28 aprile 2021
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Biografia di Zubin Mehta
Zubin Mehta, nato a Bombay (India) il 29 aprile 1936 (85 anni). Direttore d’orchestra. «Per essere direttori bisogna avere la forza di un boscaiolo, la concentrazione di un monaco buddista e il carattere della padrona di un postribolo. A ciò s’aggiunga la necessità di conoscere quattrocento anni di musica» (a Leonetta Bentivoglio) • «Mehta discende da un’aristocratica famiglia di antica tradizione parsi, i seguaci di Zarathustra che fuggirono dalla Persia per sottrarsi al dominio arabo che aveva islamizzato la loro terra: “Oggi i parsi sono […] una fetta minima della popolazione indiana. Forse anche per questo sono legato a Israele. La nostra religione, un monoteismo fondato sul conflitto tra luce e tenebre, ha qualche analogia con l’apocalittica giudaica. Abbiamo affinità culturali con gli ebrei: come loro diamo un’enorme importanza all’educazione e alla beneficenza, aiutiamo molto i nostri poveri. Santi, per noi, sono gli elementi naturali, il fuoco, l’acqua, la terra: per questo non possiamo bruciare o seppellire i nostri morti. Vengono posti in una grande fossa circolare murata dove li mangiano gli avvoltoi, e c’è uno sbocco che porta le ossa al mare. Si chiama ‘torre del silenzio’. Nel nostro tempio si prega il fuoco, una forza che può distruggere e creare, e il mese di aprile è dedicato all’acqua. Ricordo mia madre che pregava davanti al mare”» (Bentivoglio). «I miei primi ricordi da bambino sono segnati dall’importanza dei valori nella mia famiglia. Mi è stato detto dall’inizio che la nostra religione ha tre simboli: le buone parole, le buone azioni, i buoni pensieri. E io sono sempre cresciuto con questi tre princìpi in casa mia. Mio nonno e mia madre mi dicevano “non pensare brutte cose, non dire brutte parole”. Per noi è molto importante la separazione tra il bene e il male». Figlio del violinista e direttore d’orchestra Mehli Mehta (1908-2002), fondatore della Bombay Symphony Orchestra. «Mio padre era violinista, inizialmente autodidatta, poi allievo del fiorentino Oddone Savini, un musicista che si esibiva insieme ad altri due italiani nei grandi alberghi per stranieri, e dal quale anch’io ho preso le prime lezioni di teoria. Fu con un direttore d’orchestra belga, Jules Craen, che si trovava in quegli anni a Bombay, che svilupparono insieme il progetto dell’orchestra sinfonica, riunendo fortunosamente musicisti cristiani di Goa, colti dilettanti parsi, ebrei giunti in India dall’Europa (non quelli già presenti a Bombay, che provenivano dall’Iraq e non conoscevano la musica occidentale) e, per ottoni e strumentini, elementi della banda della Marina militare indiana di stanza nel porto della città» (a Riccardo Lenzi). «“Era un bizzarro miscuglio di musicisti professionisti, soprattutto negli archi, e di dilettanti. […] Mi ricordo che una volta c’era penuria di cornisti: furono sostituiti con dei sassofoni. […] Una volta suonarono con il grande violinista Yehudi Menuhin, e mio padre li mise sotto torchio, facendoli provare senza tregua. Lui suonava la parte che sarebbe spettata a Menuhin, a me fu affidato il compito di dirigere l’orchestra. Fu la prima volta che salii su un podio”. […] Nonostante il padre musicista, Mehta aveva il destino segnato: laurea in Medicina. Perché la tradizione indiana vuole che solo certe professioni possano essere legate a una determinata casta. Ma ci volle poco per capire che non sarebbe stata quella la sua strada, bensì la musica, assorbita fin da piccolo dai vecchi grammofoni di Mehli, con i dischi che potevano contenere, ognuno, poco più di 5 minuti di musica: per ascoltare una sinfonia, bisognava cambiarli continuamente. E, ancora, le partiture che il padre studiava nel soggiorno di casa: “Le contemplavo già volentieri, quando ancora non sapevo leggere. Ero letteralmente avvolto e circondato dalla musica; la musica era il mio divertimento quotidiano. Tutto questo rappresentava né più né meno, per me, che un accesso assai precoce al paradiso. Ho avuto la fortuna di entrare molto giovane in questo giardino dell’Eden musicale, e finora nulla e nessuno è mai riuscito a scacciarmi da lì”» (Fulvio Paloscia). «“Sono cresciuto nella musica. Non ricordo se prima ho iniziato a parlare o a cantare”. […] Lei ha studiato dai gesuiti. “Per ben undici anni. In classe c’erano ragazzi di sette religioni diverse. Ho sempre vissuto la mia città come un luogo in cui le culture si incontrano. A questa scuola devo una formazione eccellente, un’educazione profonda. Gli insegnanti erano spagnoli, o, meglio, catalani. Affrontavamo tante materie, compresa composizione. Il mio maestro di contrappunto e fuga era stato allievo di Granados. Tutti i preti erano in gamba. Certo, le regole erano chiare e andavano rispettate senza discutere. Non si poteva sgarrare. L’unica cosa che potevamo scegliere erano le lingue aggiuntive, e tra francese, latino e indiano scelsi il francese”» (Piera Anna Franini). «Il suo primo strumento? “Ero troppo pigro per applicarmi a uno strumento. Volevo dirigere, da subito”. I suoi maestri? “A parte mio padre, il primo fu […] Oddone Savini. Viveva a Poona. Per raggiungerlo dovevo farmi tre ore di treno e qualche chilometro in bici. Poi mi sono trasferito a Vienna”. Da solo? “Sì. A Mumbai avevo cominciato a studiare Medicina. Ma presto ho capito che non faceva per me. E così sono partito. Prima tappa a Napoli, dove io e altri adolescenti indiani abbiamo avuto la nostra iniziazione sentimentale”. Ehm… “Ci siamo capiti”» (Vittorio Zincone). Il San Carlo