10 marzo 2021
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Biografia di Rupert Murdoch
Rupert Murdoch,(Keith Rupert Murdoch), nato a Melbourne (Australia) l’11 marzo 1931 (90 anni). Imprenditore. Editore. Fondatore (15 marzo 1980) ed ex presidente e amministratore delegato di News Corporation, scissa il 28 giugno 2013 in News Corp (comprendente, tra l’altro, The Wall Street Journal, New York Post, The Sun, The Times e HarperCollins), di cui Murdoch è presidente esecutivo (co-presidente il figlio Lachlan Murdoch), e 21st Century Fox, a propria volta chiusa il 20 marzo 2019 con la vendita della maggior parte delle società del conglomerato (tra cui 20th Century Fox e National Geographic Partners) a The Walt Disney Company (per 71,3 miliardi di dollari), previa vendita delle sue quote di Sky a Comcast (4 ottobre 2018; per 39 miliardi di dollari) e creazione (1° gennaio 2019) di Fox Corporation (comprendente, tra l’altro, Fox Broadcasting Company e Fox News), di cui Murdoch è presidente (presidente esecutivo il figlio Lachlan Murdoch). Insieme alla sua famiglia, con un patrimonio netto di 14,9 miliardi di dollari, è al 68° posto della classifica dei più ricchi del mondo stilata dalla rivista Forbes (aggiornata al 7 aprile 2020). «Il Citizen Kane del nostro tempo» (Federico Rampini) • «Il nonno paterno di Rupert Murdoch era un pastore presbiteriano mezzo scozzese e mezzo australiano; suo nonno materno era un giocatore d’azzardo australiano d’origine irlandese, e un gran spendaccione. Rupert Murdoch ha ereditato sia l’etica del lavoro calvinista sia – soprattutto – il gusto del rischio» (Richard Newbury). «L’ambiente in cui Rupert Murdoch è cresciuto è quello dell’alta borghesia australiana. Douglas MacArthur, comandante delle forze armate statunitensi nel Pacifico, usava la casa di campagna della famiglia Murdoch come suo quartier generale» (Newbury). «Il padre, Sir Keith Murdoch, è un noto corrispondente di guerra e nel 1923 fonda la News Limited, che in pochi anni ne farà uno dei principali editori nazionali» (Fabrizio Maronta). «Figlio d’arte, Rupert respira da subito l’odore delle tipografie e della carta stampata. Fin da ragazzo frequenta l’Herald, giornale inventato e posseduto da suo padre, tanto che sua madre Elisabeth lo ricorda preferire, alle normali occupazioni di adolescente, la lettura critica della stampa, con il relativo commento di tutti gli aspetti, dal contenuto degli articoli alla veste tipografica. L’Herald era un giornale popolare che vendeva molto grazie al binomio informazione-spettacolo, sempre in bilico sul filo del buon gusto (papà Murdoch è d’altronde uno dei pionieri dei concorsi di bellezza femminili, e questo la dice lunga sul tipo di informazione da lui preferita), e Rupert impara tanto e presto» (Glauco Benigni). «Rupert andò alla Geelong Grammar School (più tardi frequentata anche dal principe Carlo), dove a diciassette anni pubblicava il giornale scolastico. Prima di andare a Oxford lavorò come reporter per il giornale di suo padre e per la Birmingham Gazette, dove […] scrisse al proprietario consigliandogli di licenziare il direttore. Al Worcester College, Oxford, Murdoch avrebbe dovuto studiare politica, filosofia ed economia, ma pare si dedicasse soprattutto allo studio del bollettino delle corse. Quando anni dopo donò al college una biblioteca nuova, il suo “tutor” sostenne che Rupert non aveva mai nemmeno messo piede in quella vecchia. “Non è vero”, ribatté Murdoch, “ci andavo sempre a leggere lo Sporting Life” (il quotidiano delle corse dei cavalli)» (Newbury). «Fra gli studi e le corse dei cavalli trova anche il tempo di frequentare la redazione del Daily Express, un quotidiano popolare di rispettabile tiratura diretto da Lord Beaverbrook, vecchio amico del padre, che Murdoch cita sempre come uno dei suoi maestri. Ricorderà in seguito il Gran Mogol: “Al Daily doveva esserci ogni giorno un titolo a tutta pagina. Non contava che fosse una notizia importante. Il lettore doveva sentire che lo era”. Rupert ascolta, apprende, memorizza, ma è inquieto e insoddisfatto. Sogni