. Aggiungendo che l’amore si colma con l’assenza: “Il segreto del nostro matrimonio è che non ci siamo mai visti. Assorbiti dai nostri rispettivi lavori, ci trovavamo solo nei momenti più belli”» (Fantasia). «In famiglia si registra una singolare inversione onomastica: Giuseppe, […] unico figlio maschio di Arrigo, è nonno di un nipote che si chiama Harry. […] Tutti i suoi tre figli si occupano di ristorazione? “No, solo Giuseppe. Carmela è avvocata e scrive libri per l’infanzia, mentre Giovanna, anche lei laureata in Legge, è stata inviata della Rai. Intervistò Yasser Arafat e Tareq Aziz. Smise per fare la mamma. Ha aiutato il fratello per l’Harry Cipriani di New York”. […] Ha avuto per consuocero Raul Gardini, padre di Eleonora, che nel 1987 sposò Giuseppe. Perché si suicidò, secondo lei? “Perché era un grande imprenditore, non uno dei tanti finanzieri rapaci di oggi, e finì per inimicarsi i politici”» (Lorenzetto) • «Sua sorella Carla aveva sposato Tinto Brass, noto erotomane. “All’inizio ero contrario. Mi arresi quando capii che Tinto era pronto a uccidermi. Si amarono alla follia sino all’ultimo giorno di lei”» (Cazzullo) • «Il vero genio della mia famiglia era papà Giuseppe. Aprì il primo ristorante in un vicolo cieco, così non ci si sbatteva contro per caso ma lo si sceglieva. Fu il primo italiano ad avere un ritratto fatto dal New Yorker, e lui non capiva il perché. Era semplice come la sua cucina. Tovaglie di lino, posate piccole, la gente a proprio agio. Così il dio che è nella pancia del cliente gira per la sala e diventa atmosfera». «“Noi Cipriani in tutto il mondo siamo mio padre. Abbiamo portato avanti la sua eredità”. […] Vuole diventare il più vecchio esercente del mondo. Ora il capo è suo figlio Giuseppe. Che consiglio gli ha dato? “Lui ha seguito tutti gli insegnamenti del nonno che io gli ho trasmesso, così la tradizione continua – abbiamo anche tre nipoti che stanno lavorando con noi”» (Francesco Aliberti). «Oltre a suo padre, quali sono stati i suoi maestri? “I grandi maestri dei cuochi sono gli aristocratici, che hanno speso le loro fortune nei ristoranti importanti. Noi facevamo assaggiare il nostro risotto al principe Ruspoli. ‘Principe, è buono?’, e lui: ‘Cemento’. Allora lo mantecavamo meglio, fino a quando non dava il suo assenso”» (Michela Tamburrino) • «Come mai nel suo curriculum, alla voce “religione”, ha scritto “Non credente”? “Perché sono un razionalista, anzi un epicureo, che crede solo a ciò che vede”. Un tempo si definiva “ateo oltre ogni ragionevole dubbio”. “Credo moltissimo nella spiritualità, ma non in Dio. Se metti in un oggetto tanta intelligenza, gli dai un’anima. I musei sono popolati da anime”» (Lorenzetto). «Io credo che la mia anima morirà con me, ma ogni uomo ha la possibilità di mettere in quello che fa la sua anima: questo rimarrà nel tempo» • «Lei è di sinistra, confessi. “Volevo l’uguaglianza dei lavoratori, ma ho capito che la sinistra è solo un’ideologia, come le altre. E io le detesto tutte”. Tesse le lodi di Luca Zaia. “Un governatore intelligente. Capisce i veneti. Lo valuto da 10 e lode, ma solo perché non posso dargli 12”» (Lorenzetto). «È un leghista? “Mi sono candidato con la Lega”. Com’è andata? “Male. Ho preso una manciata di voti”. E ora vota Lega? “Voto le persone”» (De Stefano). «Salvini le piace? “Non mi convince. Uscire dall’euro sarebbe un salto nel buio. Meglio Zaia”. […] Renzi? “Non ha fatto nulla, se non tradurre in inglese le regole di prima. Jobs Act… che senso ha?”