di Napoli fu il primo teatro europeo in cui Mehta mise piede, sia pure per pochi minuti: appena sbarcato dal piroscafo con cui era partito dall’India, infatti, «mi feci accompagnare al teatro dell’opera: non sapevo nemmeno come si chiamava. C’era un recital di Rubinstein in cartellone: non mi fecero entrare. Aspettai la pausa per vedere la sala vuota con il pianoforte. Restai affascinato». Poco dopo raggiunse la capitale austriaca, all’epoca «una città distrutta dalle bombe, occupata dalle forze straniere. Ricordo lo sguardo duro dei soldati russi» (a Valerio Cappelli). «Vienna innanzitutto perché vi abitava un mio cugino, più grande di me: era pianista, ed era fuggito dalla Cina dopo il comunismo (era vissuto a Shanghai). I miei genitori mi affidarono a lui. […] Vienna, […] per uno studente di musica, era come La Mecca, perché erano di casa tutti i più grandi musicisti dell’epoca». «Io mi sono sentito subito di casa a Vienna. Si viveva con settantacinque dollari al mese. Ho suonato il contrabbasso nelle orchestre, ho cantato nel coro» (a Rino Alessi). «L’impatto con Vienna […] fu straordinario. Credevo di conoscere concerti e sinfonie perché li avevo ascoltati nei dischi di mio padre. Ma dal vivo, in quelle sale maestose, erano un’altra cosa: magia». «Quando arrivai a Vienna, a 18 anni, ebbi la possibilità di seguire prove e concerti con direttori come Böhm, Karajan, Bruno Walter e Kleiber padre. Avevo un orecchio vergine, non esistevano i compact, non avevo termini di confronto. Ed eccomi nella Sala d’Oro del Musikverein, con la sua acustica insuperabile, tuffato nel sontuoso suono viennese. Fu l’esperienza che mi diede il via. Quello viennese, per me, è rimasto sempre il suono ideale». «A Vienna, maestro Mehta, lei fu allievo di Hans Swarowsky. Come lo ricorda? “Come un amico e come un padre. Posso dire che è stato, per la musica, la persona più importante nella mia vita dopo mio padre. […] Di Swarowsky ricordo ancora la voce in alcuni passaggi dell’Eroica. Era un toscaniniano, al cento per cento. Ricordo il suo amore per la disciplina: non trovare le cose fra le note, non fare compromessi, ci diceva. E poi ricordo, del periodo di Vienna, che a diciotto anni ho conosciuto più musica nella mia classe di tutti i miei colleghi”. Come ha imparato l’italiano? “Con me, a Vienna, studiava Claudio Abbado. Dovevo tradurgli in italiano quello che Swarowsky diceva in tedesco perché, all’epoca, lui non parlava ancora troppo bene il tedesco”» (Alessi). «Un’amicizia segnata, con Abbado… “Bellissima, la più profonda e importante che abbia avuto. Mi manca molto ancora oggi Claudio”» (Angelo Foletto). «“Insieme eravamo entrati in un coro, ma solo per assistere alle prove d’orchestra dei grandi maestri. Eravamo indisciplinati. Quando il direttore del coro se ne accorse, ci cacciò. E per umiliarci lo fece di fronte a Herbert von Karajan”. Il suo primo concerto da direttore? “A Mumbai avevo avuto un paio di esperienze con mio padre. Poi qualche cosa tra studenti, con cui ottenni il primo compenso della mia vita”. Soldi? “No. La copia originale della partitura dei Kindertotenlieder di Mahler. Il primo vero concerto, però, fu quello alla fine del corso con Swarowsky. Io e Abbado venimmo stroncati da un pianoman di un bar che era venuto a vederci e faceva recensioni per un giornale. D’estate con Claudio andavamo alla Chigiana, a Siena, ai corsi di Carlo Zecchi. Lì incontrai pure Daniel Barenboim. […] La prima volta che lo vidi, pensai che fosse un nano. Stava sul palco e dirigeva. In realtà era semplicemente giovanissimo, un bambino”» (Zincone). «Musicalissimo e bellissimo, Zubin fa strage di cuori mentre la sua carriera folgorante inizia con il primo premio al concorso internazionale di Liverpool del 1958; e con essa parallela cresce la sua fama di tombeur des femmes. A venticinque anni appena, con una accelerazione che lascia indietro l’amico Claudio Abbado, che studia a Vienna negli stessi anni, sale sul podio delle due grandi orchestre per antonomasia: i Wiener e i Berliner Philharmoniker» (Piero Violante). «Le tremavano le gambe? “No, anche se ero nervoso. Dirigevo la Sinfonia in tre movimenti di Stravinskij. Per fortuna non era molto conosciuta. E io ne ero consapevole”. Deve comunque avere fatto colpo, se da quel giorno l’hanno sempre voluta… “Alla fine della prova generale effettivamente gli applausi non mancarono. Subito dopo, il Don Chisciotte…”» (Franini). «“Dopo la II Guerra mondiale era venuta a mancare una generazione di direttori, e così dai grandi vecchi si è passati ai giovani”, dice oggi, come cercando una giustificazione per degli esordi così folgoranti, indiscutibili» (Sandro Cappelletto). «Da allora è stata tutta un’unica tirata. Maestro infaticabile, sprizzante intelligenza, affabilità ed energia, più di altri Mehta sembra incarnare il tipo di direttore globetrotter. Batte tutti i primati: numero di concerti e anni di presenza continuata sul podio delle orchestre che si affidano alla sua guida. Dalla Montreal Symphony, che dirige del ’61 al ’67, alla Los Angeles Philharmonic, dal ’62 al ’78: a soli ventisei anni, scalzando Georg Solti, conquista una delle orchestre più importanti del mondo; alla New York Philharmonic, che dirige dal ’78 al ’91 – dopo Boulez, che aveva lasciato il pubblico newyorkese tra non poche incomprensioni –, battendo ancora una volta Sir Solti, pare con l’aiuto di Isaac Stern; alla Israel Philharmonic, che […] gli è stata affidata a vita» (Violante). Nel 1962 l’esordio al Teatro alla Scala di Milano. «Si racconta che l’allora sovrintendente, Ghiringhelli, fosse