di grandezza si presentano confusi nella sua mente. Il disagio inoltre è accresciuto dall’atteggiamento un po’ razzista dei suoi coetanei nei confronti degli aussie, un appellativo non sempre bonario che gli inglesi usano per definire gli australiani. Comincia così a comportarsi in modo provocatorio, si dà arie da sovversivo: compra un busto di Lenin e lo mette in bella mostra nella sua stanza al college, tanto da meritarsi il soprannome di “Rupert il Rosso”. […] Per Murdoch si tratta semplicemente di uno sberleffo all’establishment parruccone dei supponenti “cugini”» (Benigni). «A Oxford […] diviene un forte sostenitore del Partito laburista» (Maronta). «Quando cercò di farsi eleggere capo della cellula laburista universitaria, le cose precipitarono: venne squalificato per aver distribuito volantini proibiti in quanto violavano le austere regole elettorali del tempo, contrarie a ogni forma di autopromozione» (Riccardo Orizio). «In quel periodo sovrintende alla Oxford Student Publications Limited, che pubblica tra l’altro il quotidiano studentesco di ateneo, Cherwell. Dopo la laurea consegue un master e poi lavora come vicedirettore al Daily Express per due anni» (Maronta). «Nel 1952 Rupert deve tornare precipitosamente in Australia: sir Keith Murdoch è passato a miglior vita. […] L’uomo […] viene meno proprio nel momento in cui stava per consolidare la sua posizione. Avrebbe voluto lasciare ai figli una cospicua eredità, ma il giovane Rupert deve accontentarsi di spartire con sua sorella le poche azioni del Melbourne Herald e la proprietà di un minuscolo giornale di provincia, l’Adelaide News. Tra le carte paterne un testamento, a mo’ di oracolo, recitava: “Spero che mio figlio Rupert possa avere l’opportunità di dedicarsi totalmente, fin dalla sua giovinezza, alla causa dell’informazione, affinché ricopra un giorno importanti responsabilità in questo campo”. […] Non appena entrato in possesso dell’Adelaide News, Murdoch si trova in guerra con altre testate. Subisce esplicite minacce: “O ce lo vendi o ti mettiamo fuori dagli affari”. “Ho fatto allora una cosa che stabilì una volta per tutte lo stile della mia società”, ricorderà Murdoch in seguito: “ho rotto ogni regola dell’establishment e ho pubblicato l’offerta fattami, sulla prima pagina del giornale, sotto un titolo che recitava ‘VOGLIONO IL MONOPOLIO’. E ho incluso anche la fotografia della lettera confidenziale che avevano inviato a mia madre”. Murdoch non verrà mai più invitato nei club esclusivi di Adelaide, ma il giornale è salvo. […] Il suo primo passo è quello di occupare il posto di suo padre all’Herald e contemporaneamente trasformare l’Adelaide News in un’agenzia di stampa per sperimentare le sue idee in fatto di notizie e scelte editoriali. Da subito inonda i giornali australiani con servizi caratterizzati da un forte sensazionalismo, infarciti di scandali e di storie nere; gonfia piccole notizie o addirittura le inventa. Gli addetti ai lavori rimangono perplessi, ma sono costretti a riconoscere che la strada imboccata dal giovane Murdoch fa impennare le vendite e porta lauti profitti, anche perché l’irriverente editore sa ridurre al minimo i costi di gestione con ristrutturazioni selvagge – che tuttavia seminano il panico fra i suoi dipendenti e collaboratori» (Benigni). «Poi partono le prime acquisizioni: nel 1956 il Sunday Times di Perth, poi giornali provinciali e di quartiere nel New South Wales, nel Queensland, nel Victoria e nel Northern Territory, incluso il quotidiano della sera di Sidney, il Daily Mirror (comprato nel 1960). Anche lo stile editoriale non tarda a manifestarsi: Murdoch si mostra da subito un editore “interventista”, che non esita a influire apertamente sulla linea dei giornali che possiede» (Maronta). «Con titoli come “Lebbroso stupra una vergine e dà vita a un mostro”, il mondo ebbe modo di conoscere il giornalismo tabloid di Murdoch, che dava ai suoi lettori ciò che volevano – sesso, sport e scandali. E così continuò» (Newbury). «La prima sortita fuori dall’Australia data 1964, con l’acquisizione del neozelandese