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 2021  marzo 05 Venerdì calendario

Biografia di Dick Fosbury

Dick Fosbury, (Richard Douglas Fosbury), nato a Portland (Oregon, Stati Uniti) il 6 marzo 1947 (74 anni). Atleta. Altista. Vincitore di una medaglia d’oro ai Giochi olimpici del 1968 (2,24 metri). Considerato il perfezionatore – nonché il primo divulgatore – della tecnica del salto dorsale, detto pertanto «Fosbury flop». Ex presidente della World Olympians Association (2007-2011). Ingegnere civile. Cofondatore ed ex presidente (2007-2011) della società di consulenza ingegneristica Galena Engineering. «Il Copernico del salto in alto» (Massimo Fabbricini). «All’inizio mi presero tutti per pazzo, ma poi…» • «C’è chi si è divertito […] a cercare il nome del primo giornalista che si rese conto di essere davanti a una probabile rivoluzione. Tutti gli indizi portano a un anonimo redattore della Mail Tribune di Medford, che nel ’66 tirava poco più di ventimila copie. Scrisse meraviglie, ma poi, siccome temette di aver esagerato, concluse così: “Chiamiamolo ‘Fosbury flop’”. Dove la parola “flop” aveva un doppio significato: salto (tonfo) e fallimento. In realtà fu il contrario: una rivoluzione della cultura sportiva» (Enrico Sisti) • Primo di tre figli, da piccolo era «un ragazzino magro e insicuro, che il padre, concessionario di una ditta di autotrasporti, e la mamma, segretaria, avevano obbligato a fare atletica, “per mettere un po’ di muscoli su quelle gambette scheletriche”» (Daniele Azzolini). A undici anni «aveva deciso di buttarsi sul salto in alto. Giocando da bambino si divertiva a saltare le staccionate facendo la forbice. Vide alcuni fare altrettanto in pedana. A scuola gli fecero capire che poteva abbandonare le staccionate per qualcosa di più redditizio: “Saltava con una naturalezza impressionante”, dirà il suo primo coach. […] Sarebbe bastata una leggera rettifica, un aggiornamento nel modo di scavalcare l’asticella, e Dick avrebbe cominciato a crescere. Sarebbe diventato un atleta vero» (Sisti). «Il 9 settembre del 1961 Dick sta passeggiando in bicicletta a qualche metro di distanza da suo fratello Greg. Non avrebbe mai dovuto perderlo di vista. Dick stava per iniziare il primo anno alle superiori, Greg aveva compiuto dieci anni poche settimane prima. La famiglia s’era da poco trasferita nella casa di Roberts Road. Siamo nei dintorni di Medford, Oregon. […] Il “peggior saltatore di tutti i tempi”, come lo definivano a scuola, cresceva fantasticando di un mondo perfetto. In quel tardo pomeriggio di sabato in cui papà Doug e mamma Helen erano andati a ballare e i due ragazzi avevano cominciato a gironzolare, […] il sole non era ancora sparito dietro l’orizzonte. La luce era ancora dappertutto, tranne che negli occhi dell’automobilista che travolse Greg, uccidendolo. L’uomo aveva bevuto, aveva iniziato al mattino e non aveva ancora smesso. Dick si salvò per miracolo. […] Niente sarebbe più stato come prima. Niente. Un anno dopo la famiglia Fosbury si sfaldò. I genitori di Dick divorziarono. Al ragazzo si annebbiarono le idee. […] Dick continuava ad andare al campo d’allenamento tutti i giorni augurandosi di sorprendere qualcuno con i suoi salti da scimmia ammaestrata. Ma la felicità aveva ormai cambiato indirizzo. […] Anche anni dopo, l’unico posto in cui trovava pace era la pedana del salto in alto. Eppure non sfondava. Altri continuavano a salire più di lui. Aveva iniziato con la “sforbiciata”. Gli venne consigliato di adottare un altro stile, il ventrale, complicatissimo malgrado le apparenze. Dick elaborò una tecnica che combinava i due approcci e venne fuori un mezzo pasticcio. Intanto il tempo passava. Si faceva grandicello. […] Apparvero i due metri, mito di un’intera generazione di specialisti. E lui sempre dietro» (Sisti). «Cocciuto com’era, però, e refrattario agli insegnamenti pratici, Dick non si fece convincere a cambiare stile (lo pregavano di dedicarsi alla tecnica ventrale, quella più diffusa), e cercò altre strade. Tentò con i cento metri. Fra i suoi miti entrò in pianta stabile un tedesco bianco che correva più veloce della luce: Armin