. […] Il sindaco Brugnaro? “È il Trump de noaltri. Si muove bene. Anche se contro il turismo di massa non servono ticket o divieti; bisogna riportare a Venezia il lavoro e i veneziani. Se tornassero gli abitanti, nessun turista oserebbe far la pipì nelle calli o il pic-nic sui gradini delle chiese”. […] Cacciari? “Ha fatto cose giuste, ma non è riuscito a fermare il Mose: un’opera pensata solo per rubare. In America a quelli del Mose avrebbero dato l’ergastolo. Come a quelli della Popolare di Vicenza”. […] Di Grillo cosa pensa? “È un comico che non mi ha mai fatto ridere. Politico improbabile, ma adatto alla nostra èra: l’età della finzione. Internet è finto. La cucina creativa è finta”» (Cazzullo). «“Trump? Abbiamo un bel rapporto da anni, mio figlio ci parla spesso. Una volta gli hanno chiesto che cosa fosse l’Italia. Lui rispose: ‘L’Italia è Cipriani’”. E Boris Johnson? “Grande personalità. Scommetto che il Regno Unito sarà il primo a ripartire”. E l’Europa? “Parliamoci chiaro. La crisi economica esisteva già prima del virus, anche se non di queste proporzioni. Ed è stata prodotta da un’Europa fondata sull’ideologia dello strapotere tedesco. Stanno facendo la terza guerra mondiale con i soldi, anziché con i panzer. Ma non hanno ancora vinto”. Il Mes è una trappola? “Un’elemosina: di miliardi, non ne servono 37, ma 500, e a fondo perduto. Altrimenti diventa un cavallo di Troia, anzi, di troika. Vogliono cuocerci a fuoco lento”. Lei, di cottura se ne intende, in effetti. “Sicuramente siamo un boccone prelibato. C’è chi sogna per noi un finale alla greca. Non si rendono conto che, senza l’Italia, l’Europa è senz’anima”. Senz’anima? “Si guardi intorno. Qua a Venezia non troverà due case uguali. In Italia non troverà una città uguale all’altra. In Francia, Parigi a parte, è tutto identico. In Germania guardi tre chiese e hai visto tutto. Siamo gli unici ad avere questa ricchezza”» (Novella) • «Per quanto cittadino del mondo, Arrigo mantiene un rapporto viscerale con la sua città, parlando con tanti collaboratori e dipendenti in dialetto. Le radici, guai trascurarle. Il Gran Conservatore non mostra segni di arroganza, ma la sua determinazione è fortissima. Segue con attenzione la vita sociale e politica di Venezia, lamenta la perdita di quel cosmopolitismo che la rese grande per secoli, e trova gioia nelle vesti di padrone di casa, quasi avesse cominciato ieri. Questo è certamente un elisir di lunga vita, come tutte le passioni profonde. “Tratto i clienti come i re e i re come i clienti. Tutti allo stesso modo, e tutti – soprattutto le persone importanti – vogliono essere trattati così, senza privilegi”» (Barendson). «Come vede il futuro della ristorazione a Venezia? “I primi a morire saranno i dilettanti, gli improvvisati, quelli con i buttadentro all’esterno. E quando riaprono quelli? Sono più ottimista per i locali di qualità, anche se sarà comunque dura anche per loro”. E quello di Venezia? “Una grande occasione per fare pulizia e ripartire. Ma solo con l’aiuto delle istituzioni, economico ma non solo. Servono progetti seri, e il primo deve essere quello di creare una nuova generazione di veneziani, partendo dai giovani. Ma ci vogliono persone illuminate, coraggio, capacità di guardare al futuro. L’uomo che pose la prima pietra della basilica di San Marco sapeva benissimo che non ne avrebbe mai visto la fine, eppure cominciò, ci mise tutta la sua passione, la sua abilità, la sua anima: e guardate cosa ci ha lasciato…”» (Claudio De Min). «Il virus passerà, ma Venezia, con la sua unicità, resterà al suo posto, per essere ammirata ancora» • «Ilare quanto inflessibile, con sé stesso prim’ancora che con gli altri» (Lorenzetto) • «Asciutto come un fringuello, […] sorride compiaciuto quando mi congratulo per la formidabile forma fisica. “Mica male per uno che ha 88 anni”, si schermisce» (Guido Barendson). «“Sono forte, faccio ginnastica tutti i giorni”. Come comincia la giornata? “Con trenta flessioni prima di uscire e andare a fare la passeggiata alle Zattere, fino alla Salute: sono 230 metri da casa. Alla sera ne faccio 90, di flessioni. Il corpo si deve accorgere che la mente sta attenta a lui e lo fa faticare”» (Monica Zicchiero). Appassionato di karate, ha conseguito la cintura nera. «Non solo: sono 3° dan e istruttore. Tutto iniziò