The Dominion; quello stesso anno Murdoch lancia The Australian, primo quotidiano nazionale australiano, mentre nel 1972 acquista dal magnate dei media Sir Frank Parker il Daily Telegraph di Sidney» (Maronta). «Nel frattempo Murdoch […] ha ottenuto, in patria, una licenza televisiva nazionale, per una stazione chiamata Channel 9. Non è la prima volta che il nostro aspirante tycoon si interessa concretamente al mezzo televisivo: qualche anno prima aveva già ottenuto due licenze regionali per la Southern Television e aveva tentato di acquisire il network nazionale Channel 10, incontrando però il veto del primo ministro, Robert Gordon Menzies. Stavolta ce la fa, e comincia ad alimentare Channel 9 con programmi di importazione dagli Usa. In ogni caso la sua attenzione è ancora quasi interamente assorbita dall’adorata carta stampata» (Benigni). «Proprietario di media in Australia, Nuova Zelanda e Hong Kong, nel 1968 Murdoch partì alla conquista dell’Inghilterra, dove comprò The News of the World, giornale popolare della domenica che vendeva sei milioni di copie, e il vecchio quotidiano laburista The Sun, le cui vendite erano crollate a 650.000 copie, recuperandolo per 50.000 sterline dal Daily Mirror (giornale da due milioni di copie), che “aveva voltato le spalle alla classe operaia. Giovani, sfacciati e disinibiti, ci siamo dati da fare”. Le vendite salirono immediatamente a un milione e mezzo di copie, poi quattro, anche grazie alle ragazze in topless di pagina 3» (Newbury). «L’acquisizione di News of The World fa di Murdoch un personaggio nuovo nella vita pubblica britannica, ma è con il Sun che egli diviene un attore di peso sulla scena mediatica e politica del Regno Unito. Lo strabiliante successo di questo tabloid conferisce a Murdoch una consistente base di potere e lo rende, agli occhi dell’establishment politico-culturale, una sorta di bestia nera. Il “Dirty Digger” (epiteto dispregiativo affibbiatogli dal settimanale satirico Private Eye e riferito originariamente ai soldati australiani mandati a morire dai loro ufficiali britannici a Gallipoli nel 1915-16) è visto come una figura losca e pericolosa, genio commerciale uscito dal nulla e assurto in breve tempo a deus ex machina dell’implacabile stampa scandalistica, che sotto la sua direzione diviene ancor più cinica e populista» (Maronta). «Il Sun era contro l’apartheid, l’establishment e la Guerra del Vietnam, ma era dalla parte della società permissiva, favorevole al Partito laburista e ai minatori. Tuttavia, nel 1979 sostenne la signora Thatcher: “Questa volta votate tory. È il solo modo per mettere fine allo sfascio”. “Red Rupert” considerava la “sua” Margaret una radicale anti-establishment capace di affrontare il “racket protezionista in quella gabbia di matti”, cioè i sindacati della stampa, che tenevano in scacco i suoi e altri giornali» (Newbury). «Nel 1981 Murdoch compie l’agognato salto di qualità, acquisendo dall’editore canadese Thompson il Times e il suo domenicale, il Sunday Times. […] La trasformazione è discutibile sia sotto il profilo contenutistico che metodologico: la proverbiale interferenza di Murdoch nella linea editoriale assume i contorni di una vera e propria crociata contro il “vecchio” modo di fare il giornale. Emblematico l’episodio dei presunti diari di Hitler: scovati ad Amburgo, sono certificati come autentici – a quanto pare senza nemmeno sfogliarli – da Hugh Trevor-Roper, rispettato esperto e consigliere editoriale del Times, spedito appositamente in Germania. Murdoch ne acquista i diritti e decide di pubblicarli a puntate sul Sunday Times, dove un reporter, Phillip Knightley, fiuta il falso. Avvisato a rotative calde, un furibondo Murdoch avrebbe detto testualmente: “Che Trevor si fotta: pubblicate!”