Hary. Esile, filiforme, robusto, Dick non ebbe fortuna neppure con la velocità: a stento scendeva sotto gli undici secondi» (Sisti). «Infine, la folgorazione. “Ancora qui, ragazzo? Spìcciati, ché oggi non c’è nessuno, e, sai com’è, vorrei tanto chiudere prima…”. Il custode del campo quella mattina aveva la luna di traverso. “Pioviccicava”. Dick andò in pedana pensando che doveva osare, sperimentare, andare verso il nuovo: “La notte prima ero rimasto sveglio a immaginare una pazzia”. Un salto rovesciato. Aveva intuito che perfezionando il vecchio stile a forbice la sua schiena si appiattiva sull’asticella. E, più si appiattiva, più andava in alto. Allora, pensò, facciamo un movimento che stabilizzi questo “appiattimento”. Era la negazione teorica del salto ventrale classico con cui i grandi campioni superavano abbondantemente i due metri. […] Dick aveva il cuore in tempesta. Scoprì che la morte di Greg era diventata benzina pura ed effettuò un balzo verso la luce. “Il salto è all’indietro, certo, però è pura avanguardia”, avrebbero scritto un giorno, ma molto più tardi» (Sisti). «Dick provò. Rincorsa circolare, sotto l’asticella una torsione in senso orario del tronco per alzarsi e oltrepassare l’asticella con la schiena, piegando la testa in basso, guardando qualunque cosa, i sacchi, il cielo, il mondo, tutto meno che l’asticella. Ci prova e ci riprova. Va oltre 1,68, che era il suo record di sforbiciata. Per due anni chi lo vede dice: “Ma dove pensi di andare, con quello sgorbio volante?”. Dovevano passare mesi e mesi prima che qualcuno capisse» (Sisti). «Dick ha 16 anni quando l’allenatore di atletica del suo liceo gli ordina di rinunciare a quello strano stile per ritornare allo scavalcamento ventrale. “Ero l’unico a farlo e mi difendevo piuttosto bene, ma il coach me ne spiegò il limite. Lo stile dorsale costringeva ad alzare il baricentro troppo in alto rispetto all’asticella”. Fosbury obbedisce… e peggiora. Al culmine della frustrazione, decide, mentre era a bordo del bus che lo portava a una competizione, di fare solo di testa sua. “Fa’ come ti pare”, sospira l’allenatore. Infatti. Dick prende la rincorsa, si presenta di spalle all’asticella e la supera inarcando la schiena. Quel giorno migliora il suo record personale di 15 centimetri e ripete la performance la settimana successiva. Il coach non ci capisce più niente. La tecnica, mai vista prima, attira l’attenzione di alcuni fotografi, che lo definiscono come “il saltatore in alto più pigro del mondo”. Un po’ infastidito dai giornalisti locali, che non trovano parole adatte per il suo stile, Dick finisce per battezzarlo “Fosbury flop”. “Un po’ per il gusto dell’allitterazione, un po’ per non prendermi troppo sul serio – spiega –. E anche perché un giornalista aveva descritto i miei salti come quelli di un pesce fuor d’acqua agonizzante”. All’ultimo anno di liceo, il suo “flop” lo porta a metri 2,01 e gli frutta una borsa di studio universitaria. Nelle facoltà americane lo sport è un affare di Stato. Berny Wagner, l’allenatore dell’Oregon State University, uno che non ama gli eccessi di protagonismo, lo interroga per ore sul suo approccio barocco al salto in alto. Insospettito ma anche affascinato dall’evidenza dei risultati, propone a Fosbury un compromesso. “Si è dimostrato molto intelligente – riconosce l’ex campione olimpico –. Wagner si dedicava a farmi crescere nello scavalcamento ventrale, autorizzandomi a saltare come preferivo in competizione. Contemporaneamente studiava i video dei miei salti di schiena per cercare di migliorarli”. “Fai come pensi e dimentica tutto il resto”, conclude Wagner dopo qualche mese, sempre più convinto dai risultati e dalla caparbietà dell’atleta» (Patricia Jolly). «Da ventralista non valevo niente: solo questo servì a risolvere le sue perplessità». «“Fu nell’aprile del ’66 che per la prima volta smisero di prendermi per i fondelli, dopo che ebbi vinto i campionati juniores della Camera di commercio del ’65”. Per due anni quel suo strambo avvitamento aereo era stato l’attrazione del campo di allenamento: “Bravo, divertente, bello da vedersi, ma fuori da un circo non combinerai mai nulla”. Nel ’66 però