disorientato per la sua provenienza. “Tanto che disse al direttore artistico Siciliani: ‘L’anno scorso avete invitato quel giapponese’, che era poi Ozawa, ‘adesso volete far venire un indiano: magari arriverà col turbante. E tutto questo alla Scala, il tempio della musica…’. Per fortuna Siciliani insistette, anzi quando andò alla Rai mi chiamò anche lì. Il concerto era poi andato bene, comunque”. Presentò autori all’epoca impossibili, come Webern e Schönberg. “E infatti la sala era mezzo vuota, ma mi lasciarono fare”. Con Ghiringhelli come andò a finire? “Che diventammo amici, e lo stesso con Paolo Grassi, il suo successore”» (Franini). Nel 1963, a Montréal, Mehta diresse la sua prima opera lirica: Tosca di Giacomo Puccini. «Era una nuova produzione e abbiamo un po’ “improvvisato”, ma avevamo nel cast il grandissimo basso-baritono George London, che è venuto soltanto per la prova generale perché eravamo amici e mi ha fatto un favore! […] Nel 1964 ho diretto un’opera per la prima volta in Europa, con La traviata» (a Gaja Hubbard). «Nel 1965, a ventinove anni, incise l’ultima e incompiuta sinfonia di Bruckner per il debutto discografico, con l’Orchestra Filarmonica di Vienna. “Sì, con la Nona di Bruckner ho un rapporto lungo. L’avevo studiata a Vienna e l’ho potuta approfondire, ristudiandola con Bruno Walter, quando la stava registrando con la Filarmonica di Los Angeles. Da allora non mi ha più lasciato”. È una sinfonia che suggerisce molte interpretazioni. “Questo racconto musicale di un mondo religioso che guarda oramai all’aldilà mi ha fatto maturare come musicista”» (Foletto). «Tutti i pezzi che ho registrato, prima li ho suonati a lungo dal vivo: è stata sempre una mia caratteristica quella di voler sperimentare sul campo i brani prima di arrivare in studio. Sono sempre entrato in sala di incisione solo quando ero convinto della mia interpretazione, perché il disco per me è sempre stato un punto di arrivo nel quale condensare tutte le riflessioni che nel tempo avevo fatto accostandomi alle diverse partiture» (a Pierachille Dolfini). «Capitolo Los Angeles. “Era ancora di più la città dei divi del cinema, ambiente del tutto scollegato da noi. Per la musica era il deserto. A dieci minuti da casa mia c’era il Centro della cultura tedesca: era stato frequentato da Thomas Mann e Bertolt Brecht, che non si parlavano. Mann non era certo di destra, ma l’altro era troppo di sinistra”» (Cappelli). «A Los Angeles, quando ci andai nel 1962, la Filarmonica era già un’orchestra di buona qualità, ma non della qualità che ho lasciato sedici anni dopo. Ho portato un po’ di Europa centrale in California». «L’ex sindaco di New York Ed Koch […] in 11 anni di mandato non venne mai a un mio concerto con la New York Philharmonic. Gli dissi: “Ma che ebreo sei, se non ti piace la musica?”» (Cappelli). «Fra le sue medaglie al valore, c’è anche quella di essere stato uno dei primi a sdoganare le esibizioni di musica classica e lirica in stadi e piazze. Memorabile è rimasto il concerto di Caracalla dei Tre Tenori. Ovvero la santissima trinità lirica: José Carreras, Plácido Domingo, Luciano Pavarotti. E lui sul podio. […] Dopo quella serata il mondo della lirica non è più stato lo stesso. Si aspettava di scatenare un fenomeno del genere? “È vero, quel concerto ebbe un impatto incredibile. Ma tutto andò ben oltre i nostri propositi. Non intendevamo educare alla lirica, attirare il grande pubblico nei teatri d’opera. Volevamo semplicemente dare il benvenuto a Carreras, che tornava a cantare dopo la malattia. Era un incontro fra amici, tra l’altro uniti dalla comune passione per il calcio, tanto che cantammo alla vigilia della finale dei Campionati del mondo di Italia ’90. Le esibizioni erano gratuite, anche se la casa discografica Decca vendette dischi per quasi venti milioni di euro. Certo, avrebbero potuto regalarci almeno una penna a Natale…”» (Franini). «Fra le altre cose Mehta collabora da tempo coi Berliner Philharmoniker, una delle compagini cui rivolge maggiormente la sua passione musicale, “sempre nel ruolo di direttore ospite”, riferisce. “Coi Berliner non faccio tournée, dato che l’orchestra viaggia solo col suo direttore stabile. Ma non ho mancato una partecipazione annuale nella loro stagione concertistica berlinese fin dal 1961!”» (Bentivoglio). Nel 2016 «ha fatto il giro del mondo per i concerti in omaggio ai suoi 80 anni. La tappa a Mumbai deve essere stata speciale… “Non dimenticherò mai quel giorno. Eravamo nello stadio di cricket, davanti a una platea di 14 mila persone. Andrea Bocelli è venuto apposta per cantare in mio onore”. Sembra emozionato mentre ne parla… “Bocelli è una delle persone più delicate che abbia mai conosciuto. Con me, ha sempre voluto fare opera pura, non crossover tra generi diversi. Apprezzo la sua curiosità, legge un sacco di libri. Si informa su tutto. […] Per lui ho un grande rispetto”» (Franini). Tra il 2017 e il 2018 Mehta ha dovuto combattere contro il cancro, riuscendo infine ad avere la meglio. «Un bravo ortopedico, da cui ero andato per un ginocchio, ha intuito che si trattava d’altro. Gli esami hanno confermato cancro al rene, già in metastasi. Tutti sembravano molto spaventati, tranne me. Ho chiamato il mio medico in Israele: mi ha raggiunto a Los Angeles. Sono stato operato da un’equipe composta da un conte austriaco, un medico siriano, due dottoresse greche. Davvero internazionale. Poi ho seguito un protocollo di cure sperimentali. E ora il cancro non c’è più. Ne sono uscito più forte di prima» (a Giuseppina Manin). «Per quanto tempo ha smesso di