. Il che è puntualmente avvenuto. Come già per il Sun, di indiscutibile ci sono invece i numeri. […] Ed è sui numeri, oltre che sulla spregiudicatezza finanziaria, che si gioca il successo di News Corp, fondata nel 1980 come evoluzione della paterna News Limited. All’inizio degli anni Ottanta, le ambizioni di Murdoch risultano infatti decisamente superiori alle sue risorse economiche. La soluzione a questo problema è duplice: il Sun e i debiti. Con le vendite e la raccolta pubblicitaria, il tabloid genera un flusso costante di introiti, che consente a Murdoch non solo di finanziare altre acquisizioni, ma anche e soprattutto di indebitarsi pesantemente con le banche, per espandere il proprio impero editoriale» (Maronta). «Nel 1986 il magnate introduce gli ultimi ritrovati della tecnologia nei suoi impianti australiani, britannici e statunitensi, che vengono automatizzati e informatizzati, con conseguente riduzione degli addetti. In Inghilterra la mossa suscita l’agguerrita opposizione dei forti sindacati della stampa e il conseguente scontro tra questi e l’editore, innescato dal licenziamento di 6 mila dipendenti entrati in sciopero. In questo frangente Murdoch è svelto a cogliere il mutato clima politico connesso all’avvento di Reagan e Thatcher, e nel 1987 riesce ad avere la meglio sui sindacati, dopo oltre un anno di sciopero. La mossa vincente consiste nel creare ex novo un moderno stabilimento in un magazzino dimesso a Wapping, sul Tamigi. Murdoch gioca duro: le redazioni sono trasferite nell’arco di una notte; alle maestranze in sciopero, sostituite da neoassunti non sindacalizzati, è negato l’accesso alla nuova struttura, isolata e fisicamente blindata contro ogni intrusione. Alla fine, i sindacati cedono, e nel 1987 i licenziati sono liquidati con un indennizzo complessivo di 60 milioni di sterline» (Maronta). «Rimaneva ancora un terzo continente da conquistare. Per gli australiani della generazione di Sir Keith e di Dame Elisabeth Murdoch, l’Inghilterra era “la patria”. Per Rupert Murdoch, il loro figlio, la patria spirituale era l’America. […] Murdoch entrò sul mercato americano come aveva sempre fatto: di lato, e come se fosse sicuramente destinato all’insuccesso. San Antonio nella “sunbelt” del Texas sarebbe potuta essere culturalmente situata nell’entroterra australiano. […] Murdoch acquistò coi proventi del Sun e del News of the World tre giornali per 20 milioni di dollari per farne una testa di ponte per allargare anche agli Stati Uniti il suo impero delle comunicazioni in lingua inglese. Fedele alla sua solita strategia, Murdoch scelse i giornali più deboli della zona e attaccò la concorrenza a furia di promozione massiccia e di sensazionalismo: “Le api assassine si spostano a nord” oppure “L’esercito avvelena 350 cuccioli” erano i titoli dei suoi giornali. I suoi giornalisti inseguivano le auto della polizia e le ambulanze sui luoghi degli incidenti e dei delitti. Anche stavolta Murdoch riuscì a battere la concorrenza, ma non ebbe un successo così spettacoloso come in Inghilterra. Lanciò pure un giornale a diffusione nazionale, un tabloid da supermarket, tanto per sfidare il National Enquirer: gli ci volle tempo per mettere in piedi lo Star, ma nel 1987 riuscì a rivenderlo per 400 milioni di dollari» (Newbury). «Nel 1976 Murdoch comprò un giornale nella sua città preferita, quella che sarebbe diventata casa sua, New York. Grazie al suo fascino, Murdoch convinse la settantatreenne Dorothy Schiff a vendergli il New York Post, giornale radicale di sinistra, il più vecchio giornale americano. Murdoch dichiarò che “il New York Post avrebbe continuato a servire New York e i newyorkesi e avrebbe mantenuto la sua attuale linea politica e le sue tradizioni”. Tuttavia licenziò il 25 per cento del personale e si rivolse ai “colletti blu”, quelli che sarebbero stati i futuri elettori di Reagan, e che erano stati abbandonati quando i giornali avevano dato la scalata alla parte alta del mercato. “Una stampa che non riesce a interessare l’intera comunità finirà inevitabilmente per diventare l’organo aziendale dell’élite”, diceva Murdoch. […] Ai giornalisti Murdoch senza tanti complimenti disse: “Posso trovare gente meglio di voi nel giro di una settimana. Questo non è il vostro giornale. È il mio giornale”. […] Ma il Post non fece mai molti soldi» (Newbury). «Fin da subito emergono i problemi. Il “modello Murdoch” dei tabloid (aggressività, ragazze, sport, umorismo cameratesco) è tagliato su un lettorato prevalentemente maschile, il che limita fortemente le vendite nel più variegato e trasversale mercato americano. La stampa scandalistica non manca negli Usa, ma la sua fisionomia è differente: i tabloid americani sono un ibrido tra un giornale scandalistico e un settimanale generalista, in cui alle storie scabrose si affiancano ricette di cucina, fantascienza, rubriche di viaggio. Diversa è anche la gerarchia sociale degli editori, come Murdoch scoprirà a sue spese: […] negli Usa la qualità dei giornali definisce non solo quella dei lettori, ma anche quella degli editori. È da questa consapevolezza che scaturisce la ventennale “caccia” al Wall Street Journal (testata prestigiosa ma non determinante in termine di vendite: 200 mila copie la tiratura al momento dell’acquisizione), strappato nel 2007 alla famiglia Bancroft, insieme alla holding Dow Jones di cui fa parte, per 5 miliardi di dollari» (Maronta). «I giornali inglesi comunque gli permettevano di far fronte alle perdite e Murdoch continuò nel 1983 a sottoporre al “trattamento Murdoch” i giornali di Boston e Chicago. A Boston pestò i piedi a Ted Kennedy, che era esattamente il tipo di liberal d’alto ceto che Murdoch detestava. […] Il 4 settembre 1985 questo ricchissimo e patriottico australiano dovette diventare cittadino americano. “Non intendo certo spezzare i miei legami con l’Australia. Continuo a nutrire gli stessi sentimenti ed emozioni nei confronti dell’Australia. Devo cambiare colore del mio passaporto? E va bene, così sia. Non ne faccio certo una tragedia, come in genere fa la gente”» (Newbury). «Quello televisivo […] è un business fondamentale per News Corp. […] Le tv sono delle macchine da soldi: in Australia, negli anni Novanta la sua Foxtel genera da sola più profitti di tutti i quotidiani messi assieme (il che gli consente di acquisirne altri), mentre negli Stati Uniti i giornali di secondo ordine in suo possesso generano introiti modesti e hanno una diffusione meramente locale. In Gran Bretagna, viceversa, negli anni Ottanta la neonata Sky Television (primo network satellitare di casa Murdoch) registra forti perdite, solo in parte compensate dai guadagni dei tabloid. La risposta consiste, come sempre, nel rilanciare: sfruttando gli stretti rapporti con il governo […] e il conseguente scavalcamento dei supervisori antitrust, nel 1990 Murdoch realizza una fusione con il suo principale concorrente televisivo, la British Satellite Broadcasting. La nuova piattaforma BSkyB diventa il principale operatore di pay tv britannico» (Maronta). Nel frattempo, Murdoch aveva rivoluzionato il panorama televisivo anche negli Stati Uniti. «Nel 1984 acquisisce per 250 milioni di dollari dall’imprenditore Marc Rich una quota nella 20th Century Fox; poco dopo, il magnate del petrolio Marvin Davis media l’acquisto della società televisiva Metromedia di proprietà di John Kluge. Più tardi, Murdoch acquisisce da Davis la rimanente quota della Fox per 350 milioni: i sei canali tv di Metromedia vanno a costituire il nucleo della Fox Broadcasting Company, fondata nell’ottobre 1986, cui l’omonima casa cinematografica apporta un nutrito pacchetto di contenuti, nel tempo affiancati da serie fortunatissime come i Simpsons e X-Files. Si realizza così una graduale convergenza industriale e finanziaria tra i vari rami di News Corp, che divengono sempre più interdipendenti» (Maronta). «Nel 1989 questo gigantesco impero si trovò a un passo dalla bancarotta. A salvarlo furono solo le stratosferiche ambizioni di Murdoch, che scommise tutte le sue proprietà su Sky – 300 canali che gli avrebbero concesso un controllo totale sui contenuti» (Newbury). «L’azienda ha debiti per quasi 7 miliardi di dollari (la maggior parte generati da Sky Television), il che forza Murdoch a vendere molti dei quotidiani acquisiti negli anni Ottanta. […] Intanto, News Corp si espande nel mondo. Nel 1993 Murdoch acquista per 1 miliardo di dollari Star Tv, società televisiva con sede a Hong Kong e canali in Cina, India, Giappone e