quando avevo 35 anni, per caso. Il segreto non sta nella forza fisica, ma […] nell’anima. Un lungo studio per riappropriarsi dei movimenti del corpo. Qualcosa di insito in noi». Molto attento all’alimentazione, nel 2011 è diventato astemio. «Ho scelto di abbandonare il Martini e mi è costato molto di più della fatica di smettere di fumare. Ma non c’è scelta. Sono un uomo di metodo. Quando ho male alle gambe corro ancora più veloce. Quando sto per fermarmi mi impongo di andare avanti, costi quel che costi. A un certo punto la disciplina diventa abitudine. […] Ho sempre avuto questa forza di volontà. Non bisogna arrendersi mai, mai e mai» (Manuela Pivato). «Lei aveva anche l’hobby della velocità. Confessò di fare slalom ai 180 orari fra gli autovelox sul ponte della Libertà. “Ce l’ho ancora. Con la Topolino che mi regalò il papà, un mostro a due carburatori, di notte provavo le curve sulle Torricelle prima di una gara automobilistica. Adesso ho una Mercedes C 63 Amg S che fa i 300 e sùpia. Da 0 a 200 in 11 secondi”» (Lorenzetto). «Voglio tenere la testa e i riflessi in funzione, sentirmi vivo, insomma. Il mio sogno è diventare il 90enne più veloce del mondo» • «Secondo me un buon ristoratore dovrebbe proporre l’Italia della cultura. Tutto quello che abbiamo importato dall’estero è sbagliato: abbiamo importato dall’America forme di risposta che sono robotizzate e dalla Francia un tipo di cucina che non è nostra. Noi in Italia abbiamo una ricchezza enorme, che viene mostrata soprattutto dalle trattorie e dalle osterie, dove la gente si ritrova, sta bene e viene accolta per il piacere di vedere il cliente» (ad Alice Zaccaron). «Il primo cuoco dell’Harry’s Bar fu Enrico Caniglia, abruzzese, con il quale Giuseppe Cipriani creò tutte le ricette che vengono servite ancora adesso. In quarant’anni di servizio non mise mai piede in sala. “Qui da noi non ci sono chef, ma solamente cuochi”, aggiunge il patron dell’Harry’s. “La differenza è fondamentale. Nessun protagonismo, molta sostanza”. Così per il menu, che è espressione della cucina Cipriani e di quella veneta: il risotto alla primavera, gli scampi alla Thermidor, il carpaccio, le sarde in saor, il baccalà mantecato, l’insalata di piovra. “I miei piatti del cuore continuano a essere quelli che mi ricordano l’infanzia, come la trippa con la polenta o il baccalà alla vicentina. Piatti imperdibili perché ci appartengono. […] Sono i sapori di quando non c’era il frigorifero e i cibi dovevano essere conservati con la cipolla, affumicati, salati, messi sott’olio. Guai a perdere tutto questo”. […] “L’Harry’s Bar è qualcosa di più di un bar o di un ristorante – conclude –: è una trattoria italiana che conserva le tradizioni e la dote più importante dell’oste, l’accoglienza”» (Andruetto). «“L’innovazione consiste nel cucinare bene la tradizione. La cipolla del fegato alla veneziana da noi viene soffritta per 40 minuti, però dopo tre ore l’apparato digerente non ti ricorda di aver mangiato quel piatto”. […] Ma sa cucinare? “Tutto. Però non così bene come i 350 cuochi che ho avuto al mio servizio. Il più bravo scriveva ‘carottte’, con tre ‘t’. Il giorno che se ne andò mi disse: ‘Me racomando, siór Arrigo, el asùma uno che l’àbia studià’”. […] Un piatto che non mancherà mai all’Harry’s Bar? “Il più semplice: tagliolini all’olio e prezzemolo”. E uno che mai ci entrerà? “L’invenzione, la promiscuità fra i gusti”» (Lorenzetto). «Odio i fronzoli della nouvelle cuisine e sono nemico delle guide gastronomiche: chi le segue è una pecora nel gregge bisognoso di una guida. Io voglio servire esseri umani. […] Io dico sempre che il menu degustazione è una disgustazione, che è un assassinio mettere la liquirizia nel riso, e quando leggo che il cibo è adagiato su un letto alla Poppea mi vengono i brividi. Lo sa, quale è il segreto per evitare alcuni errori? Non entrare mai in un ristorante che porta il nome del cuoco. Tutta