dirigere? “Otto mesi. È stata la prima volta che sono stato fermo così a lungo. E anche la prima volta in cui mi sono ammalato. A parte una meningite a sei anni, sono stato sempre sano”. Come ha reagito alla paura? “A dire il vero, ero pieno di fiducia nei medici e nella possibilità di superare la malattia. Mi ha aiutato molto mia moglie Nancy. Mi ha convinto che il male andava sconfitto e mi ha trasmesso la sua positività”. Le è mancata la musica? “Era con me ogni notte. Mi circolava in testa mentre dormivo: di volta in volta c’era un brano. Aveva un passo diverso rispetto allo stato di veglia. Ma era onnipresente nei miei sogni”» (Bentivoglio). Nel 2019 Mehta ha concluso con un ultimo ciclo di concerti il suo «splendido rapporto cinquantennale» con la Filarmonica di Israele. «Nel 1961 Mehta dirige per la prima volta in Israele: “Andare in Israele fu come tornare a casa, dopo sette anni di Europa. La gente era molto più asiatica, la stessa confusione per la strada, venti opinioni per ogni problema. Superficialmente, in Israele, c’è molta disorganizzazione, come in Asia”. Nel 1969 diventa direttore stabile della Filarmonica di Israele di cui, in seguito, è nominato direttore a vita» (Alessi). «Il suo rapporto con l’Orchestra cominciò quando si mise a disposizione per sostituire l’austriaco naturalizzato statunitense Erich Leinsdorf, che durante la Guerra dei sei giorni diede forfait e fuggì da Israele. Mehta si trovava a Porto Rico per il Festival Pablo Casals. “Capii che dovevo subito tornare in Israele. All’interno dell’aereo non si stava comodi. Prima dell’atterraggio venni a sapere che ero seduto su un sedile contenente una cassa di munizioni. L’intero apparecchio ne era zeppo”» (Cappelli). «Una notte che era a Gerusalemme, all’Hotel King David, un proiettile forò la parete sopra il suo letto, mentre dormiva: “Ho un buon angelo custode: gli spari non mi hanno svegliato”. Quando volle proporre a Israele il preludio e la morte d’amore dal Tristano e Isotta di Wagner, in sala esplose il finimondo: “Insulti, grida, gente che tentava di salire in palcoscenico, aggressioni fisiche agli orchestrali, un caos furioso. Nel pubblico c’era gente che aveva sentito Wagner nei lager, e che aveva ancora il numero tatuato sul braccio. Non si può non rispettare certe emozioni. D’altra parte, la storia della musica degli ultimi centocinquant’anni sarebbe impensabile senza Wagner”» (Bentivoglio). Con la Filarmonica di Israele, tuttavia, «molti sogni sono […] stati realizzati. Volevo andare in India: per molti anni i due Paesi non hanno avuto relazioni diplomatiche, e nel ’94 siamo andati in India e l’orchestra ha suonato gratis. Il concerto non è stato solo per 2.000 persone: le registrazioni del concerto, le abbiamo date gratuitamente alla tv indiana perché potesse essere visto da tutti. Siamo andati anche in Cina. Abbiamo fatto un concerto in Polonia nell’87 e in Russia nel ’90. Siamo andati gratuitamente per aprire una nuova porta. Dovevamo fare questo per Israele, per l’amicizia che ci lega». «Nel 1991, mentre volavano gli Scud iracheni, ero a Tel Aviv, e in platea c’erano arabi e israeliani. Non dico che alla fine si siano abbracciati, ma almeno sono stati insieme per qualche ora»: in quell’occasione «Mehta diresse Bach, con il violinista Isaac Stern come solista, davanti a una platea con indosso le maschere antigas» (Giulio Meotti). In Israele «ho maturato una coscienza politica. A Begin chiesi di mandarmi con l’Orchestra a suonare al Cairo, mi rispose che prima doveva firmare i settlement, gli accordi con Sadat. Non sapevo nemmeno il significato di quella parola. Con Netanyahu non sono d’accordo su nulla. Ho detto addio alla Israel. All’ultimo tour, con la Terza di Mahler, le donne dell’orchestra avevano il trucco sciolto dalle lacrime». È ancora vivissimo, invece, il suo rapporto, anch’esso risalente ai primi anni Sessanta, con l’Orchestra del Maggio musicale fiorentino (di cui dal 2006 è direttore onorario a vita), che «è la mia famiglia da quando nel 1986 ne assunsi la direzione, anche se avevo già iniziato a frequentarla come ospite nel 1962. Debuttai l’11 febbraio in un concerto sinfonico che presentava un pezzo contemporaneo in prima esecuzione per la città, Incontri di Piero Giorgi, più il Concerto in la minore di Schumann con il pianista Friedrich Gulda e la Prima sinfonia di Mahler». «Il suo rapporto con Firenze è affettuoso e speciale, e il suo nome è legato ad alcune tra le produzioni più rilevanti del Comunale fiorentino. Qui, nel ’64, debuttò […] con La traviata; qui diresse il primo ciclo completo realizzato in forma scenica in Italia (regia di Ronconi) della Tetralogia wagneriana (tra il ’79 e l’81). Sempre a Firenze guidò la Trilogia Mozart-Da Ponte messa in scena da Jonathan Miller (’90-’92) e stimolò la prima regia lirica di Julie Taymor (oggi celebre regista cinematografica) con un Flauto magico nel ’93. A Mehta inoltre, Firenze deve un premiatissimo Moses und Aron di Schönberg (’94). E fu l’Orchestra del Maggio che il maestro indiano diresse, nel ’90, per quell’evento-fenomeno (il più redditizio mai realizzato nel mondo della classica) che fu il primo concerto dei Tre Tenori a Caracalla» (Bentivoglio). Fu ancora alla direzione dell’Orchestra del Maggio musicale fiorentino che, nel 1998, Mehta eseguì la Turandot di Giacomo Puccini nella Città Proibita di Pechino, con la regia di Zhang Yimou. «Il governo cinese non la voleva: dicevano che Zhang Yimou, il regista, girava film contro il loro Paese. Così andai dal ministro degli Esteri con una scatola di biscotti al mango di