altri 27 Paesi asiatici, così diventando il principale operatore satellitare del continente» (Maronta). «In Cina, la sua Star Tv promise al governo di Pechino una televisione “niente sesso, niente violenza, niente politica” – e niente Bbc, pur senza dichiararlo» (Newbury). «Nel 1993 […] acquista i diritti della National Football League dalla Cbs e porta le trasmissioni a sette giorni su sette. Nel 1995 annuncia un accordo con Mci Limited per la creazione di una nuova rivista con annesso sito internet, il Weekly Standard, affermatasi come principale organo di stampa della destra neoconservatrice. L’anno successivo debutta nel lucrativo mercato della tv via cavo con Fox News Channel: l’anti-Cnn per eccellenza, volutamente populista, schierata, sopra le righe e politicamente scorretta, rappresenta la trasposizione televisiva del modello tabloid tagliato sul mercato statunitense, monumento al fiuto commerciale del suo proprietario. […] Nel 1999 lo sbarco in Italia, sancito dalla scelta di Letizia Moratti quale presidente di News Corp Europe. […] Nel frattempo va maturando lo scandalo destinato a far vacillare l’impero di Murdoch. Nel 2000 la 32enne Rebekah Brooks, assunta undici anni prima come segretaria, è chiamata a dirigere News of the World. Sotto la sua direzione si consumano gli eventi che nel giro di altri 11 anni porteranno il glorioso giornale, fondato da John Browne Bell nel 1843, alla chiusura» (Maronta). A innescare lo scandalo fu, il 4 luglio 2011, una rivelazione del concorrente Guardian riguardante «la vicenda di Milly Dowler, studentessa tredicenne scomparsa nel marzo del 2002 in un sobborgo di Londra e ritrovata morta a settembre. L’inchiesta accerterà che l’investigatore privato Glenn Mulcaire, ingaggiato da News of the World, intercetta illegalmente i messaggi nella casella vocale della ragazzina, cancellandone alcuni. Quest’atto dà false speranze alla famiglia, indotta a credere che sia stata la stessa Milly a cancellare i messaggi, e contribuisce a depistare le indagini della polizia» (Maronta). «Da quel giorno il colossale impero di Murdoch ha cominciato a sgretolarsi. Cameron [l’allora primo ministro britannico David Cameron – ndr] si è visto costretto a prendere posizione sulla questione, e quarantotto ore dopo ha annunciato la creazione di una commissione di inchiesta. Il giorno seguente, James Murdoch [figlio di Rupert Murdoch e all’epoca presidente esecutivo della società cui apparteneva la testata – ndr] ha annunciato che il News of the World, dopo 168 anni di vita, avrebbe chiuso i battenti. Il giorno dopo ancora, […] Andy Coulson, altro ex direttore che dopo aver lasciato l’azienda è stato nominato responsabile della comunicazione del […] premier britannico David Cameron subito dopo la vittoria elettorale nel 2010, […] è stato arrestato con l’accusa di corruzione e intercettazioni illegali. Una settimana più tardi, Rebekah Brooks ha rassegnato le dimissioni da amministratrice delegata della News International ed è stata arrestata con l’accusa di aver commesso gli stessi reati di cui è accusato Coulson» (John Carlin). Nel novembre 2011 «la Brooks, nel 2003 passata al Sun e sostituita dal suo vice Andrew Coulson alla direzione di News of the World, ha ammesso di fronte a una commissione parlamentare che il tabloid ha ripetutamente corrotto i poliziotti per ottenere informazioni. Nel 2005 le intercettazioni illegali hanno come oggetto la famiglia reale e come protagonista Clive Goodman, cronista reale del News of the World, arrestato insieme al detective Mulcaire» (Maronta). «L’episodio più surreale è avvenuto nel Parlamento britannico il 19 luglio 2011, il giorno in cui Rupert e James sono dovuti comparire di fronte a una commissione d’inchiesta. È stato il primo atto della sospirata vendetta della classe politica contro il tycoon. “È la più grande lezione di umiltà della mia vita”, ha riconosciuto Murdoch padre. Suo figlio si è coperto di ridicolo ancora di più, balbettando dall’inizio alla fine. Di fronte alle domande aggressive dei deputati, finalmente liberati dalle loro catene, padre