immagine e niente arrosto. Soprattutto tanta panna, per mascherare le magagne». «“Nessuno conosce il nome dei nostri cuochi. Eppure sono bravissimi. Anche ragazzi di poco più di vent’anni”. E non c’è una star, un masterchef? “No, uno è andato in televisione ed è stato licenziato”. Questa, la racconti meglio. È andato in tv e ha abbandonato la cucina? “Avevamo un evento in una delle sale di New York con 500 persone. Arrivo e dico: dov’è lo chef? È in tv. Allora, via. Non può funzionare. Lo chef deve fare da mangiare bene: solo quello. Non devi andare a dire quanto sei bravo in tv. Così si perde il senso”» (Aliberti). «“Con Marchesi è cominciata la decadenza. La nouvelle cuisine è uno dei frutti avvelenati del ’68, della rivolta contro la tradizione. Ma i veri artisti della cucina, come Paul Bocuse, sono tornati indietro, al territorio, alla materia prima. I peggiori hanno perseverato. E da noi il ’68 non è mai finito, non solo in politica. Ora queste nuove star stanno rovinando la cucina italiana, la più grande di tutte”. […] Cracco è veneto come lei. “Ma da lui si mangia male. Me lo dicono tutti i clienti che sono stati nel suo ristorante. E poi Masterchef… tutto finto. Girato in una settimana. Con questi che piangono con le lacrime se Cracco li sgrida per una maionese sbagliata…”. Cannavacciuolo? “Cannavacciuolo ha scritto più libri di Proust. Ne pubblica uno ogni tre mesi. Un mio amico gli ha commissionato un banchetto: se n’è amaramente pentito”. Bottura? “Da sempre compravo i prosciutti da un produttore di Parma. Poi Bottura ha annunciato che questo signore avrebbe messo i prosciutti in barrique; gli ho scritto per disdire l’ordine. Erano 1.400 prosciutti l’anno. Mi ha risposto che aveva abbandonato Bottura. Troppo tardi”. Non ne salva proprio nessuno? “Vissani mi è simpatico. Perché sa ridere di se stesso”» (Cazzullo) • «Lei non accetta prenotazioni. È un vezzo? “No, è semplicemente che noi abbiamo anche un bancone del bar. Chi arriva, se i tavoli sono occupati, può sedersi e aspettare con un Martini. È normale. Comunque non è vero che non accettiamo prenotazioni, è che hanno un valore assolutamente simbolico. Non lascio un tavolo in attesa di qualcuno. Dieci minuti di attesa non hanno mai ucciso nessuno”. E anche le celebrità si piegano alla regola? “Ogni tanto chiamano i portieri d’albergo e annunciano vip. E io rispondo: cosa vuol dire vip? Sono fatto così. Comunque il divo non ha bisogno di troppi capricci. Il divo vero, intendo. Non mi chiedono di cambiare tavolo, non è quasi mai accaduto”» (Liuzzi) • «Dottor Cipriani, qual è l’anima dell’Harry’s Bar? “La semplicità complessa”. Cosa vuol dire? “È lo stile inventato da mio padre. Semplice, perché per noi è fondamentale la cura del cliente, che qui deve sentirsi libero, a suo agio, ma al tempo stesso complesso, perché prestiamo grande attenzione ai dettagli”. Per esempio? “All’Harry’s Bar i tovaglioli sono di lino, quasi non li senti sulla bocca. Le posate piccole e i piatti rigorosamente tondi. Non c’è musica, perché, l’ambiente, lo creano i clienti con le loro parole. Il pavimento è riscaldato a 19 gradi. I cellulari non sono vietati, ma quasi… E il buongiorno non deve mai essere robotizzato, stile albergo stellato, ma personalizzato”. Basta questo? “No, ma anche questo fa parte della nostra storia. Poi c’è il gusto. La tradizione culinaria italiana: la migliore, perché arriva dalle cucine delle nostre nonne. Una pasta e fagioli o un risotto fatti bene piacciono ovunque. E noi produciamo tutto in casa”. Per questo i prezzi sono così… non alla portata di tutti? “Anche lei con questa storia dei prezzi alti? Allora le racconto un aneddoto…”. Prego. “Il conte Caetani di Napoli una volta mi ha detto: ‘Sono due le forze che muovono il mondo: lo snobismo e il lusso’. Lo snobismo è l’esteriorità delle cose, l’apparenza, il lusso è l’interno, il contenuto. […] La nouvelle cuisine, per