l’aria era cambiata. “In realtà non capii mai perché. So solo che venivano da me, mi facevano domande, poi si allontanavano ma restavano a guardarmi. Era tutto un po’ ridicolo e io ogni tanto perdevo la concentrazione, cosa che mi faceva imbestialire”. Un tecnico federale filmò la stramberia del ragazzo dell’Oregon» (Sisti). «La carriera di Fosbury sulle pedane rischia tuttavia di terminare presto. Studente poco assiduo, se la vede brutta con l’amministrazione universitaria, che minaccia di espellerlo, ma il peggio deve ancora arrivare. Per inviare rinforzi in Vietnam, il governo federale non esita a privare i peggiori allievi del rinvio di due anni consentito agli studenti. Alla fine del 1967, l’allegro saltatore è chiamato dalle autorità militari per la visita medica. Non andrà oltre. Durante il colloquio, Dick si ricorda di un incidente occorso anni addietro, un giorno che diede una mano in campagna. Circospetti, ma poco propensi a imporre al governo il pagamento di altre pensioni di invalidità, i medici gli ordinano un’infinita serie di esami supplementari. Una radiografia rivela una provvidenziale e insospettata malformazione congenita della colonna vertebrale. Dick viene riformato alla metà del giugno 1968. Appena in tempo per partecipare alle selezioni olimpiche in vista dei Giochi di Città del Messico. Per queste prime Olimpiadi ad alta quota (2.300 metri di altitudine), gli americani organizzano due stage di allenamento piuttosto duri. Un primo a Los Angeles, a beneficio del pubblico, un altro a Lake Tahoe. Dopo dieci settimane di pura fatica, Dick Fosbury figura, come ama dire lui, nella “top 3” dei saltatori, con Edward Caruthers e Reynaldo Brown» (Jolly). «Alla cerimonia inaugurale dei Giochi nemmeno si palesa: il giorno prima raggiunge infatti l’antica città di Teotihuacan a bordo del minibus Volkswagen del compagno d’università Gary Stenlund. Nella cornice di uno dei siti archeologici più suggestivi al mondo i due inseparabili amici partecipano alla memorabile festa per il passaggio della torcia olimpica e trascorrono la notte ai piedi della Piramide della Luna in compagnia delle nuotatrici Cynthia Goyette e Donna de Varona. Fosbury confesserà di non ricordare nulla di quella notte» (Paolo Pegoraro). «20 ottobre 1968. Sulla pista dove solo due giorni prima Beamon ha preso il volo cambiando per sempre la storia del salto in lungo c’è un ragazzo alto e filiforme. Pelle diafana e ciuffo biondiccio che sobbalza ad ogni passo. Richard, Dick per gli amici, Fosbury. […] In terra messicana Fosbury arriva come un carneade e senza nessun favore dei pronostici. […] “Nel vedergli prendere per la prima volta quella strana rincorsa, pensavamo volesse fare il pagliaccio – dirà Giancarlo Dotto, in Messico come inviato –, che pensasse di giocarsi la carta dello spettacolo, visto che non poteva avere ambizioni da medaglia”. La finale intanto è arrivata all’ottavo salto. A giocarsi l’oro sono rimasti in tre: il sovietico Valentin Gavrilov, lo statunitense Ed Caruthers e il nostro lungagnone dall’Oregon. Fosbury ha il numero 272 e due scarpe di colore diverso. “Non lo feci per marketing: semplicemente, la destra di quel colore mi dava una spinta superiore rispetto a qualsiasi altra calzatura”, dirà. A 2 metri e 22 Gavrilov esce di scena: si sale a 2 e 24. Caruthers e Fosbury sbagliano entrambi i loro primi due tentativi: ci si gioca tutto col terzo. Caruthers guarda al terreno e fa cadere l’asticella. Fosbury mentre salta fissa il cielo, atterra sul materasso, l’asticella non si muove, mani sul viso, un’esultanza tutto sommato composta. È oro» (Matteo Dani). «“Mi fermavano nei ristoranti: ‘Ehi, Dick, ti ho visto in televisione!’. Ma avevo ancora la sensazione che mi trattassero come un fenomeno da baraccone”. Nel dicembre ’68, davanti al Madison Square Garden, a New York, campeggiava un manifesto con su scritto: “Venite ad ammirare il campione olimpico Dick Fosbury”. “All’epoca l’opinione pubblica si stava ponendo due interrogativi che mi facevano sorridere entrambi, perché non li ritenevo appropriati. Il primo era: il salto alla Fosbury rivoluzionerà il salto in alto? Il secondo era: e se questa tecnica facesse rompere l’osso del collo a migliaia di ragazzi americani?”