e figlio si sono limitati, come gli imputati del caso Watergate, a negare di essere a conoscenza dei fatti, ad affermare di non essere stati informati delle intercettazioni e delle azioni illegali che erano diventate la norma nei loro giornali, a sostenere che “non sapevano”. […] La News Corporation ha sborsato 150 milioni di euro in risarcimenti e spese legali alle vittime delle intercettazioni» (Carlin). Le polemiche suscitate dallo scandalo avevano inoltre, di fatto, impedito a Murdoch di realizzare uno dei suoi progetti più ambiziosi: impossessarsi di tutte le azioni di Sky, di cui deteneva allora il 39%. «Il governo conservatore di David Cameron, di cui aveva guadagnato l’amicizia con un assiduo corteggiamento, non se la sentì più, di approvare il take over del resto di Sky. L’eccessiva concentrazione mediatica nelle sue mani era evidente anche prima e rappresentava un ostacolo. Ma il Tabloidgate aveva rivelato intenzioni maligne e corrotte all’interno del suo gruppo, e il potere ha dovuto prendere le distanze. Passata la tempesta, risolti i problemi giudiziari evitando il peggio, ripristinati gli amministratori delegati a cominciare da Rebekah Brooks detta “la Rossa”, la figlia che Rupert probabilmente avrebbe voluto, Murdoch è tornato alla carica» (Enrico Franceschini). Nel 2018, infatti, il magnate tentò nuovamente tale operazione. «Sorprendentemente per un “raider” come lui, un giocatore che ha trionfato in tanti azzardi, stavolta gli è andata male. […] Battuto con un’offerta di 30 miliardi di sterline contro 27 dal rivale Comcast del miliardario americano Brian Roberts nell’asta per il 61 per cento di Sky, […] al termine di una gara al rialzo definita dai media britannici “la partita a poker più costosa della storia”, tre mesi dopo avere ceduto gli studios cinematografici e televisivi della 20th Century Fox alla Walt Disney, il tycoon di origine australiana ha interpretato per un lungo momento il ruolo a lui insolito dello sconfitto: peggio ancora, del predatore diventato preda, sconfitto al suo stesso gioco. […] “Siamo orgogliosi di avere ottenuto un valore così grande per la nostra azienda”, ha commentato per conto suo. Un understatement. Perché in effetti a guadagnarci è stato anche lo Squalo. Un “doppio guadagno” nel giro di pochi mesi, come osserva Bloomberg: dopo i 71 miliardi di dollari pagati dalla Disney per la 20th Century Fox a luglio (in un affare che ha incluso anche il 39 per cento di Sky già di proprietà di Murdoch), gli sono arrivati i 39 miliardi di dollari per il restante 61 per cento della rete televisiva. Totale: 110 miliardi di dollari. Un bel gruzzolo. […] Viene quasi il sospetto che abbia fatto apposta a perdere l’asta: e se la sua ultima offerta da 27 miliardi di sterline fosse stata un bluff? […] Oltre alle azioni e ai soldi, nella scuderia di Rupert Murdoch rimangono parecchi altri cavalli di razza. La sua amata Fox, innanzi tutto, la rete tivù filo-Trump che ha cambiato il panorama dell’informazione in America e influito pesantemente sulla sua politica. E poi i giornali, che per Murdoch restano il primo amore. […] Riunite sotto l’etichetta della News Corp, […] tutte queste testate rimangono una formidabile fonte di entrate e di influenza per l’ultraottuagenario miliardario» (Franceschini) • Quattro mogli, sei figli: Prudence (1958) dal primo matrimonio (1956-1967), con la coetanea e conterranea Patricia Booker, allora assistente di volo; Elisabeth (1968), Lachlan (1971) e James (1972) dal secondo (1967-1999), con la scozzese Anna Maria Torv (classe 1944), giornalista; Grace (2001) e Chloe (2003) dal terzo (1999-2013), con la cinese Wendi Deng (classe 1968), dirigente d’azienda e imprenditrice, sospettata di aver avuto una relazione extraconiugale con l’ex primo ministro britannico Tony Blair e addirittura di essere una spia al soldo di Pechino; nessun figlio, invece, dalle quarte nozze, celebrate nel 2016 con la statunitense Jerry Hall (classe 1956), modella e attrice, ex compagna del cantante dei Rolling Stones Mick Jagger. «Lachlan Murdoch, il secondo, sembrava essere