Bombay. Se lo dirigi tu va bene, mi disse. Coprirono con dei drappi alcuni danni lasciati da Bertolucci quando girò L’ultimo imperatore. Erano ancora arrabbiati» (Cappelli). A Firenze, il 30 agosto 2020, in memoria delle vittime della pandemia da Covid-19, «dirigeva il Requiem di Verdi. Cosa pensava in quel momento? “A chi non ce l’ha fatta, ma anche a chi si è speso per cercare di salvare più vite possibile. Una grande preghiera collettiva con un grande cast canoro. Quasi lo stesso di quello di Chailly in Duomo”» (Manin). Il 15 settembre 2020 ha diretto per la prima volta La traviata di Giuseppe Verdi al Teatro alla Scala di Milano (in forma di concerto). «La musica per me è come l’ossigeno. Tra il fermo per la malattia e il Covid, non ce la facevo più, a stare lontano dal podio. E poi Traviata l’ho diretta ovunque tranne che alla Scala. Un debutto a 84 anni». «Alla sua età pare non preoccuparsi del Covid. “Io sono sano e una persona molto positiva. In ogni senso. Poi vengo da una famiglia in cui tutti hanno abbondantemente superato i novant’anni. E io ne ho solo 85”. […] Avrebbe dovuto dirigere “Rigoletto” di Martone. Quando pensa potrà farlo? “Non lo so. Mi spiace che il progetto sia sfumato. Più ancora mi mancherà l’opera di Nono, anzi il dittico di Intolleranza e di Erwartung di Schönberg, un vero accostamento “di famiglia” che avevo voluto nel trentennale della morte di Nono”. Pensa ci siano speranze? “Aspetto che qualcuno si faccia vivo per parlarne. Ci tengo molto”» (Foletto). Il 13 febbraio 2021 fu colto da un malore mentre stava dirigendo l’Orchestra del Teatro alla Scala di Milano nelle prove della Salome di Richard Strauss. «Alle prove avevo problemi di concentrazione, facevo errori che non commetto. Una pausa e riprendiamo, dissi. Ma Meyer, il sovrintendente, insisteva per portarmi in ospedale. Era una leggera ischemia. Non ho sofferto, non ho sentito nulla». «“È stato un vero dispiacere non poter dirigere Salome. […] Sono molto grato a Riccardo (Chailly, ndr), che l’ha presa in mano con tanta passione”. […] In questi mesi il maestro indiano […] ha fatto la spola con Firenze (“Per me non esiste la fatica nel far musica”) ed è diventato familiare al popolo degli appassionati “salvati” dalla musica a distanza: “Lo streaming ha salvato lo spirito dei musicisti, ma non si può più continuare così – ribadisce Mehta –: abbiamo bisogno di respirare con più libertà nella musica viva. […] Suonare in (e per) un teatro vuoto dà sempre l’angoscia. Alla Scala lo è meno solo per l’acustica: tutto un teatro che vibra all’unisono è un’emozione difficile da dimenticare”» (Foletto). «“Il 29 aprile compio 85 anni. Li festeggio con un concerto a Berlino da Barenboim”. Un direttore si ritira? “Non si ritira mai. Io mi sento giovanissimo. E torneremo alla vita di prima”» (Cappelli) • «Negli Stati Uniti mi sono rifiutato di dirigere colonne sonore. Ho accettato una sola volta, per Manhattan. Ma si trattava di Gershwin. Tutto il cast – Mariel Hemingway, Meryl Streep, Diane Keaton – venne a sentire il risultato musicale in uno studio di registrazione. Woody Allen? Era molto umile» • «Di leggendaria bellezza da giovane, un rubacuori con pochi confronti, un mito di avvenenza persino a Hollywood, in mezzo ai divi del cinema, molti dei quali sono stati suoi amici» (Bentivoglio) • Due figli, Mervon e Zarina, dal primo matrimonio (1958-1964), con il soprano canadese Carmen Lasky, in seguito risposatasi con Zarin Mehta, fratello dell’ex marito; un’altra figlia, Arianna, da una relazione sentimentale avuta tra le prime e le seconde nozze; il quarto e ultimo figlio, Ori, da una relazione extraconiugale intrattenuta da Mehta in Israele tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, quando era già sposato (sin dal 1969) con l’attrice statunitense Nancy Kovack, sua consorte ancor oggi. «Ancora ringrazio mia moglie Nancy, che è rimasta con me, sebbene offesa e ferita» • «Ho cominciato a dirigere a 21 anni. La musica è il filo rosso della mia esistenza. Insieme alla mia famiglia è la cosa più importante. Sento molto la mancanza dei miei genitori. Mio padre, Mehli, […] mi fece amare la musica e ha seguito insieme con mia madre ogni giorno della mia vita musicale. Erano quasi ossessivi, volevano sapere ogni dettaglio. Mi mancano molto questi colloqui notturni dall’altro capo del mondo» (a Laura Dubini). «In famiglia sono cresciuto parlando un dialetto della lingua gujarati, la stessa del Mahatma Gandhi. Ho avuto un rapporto fortissimo con i miei genitori, entrambi molto longevi. Mio padre è morto a novantaquattro anni, mia madre a novantasei, e quando avevo più di sessant’anni potevo ancora conversare con loro ogni giorno. Uno dei motivi per cui li chiamavo spesso era il piacere di usare la mia lingua, che ho perso da quando non ci sono più. Adesso, quando telefono a mio fratello Zarin a New York, gli parlo in gujarati e lui mi risponde in inglese. Per me è una tragedia» • «Il sogno del direttore d’orchestra Zubin Mehta è trascorrere la sua vecchiaia in Kashmir, “immerso nella sacralità della natura, in una casa da cui si veda il punto di confluenza tra i fiumi Gange e Jamuna. […] Sono indiano al cento per cento, dentro e fuori. Nessuna cucina mi soddisfa tanto, neanche quella italiana, che pure è meravigliosa: diciamo che merita il secondo posto. Nessuna terra mi appartiene così intimamente come il mio Paese. […] Che felicità tornare a Bombay, dove sono nato. Apro la finestra e mi affaccio su un flusso di migliaia di persone, oceani incredibili di umanità. Scendo per strada ed è come nuotare, mi piace