. La rivoluzione ci fu, le ossa del collo sono rimaste intatte. Il “salto alla Fosbury” ha soppiantato il salto ventrale come l’elettricità soppiantò le candele» (Sisti). Ciò anche grazie a «un fondamentale alleato: […] il materasso morbido, che in quegli anni aveva soppiantato sabbia e trucioli di legno, un’“accoglienza” che sarebbe stata insopportabile per gli atterraggi del nuovo stile» (Valerio Piccioni). «Quattro anni più tardi, a Monaco, vinse il sovietico Tarmak, un ventralista. Fu quella l’ultima vittoria olimpica per lo stile che aveva portato Valerij Brumel’ a 2,28, ma per qualche anno ancora certi specialisti dell’Est, come il tedesco Beilschmidt e il sovietico Jaščenko, continuarono a mietere record. Ormai, però, erano loro le mosche bianche. Non senza qualche polemica, anche le scuole atletiche dell’Unione Sovietica avevano finito per accettare il nuovo stile. Il “gambero” era diventato il modello vincente. E, senza neanche immaginarlo, il ragazzo timido di Portland aveva compiuto la sua trasformazione. Richard Douglas era diventato “il Fosbury”, il salto che rivoluzionò l’atletica leggera» (Azzolini). Nel frattempo, tuttavia, «espulso dalla sua facoltà poco dopo i Giochi olimpici per mancanza di risultati, Dick, segno dei tempi, si smarrisce “sulla via della sociologia, della filosofia e delle religioni orientali”. L’università lo riammette al corso d’Ingegneria civile in cambio della sua rinuncia allo sport d’élite. Diplomatosi nel marzo del 1972, non ha il tempo di ritrovare una condizione accettabile come atleta e manca la qualificazione alle Olimpiadi di Monaco 1972» (Jolly). «Strano. Pensavo di durare di più, e invece vincere le Olimpiadi mi esaurì totalmente. Provai a qualificarmi per le Olimpiadi di Monaco, nel ’72, ma ero già spento». «Io ho smesso di saltare nel ’73. Mi imbarcai per sette od otto gare con il circo dei professionisti. Cinquecento dollari a chi vinceva… una brutta esperienza. Scappai quasi, perché non c’ero con il cuore…». «Oggi vive senza clamori nell’Idaho, lontano dalle metropoli e dalla fama. Dice che la sua vittoria più grande non è stata quella di Città del Messico, ma la sfida contro la paura quando gli fu diagnosticato un tumore a una vertebra. Ha superato quell’asticella e potuto rispondere all’invito del Messico per ricordare di persona i 50 anni dalla sua impresa. Ha rivolto a un pensiero agli studenti vittime della repressione poliziesca prima dell’Olimpiade: “Sono morti per difendere i loro diritti umani”. E ha espresso tutta la sua riconoscenza e nostalgia per quella generazione di “atleti puliti” che riempì di record e di emozioni quei Giochi» (Valerio Piccioni) • Sposato, tre figli (due figlie adottive e un figlio proprio) • «“Adesso direte: eccolo là, per forza, studiava ingegneria civile, medicina, e così non ha dovuto faticare troppo a inventarsi un altro modo di saltare. Ma non è così. Non ero niente. Né un tuffatore, né un acrobata”. […] Quello che Dick fece fu molto più semplice e più folle: intravide “una fessura piena di luce crepitante”. Si infilò in quella fessura, da cui sarebbe passata tutta la sua vita, un centimetro alla volta» (Sisti) • «Se il “flop” ha rapidamente conquistato tutti i saltatori del mondo, è perché è “naturale”, assicura. “Con o senza di me, presto o tardi si sarebbe comunque affermato”. Una foto ritrovata da un giornalista alla fine degli anni ’60 gli dà ragione: Bruce Quande, un anonimo saltatore originario del Montana, utilizzò la tecnica dorsale nel 1963 in una competizione scolastica. Fosbury racconta di aver visto nel 1965 una canadese di 12 anni, Deborah Brill (sarebbe poi stata 5ª ai Giochi olimpici di Los Angeles nel 1984), “saltare spontaneamente l’asticella di schiena” nel corso di un meeting di atletica a Vancouver. “Facendo scoprire questo stile al mondo ai Giochi di Città del Messico – aggiunge Fosbury –, ho semplicemente avuto il privilegio di dargli il mio nome”, prima di scomparire dalla ribalta» (Jolly) • «Forse non lo immagina, ma lei è stato l’uomo più importante della mia vita» (Sara Simeoni a Dick Fosbury).