esempio, è solo forma, snobismo. La sostanza sono le 70 persone che lavorano all’Harry’s Bar nei 70 metri quadrati dedicati ai clienti. Il vero lusso è anche questo. Lo stesso vale per tutto ciò che ci circonda”» (De Stefano). «L’Harry’s Bar è un’attività commerciale diversa dalle altre. Questo bar è uno psicoanalista, o almeno su di me sortisce lo stesso effetto. Si entra in questo ambiente dove non esistono imposizioni, la sedia è comoda, il tavolo all’altezza giusta, la luce, l’acustica, tutto funziona. Ci si sente tutti uguali e trattati nello stesso modo. Una volta Richard Gere mi ha fermato vicino alle scale e mi ha detto: “Cipriani, ma che cosa c’è in questa stanza?”. Forse è eccessivo parlare di spiritualità, ma qui c’è qualcosa di immateriale che si trasmette negli anni». «Il lusso è la somma del pensiero e della fatica, è stare bene, è la mancanza di imposizioni. Il vero lusso è la semplicità, e un oggetto, come un locale, è di lusso se ha un’anima». «La qualità e lo stile non si urlano» • «Lei si è sempre definito un oste e, come ha scritto in un libro, si considera “prigioniero” di una stanza, che è poi l’Harry’s. “Io sono un oste. Il ristorante deve essere una trattoria e il paròn deve essere un oste. Mai invadente, sempre naturale e se stesso. E considero questo locale una stanza di nove metri per quattro e mezzo. Quindi una prigione, anche se deliziosa. Anzi, un’auto-prigione. Se sono di cattivo umore, vengo qui e mi passa. Se sono di buon umore, vengo qui e l’allegria resta. Ma, come ho detto altre volte, il genio di tutto questo è stato mio padre, mentre io non ho inventato assolutamente niente”» (Pivato). «Io sono qui da oltre 60 anni e questo arredo non si può più cambiare. Mi considero a mia volta una parte dell’arredamento. Questo è il motivo principale, il segreto, della mia longevità» • «Amo la luce. C’è un rito a casa, ogni mattina. È così magico che ne ho fatto anche un breve video: aprire le imposte, e la casa si riempie di luce, e incantarsi sui riflessi straordinari dell’acqua sul soffitto dona beatitudine» • «Oggi come poche volte nella storia c’è bisogno di una smitizzazione di certe pseudo-verità che riescono ad amareggiare la vita di tutti e ci allontanano dall’unica dimensione intelligente per trascorrere il brevissimo periodo della nostra esistenza. La leggerezza che porta alla felicità». «“Ironia, anzitutto, sennò alla mia età non ci si arriva. E poi tanto amore per la libertà: quella, proprio, non devono toccarmela”. Altrimenti? “Sono cintura nera di karate 3° dan, e me la cavo ancora bene”» (Rossi). «Ricordo a tutti che il senso dell’umorismo e dell’ironia è una delle grandi doti dei veneziani. In fondo, come diceva mio padre, la vita non è una cosa seria. Se ho paura della morte? Alla mia età non è il caso, e poi dico sempre che la morte non è davanti a noi, ma dietro: sono tutte le cose che volevamo fare e non abbiamo fatto e adesso non abbiamo più tempo di fare» • «Da non credente, penso alla morte. Penso che sia una cosa naturale di cui non bisogna aver paura. Non credo nella reincarnazione, ma se nasco un’altra volta voglio fare l’architetto e specializzarmi nella progettazione di manicomi». «Cosa c’è nell’aldilà secondo lei? “Cosa vuole che ci sia? Niente. Noi siamo i nostri sensi. Spenti quelli, non resta nulla. L’aldilà è un menu degustazione imposto da uno chef che non sa cucinare ma passa il tempo in tv”» (Cazzullo). «Quindi crede che l’aldilà esista. “Gianni Crovato, all’epoca direttore del Gazzettino, mi chiese il mio primo articolo per un giornale: un ricordo di mio padre. E io lo immaginai seduto in paradiso, mentre sorseggiava un Bellini insieme a Hemingway e intanto con l’altra mano scostava una nuvola scomoda per far risplendere il sole su entrambi. Beh, riscriverei la stessa cosa”. Appunto: in paradiso. “Ho già dettato l’iscrizione per la mia lapide: ‘Sto da Dio’”» (Lorenzetto).