confondermi tra la folla senza che nessuno mi riconosca. […] Quando ho cominciato a lavorare in America, nel ’61, ero quasi l’unico indiano conosciuto negli Stati Uniti. Oggi non c’è ospedale né borsa né compagnia finanziaria dove non lavorino gli indiani. Sono gli artefici delle infrastrutture americane. Però in India, su un miliardo e duecento milioni di abitanti, solo quattrocento milioni sanno leggere e scrivere. Gli altri vivono nell’ignoranza e nella povertà. In alcuni villaggi vige ancora il sistema per cui si ammazzano le figlie femmine, in quanto meno utili per i lavori nei campi. È spaventoso”» (Bentivoglio). «Credo che il governo indiano non protegga abbastanza i musulmani, che nel Paese sono numerosissimi, molto più che in Pakistan. Pesante e dolorosa è la situazione in Kashmir, dove nel 2013 ho diretto un concerto in cui per la prima volta spettatori indù e musulmani si sono trovati uniti spiritualmente ad ascoltare Franz Joseph Haydn e Beethoven. La musica ha una forza di coesione che arriva in sfere decisamente inaccessibili alla politica». «Lei, che è un cittadino del mondo, cosa porta sempre con sé del suo Paese? “Ho sempre con me delle piccole medaglie raffiguranti Zarathustra che mi ha dato mia madre. Sono come piccoli bottoncini che porto sempre all’occhiello, anche nei concerti”» (Hubbard) • «Lei è un direttore d’orchestra politico? “Che cosa vuol dire?”. Che è spesso impegnato in iniziative politiche. […] Nel 1956 ha suonato per i profughi ungheresi, negli anni Settanta contro la guerra in Vietnam a Los Angeles. Poi a Oslo, nel 1993, durante i trattati di pace tra Arafat e Peres. […] Ha diretto un concerto nella biblioteca distrutta di Sarajevo, durante la guerra, nel 1994… “Quindi, sono un direttore per la pace. Sembrerà retorica, ma la musica unisce. Nessuno pretende di portare la pace in punta di bacchetta, ma si possono dare segnali”» (Zincone). «Zubin Mehta considera la musica come un ponte fra i popoli, e oltre all’impegno in campo umanitario si dedica al sostegno e alla formazione di giovani talenti musicali in India con la Mehli Mehta Music Foundation e in Israele con la Buchmann-Mehta School of Music» (Hubbard). «Nel mio Paese c’è molto interesse nei confronti della musica classica occidentale, nonostante la musica tradizionale indiana sia fortemente radicata nella cultura e nella vita quotidiana. Per questo l’educazione ad altri tipi di suoni non viene contemplata: la Fondazione a nome di mio padre permette a giovani musicisti indiani di studiare in Europa, invita grandi solisti del resto del mondo a tenere lezioni a Bombay, ed è un caso unico» • «Dove si sente a casa? “A Firenze, a Tel Aviv, a Los Angeles e a Mumbai”. In che lingua pensa e in che lingua sogna? “Mi capita di farlo anche in tedesco. Ma quando sogno i miei genitori lo faccio in gujarati, che è la lingua dei parsi”» (Zincone). «La mia casa sulle colline [nel contado fiorentino – ndr], dove faccio anche l’olio, […] è il mio paradiso. La mia vita in teatro e il rifugio nella casa sulle colline […] rappresentano per me la condizione ideale di vita. Anche la mia casa americana, a Los Angeles, mi permette di vivere a stretto contatto con la natura. Ho una bella casa circondata da tre ettari di bosco: da una parte vedo, in lontananza, il Pacifico, dall’altra le montagne della California. […] Il bisogno di vivere a contatto con la natura ha reso i tredici anni di New York infelici per me. Non vivevo bene nella città, a Manhattan. Ero felice solo con i musicisti; anche il carattere aggressivo dei newyorkesi non mi è mai piaciuto» • «Quanto conta il rapporto tra musica e religione? “Difficile rispondere: per noi tutta la musica è una religione. Non sappiamo distinguere dove finisce l’una e inizia l’altra”. Non esistono atei in musica, quindi. “È impossibile vivere senza musica, piuttosto”» (Foletto) • «Ha un brano di musica pop preferito? “No. Non ho mai messo un disco pop o rock nel mio lettore cd. Apprezzo il jazz perché i musicisti sono bravi e improvvisano, ma il rock…”. Che cosa ha che non va? “Fanno lo stesso ritmo per 5 minuti. Allora preferisco il rap, che alle origini aveva un ruolo sociale notevole. Nei testi c’era tutta la sofferenza dei ghetti neri”» (Zincone) • «Peperoncino: mito o realtà? È vero che ne trasporta sempre una scatola con sé? “Sempre! Però non mi piace il cioccolato (altra mia grande passione) con il peperoncino. Adesso in Italia è di grande moda mescolarli, e questo non mi piace. O peperoncino o cioccolato!”» (Hubbard) • «Dal punto di vista logistico, com’è organizzato il suo archivio musicale? Viaggia con una valigia piena di partiture? “No, no! Devo organizzare tutto con anticipo, perché la mia biblioteca è a Los Angeles e ogni volta che viaggio parto per 6 mesi. Confeziono dei pacchi di partiture con etichette che indicano la data e il luogo di destinazione: Monaco, Firenze, Tel Aviv. Prendo con me soltanto le partiture che devo provare subito, e, le altre, le spedisco con FedEx. FedEx vive con me!”» (Hubbard) • «Mehta conta sull’immagine di un musicista “naturale”: pur coltivato nello studio e nella solida esperienza, il suo rapporto con la musica sembra manifestarsi senza diaframmi intellettuali, come sgorgasse da un dono che lo possiede. Appassionato e consapevole, con una carica umana contagiosa e un gesto limpido e perentorio, spicca sul podio con un’autorevolezza e un fascino che paiono garantirgli il dominio assoluto dell’orchestra. […] Conoscitore dei classici viennesi e del più germanico degli autori, Wagner, viaggia in un repertorio che include Mozart e Brahms, Mahler e Bruckner. Fastoso uomo di teatro, cattura il pubblico con le sue interpretazioni di Verdi, Puccini e Richard Strauss; ma può anche offrire uno Schönberg denso e profondo, e sa orientarsi abilmente nelle geometrie complesse di Stravinskij» (Bentivoglio) • «Mi sento ancora profondamente indiano. Sono cresciuto nella cultura, nell’arte e nella gastronomia del mio Paese. Ma, per quanto riguarda la musica, la mia formazione è stata solo occidentale. Fin da piccolo, in casa, ho sempre ascoltato Mozart e Beethoven. Solo da grande sono diventato un fan della musica indiana, e oggi mi piacciono musicisti come il sitarista Ravi Shankar e i tablisti Ali Akbar Khan e Zakir Hussain. Ho fatto anche concerti insieme a Shankar e alla Filarmonica di New York». «Per scelte di cultura e occasioni di vita, io sono “viennese”». «Niente, racconta, gli dà più piacere del dirigere l’Eroica di Beethoven. E soprattutto il Don Giovanni di Mozart, che “è insieme pathos e commedia, capace di provocare il pianto e il riso. Potrei dirigere quest’opera in ogni momento della mia vita. E anche La Valchiria di Wagner: mi toccano nel profondo i sentimenti che vi sono espressi, i forti legami fraterni, l’amore del padre per la figlia che, per intesa spirituale, per lui è quasi una fidanzata. Tutto è concreto, vivido, riconoscibile”» (Bentivoglio) • «Penso […] d’essere un direttore sinfonico e operistico in egual misura. Ho dato moltissimo anche al teatro». «Un direttore con un gesto di rara eleganza come il suo si sente ugualmente appagato dallo stare nella fossa piuttosto che in palcoscenico? “Ho quasi cominciato le due cose insieme. Opera e sinfonica rappresentano una sfida completamente diversa. Con l’opera si controlla la scena e l’orchestra, e per creare questo colloquio tra scena e orchestra si deve sapere quand’è il momento di accompagnare un cantante e quando invece lo si deve dirigere. Allo stesso modo bisogna sapere quando dirigere una scena, come nel secondo atto della Tosca, dove se si fa lo sbaglio di accompagnare i cantanti tutto il senso drammatico cade. Bisogna dirigere il dramma! […] Molti cantanti non sentono questo rapporto. Anche Plácido Domingo mantiene sempre il contatto con la fossa e con il direttore, se il direttore comanda”» (Hubbard). «La regia è fondamentale, ma a volte con i registi sono un rompiscatole. Ho avuto a che fare con geni come Strehler e Cacoyannis, con scenografi come Frigerio. Per un’Aida gli avevo detto: voglio vedere il Nilo e il deserto tutto il tempo. E lui me li ha creati. Ma non va sempre così. Ricordo un Fidelio con un regista spagnolo di cui ho rimosso il nome. Ero arrivato che lui aveva già deciso tutto. Quando si è alzato il sipario sono rimasto spiazzato: non riconoscevo neanche il protagonista, che invece di incontrare la moglie in carcere ci parlava al telefono. Ho riso tutto il tempo. Così, prima di accettare una produzione chiedo sempre di incontrare il regista» • «La mia generazione è sempre stata molto solidale e mai competitiva. Claudio Abbado era un fratello, e così Riccardo Muti e Lorin Maazel. Le liti tra direttori si sono fermate a chi ci ha cronologicamente preceduto». «Quali i direttori che hanno più suggestionato Mehta? “Non voglio fare nomi, ma forse colui che osservai di più fu Herbert von Karajan”» (Lenzi). «Chi sono i solisti migliori che ha diretto? […] “Ho diretto sia un Arthur Rubinstein ottantenne sia Pinchas Zukerman. Lui, ormai, è come un fratello”. Quale è la sala acusticamente migliore per dirigere? “Il Musikverein di Vienna. Detta ‘la scatola da scarpe’. Dopodiché, ci sono alcuni teatri moderni ottimi in Spagna e in Giappone. Lì, a volte copiano le sale occidentali più antiche in ogni particolare. E fanno bene. In Europa, invece, gli architetti sono troppo orgogliosi”» (Zincone). «Il cantante più grande? “Domingo. Il giorno che lo dissi ero con Pavarotti: un vero galantuomo, non fece alcun commento. Mi accolse a Modena con una torta”» (Cappelli) • «Se avesse avuto la possibilità di parlare a un grande compositore del passato, chi avrebbe voluto incontrare e cosa gli avrebbe chiesto? “Sicurissimamente Mozart, sicurissimamente Verdi. Avrei voluto sedermi per ore e ore con Wagner a fargli domande. Per il repertorio sinfonico ci sono molte cose di cui mi piacerebbe parlare con Mahler, nonostante abbia scritto molte istruzioni per il direttore nelle partiture”» (Hubbard). «Ha conosciuto Alma Mahler, la vedova del musicista. “Sì, nella sua casa di New York, con mobili Bauhaus che sembrava di stare a Vienna. Mi tenne la mano tutto il tempo, nell’altra aveva un ventaglio di Kokoschka. L’atmosfera era decisamente teatrale”» (Cappelli) • «Com’è cambiato, negli anni, il direttore Mehta? Il suo gesto sembra essere diventato più asciutto ed essenziale. “Da giovani si è più esuberanti, e oggi ho il vantaggio di lavorare con orchestre che mi capiscono al volo. Non c’è bisogno di esagerare gestualmente. Ma anche quand’ero giovane tenevo bene a mente la regola del rigore imposta da Swarowsky. Quanto all’interpretazione, il passare degli anni, com’è naturale, ci regala acquisizioni e approfondimenti”» (Bentivoglio). «“Mentre dirigo, non mi agito. […] Swarowsky mi ha insegnato a guidare l’orchestra col polso. Uso molto gli occhi”. Gli occhi? “Ci sono colleghi che tengono lo sguardo fisso sullo spartito. Bravissimi, eh, ma io non potrei. Conosco gli occhi di tutti i miei musicisti: serve anche per governare gli imprevisti”. Lei ha detto: “Il mio strumento è l’orchestra”. “Mi illudo che sia così. Comunico con i musicisti col corpo durante tutte le rappresentazioni”. Sa a memoria tutte le sinfonie o le opere che dirige? “La musica, sì. E nelle ore che precedono il concerto la rivivo, in testa. Anzi, è l’inconscio che la rivive, perché nel frattempo io magari faccio altro. Mi capita anche mentre gioco a backgammon con mia moglie Nancy”» (Zincone). «Le orchestre lavorano bene con Mehta perché lui ricorda sempre che sono formate da uomini e donne che chiedono a un direttore di condurre il loro talento verso il miglior risultato possibile. Non solo un dato tecnico, una convinzione culturale. Si tramandano aneddoti leggendari: l’impermeabilità a qualsiasi disturbo da fuso orario, così che può sbarcare da un aereo dopo un volo intercontinentale e lavorare subito in teatro sei ore; la capacità di dormire a comando: c’è chi giura di averlo visto assopito anche durante una coda al check-in. “Non so far altro che lavorare”, dice di sé» (Cappelletto) • «Direttore d’orchestra premiato da un consenso pluridecennale e internazionale, Mehta, per qualche strano miracolo, non condivide le bizze delle super-star, coltivando virtù quali la generosità e l’empatia» (Bentivoglio). «Non conosce le ripicche, le polemiche, non è geloso dei colleghi: “Cerco sempre, per le mie orchestre, altri grandi direttori: tengono alto il livello, così, quando ritorno io, non devo faticare”. […] Se gli capita di leggere una critica perplessa non si arrabbia, non protesta, non pensa a un complotto, […] ma si dispiace per non essere riuscito a farsi capire. Ha relazioni internazionali tali da poter chiudere una tournée, una sponsorizzazione, un’incisione discografica: l’attività di direttore principale non si esercita solo dal podio, la funzione richiede altre energie. Abita la musica senza angoscia e dunque non la trasmette. […] È indifeso […] di fronte alle amicizie. Non darebbe mai un dispiacere a Sophia Loren, e così Carlo Ponti jr. può oggi scrivere nel curriculum di aver diretto anche lui l’orchestra fiorentina» (Cappelletto). «Autentico e spontaneo. Signore dai modi gentili e allo stesso tempo uomo concreto che vuole sempre fare centro, raggiungere l’obiettivo che si è prefissato. Per questo non ama perdere tempo, anche tenendo conto del fatto che l’agenda organizzata in modo teutonico non gli offre grandi margini per variazioni improvvise di programma. Autoironico ed essenziale, ha in queste due caratteristiche una sorta di antidoto utile a evitare il rischio di perdersi nel labirinto dei capricci d’artista, come invece accade ad altri suoi colleghi. […] Mehta ama da sempre il basso profilo, anzi, bassissimo; eppure è stato scelto come uomo copertina dal settimanale Time e il New York Times lo ha menzionato 2.300 volte, come e più di un presidente americano. Critici e osservatori sono d’accordo nel presentarlo come un monumento vivente della storia dell’interpretazione musicale. […] Se gli si domanda “Maestro, ha un database di tutti i concerti fatti?”, lui risponde semplicemente con un “sì, è tutto qui”, indicandosi la fronte» (Franini). «“Suonare con Mehta è sempre una festa”, ha detto una volta Arthur Rubinstein. Mehta ha uno stile sfolgorante, un’adesione immediata alla pagina, dirige, sembra, con felicità. Un grandissimo interprete soprattutto del tardo Ottocento, del primo Novecento e dell’opera» (Violante). «È, a detta di Maurizio Pollini, uno dei pochi artisti che hanno saputo coniugare al rigore delle letture la sensibilità per la grande musica moderna» (Lenzi) • «Si dice che il pubblico è invecchiato, che non c’è ricambio, che dilaga la crisi. Ma anche quand’ero giovane ci si lamentava che i giovani non venissero ai concerti. Quelli che oggi sono maturi o vecchi dove stavano cinquant’anni fa? Non erano forse i giovani di allora? Io credo che non ci sia alcuna flessione d’interesse: semplicemente, la musica classica si fa capire e apprezzare di più da chi ha superato i quarant’anni. Crescendo si comprende meglio il senso e il peso della cultura, diventa più necessaria. Non a caso i musei non traboccano di ventenni. Però […] sono convinto che noi musicisti possiamo ancora parlare al cuore della gente, di ogni generazione» • «Se non fosse stato un direttore d’orchestra? “Non posso immaginare altra professione per me”. […] Che difetto umano si riconosce? “Sono così tanti… l’impazienza, innanzitutto. Per fortuna c’è mia moglie che mi controlla”. E, quanto alle qualità… “Sono un musicista onesto: rispetto le partiture, il credo e lo stile di un compositore”» (Franini). «L’errore più grande che ha fatto? “Quando ero un giovane direttore, ho un po’ maltrattato alcuni strumentisti”. Era arrogante? “No. Molto esigente. Non erano grandi musicisti, ma gli ho rovinato un periodo della vita, e mi dispiace”» (Zincone). «Non avevo ancora trent’anni ed ero mal consigliato a Los Angeles. Ma poi ho sempre chiesto scusa. L’armonia tra le persone è importante» (a Laura Dubini) • «Il sogno della mia vita è fare un Parsifal»: «stranamente, ho fatto tutto Wagner tranne quel titolo». «Quale […] musica […] porterei su un’isola deserta? La Messa in si minore di Bach, che non ho diretto mai: mi fa paura, così la studio per il resto della mia vita» • «“Ho una buona memoria, ricordo tutti i concerti che ho fatto e conservo nel cuore ogni momento della mia avventura musicale. Ma non è mia abitudine guardare al passato. Preferisco guardare avanti, al futuro. Spinto sempre a fare quello che faccio dall’amore per la musica”. […] Non vorrebbe concedersi un po’ di risposo? “No, finché troverò soddisfazione in quello che faccio”» (Dolfini). «A noi direttori piace morire sul podio».