l’erede designato fino al 2005, quando lasciò la sede centrale della News Corporation, abbandonando (o secondo alcune voci solo accantonando) le sue aspirazioni globali per cercare rifugio nella relativa tranquillità del mondo imprenditoriale australiano. Da quel momento il favorito è diventato il più piccolo, James, nonostante quell’aria classica da figlio inibito dall’enorme successo del padre» (Carlin). Tuttavia, «nel marzo del 2019, quando fu formalizzato l’accordo con Disney, James fu messo da parte: Lachlan sarebbe diventato il ceo di Fox, il nuovo gruppo media tv rimasto ai Murdoch, e James non sarebbe andato a Disney come ci si aspettava. Il padre non lo chiese come condizione contrattuale. James però restava nel consiglio di News Corp, e nel trust di famiglia. Fondò una sua azienda di media, Lupa, che non a caso rievocava nel simbolo le vicende fratricide fra Romolo e Remo. […] In effetti la rottura formale è giunta solo il 31 luglio di quest’anno [2020 – ndr]. James ha tagliato l’ultimo cordone ombelicale operativo, lasciando con una lettera polemica di due righe: “Le mie dimissioni sono dovute a disaccordi su certi contenuti editoriali pubblicati da organi di informazione del gruppo e ad alcune altre decisioni strategiche”. […] L’obiettivo è quello di screditare i contenuti molto squilibrati a destra di Fox News e dei giornali del padre alla vigilia delle elezioni per la Casa Bianca 2020. […] La premessa di James è tossica: “Ho raggiunto la conclusione che è possibile credere e appoggiare un contesto di idee, lo facciamo tutti. Ma non lo si può fare nascondendo un’agenda. Un contesto di idee non può essere usato per legittimare la disinformazione. E credo che nelle grandi organizzazioni media la missione debba essere quella di introdurre fatti per disperdere il dubbio, non di seminare il dubbio, per oscurare il fatto – ha detto James al NY Times […] –: per questo non ero più a mio agio. Lasciare non è stata una decisione difficile”. […] Rupert Murdoch […] prima o poi potrebbe lasciare. James è rimasto nel trust di famiglia, dove i voti dei figli, senza il peso diretto del padre, si equivalgono. James sa di poter contare sulla sorella Elisabeth, la più grande, […] scontenta di come vanno le cose. E con una sorellastra, figlia di primo letto di Rupert, potrebbe mettere il fratello in minoranza e imporre serietà e trasparenza nelle news del gruppo. Troppo complicato? Forse. Ma lo stesso Rupert riconosce al figlio James una qualità che Lachlan non ha: è uno stratega paziente che guarda lontano» (Mario Platero) • «Da figlio di un prominente editore, Rupert frequenta fin da giovane l’establishment nazionale, in cui impara a muoversi con destrezza. È dunque in Australia che il pluridecennale rapporto tra Murdoch e la politica (meglio: i politici) prende corpo. […] Forse è fuorviante bollare Murdoch solo come un campione della destra antistatalista, in quanto la cifra del suo rapporto con la politica non è tanto l’ultraliberismo (di cui pure ha dato ripetutamente prova), quanto un pragmatismo estremo, apolitico e pre-morale, che antepone le strategie aziendali alle considerazioni sociali e deontologiche. Paradossalmente, al carattere populistico di molte testate di News Corp – che in definitiva ne hanno decretato il successo – si associa una profonda intrinsichezza di Murdoch con l’establishment. Ciò spiega come il magnate abbia potuto cavalcare il vento neoliberista degli anni Ottanta – tanto da essere politicamente identificato con il duo Thatcher-Reagan – e restare fedele al successore della Thatcher, John Major (della cui elezione, nel 1992, il Sun si ascrive parte del merito), per poi divenire intimo del New Labour di Tony Blair e Gordon Brown e, di nuovo, dei Tories di David Cameron. Ma spiega anche perché, quando il potere politico si mette sulla sua strada, non esiti a combatterlo, come avvenuto in Italia con Silvio Berlusconi nella battaglia che porta all’affermazione di Sky. […] Negli Stati Uniti Murdoch replica l’approccio spregiudicato alla politica che lo ha sempre contraddistinto» (Maronta). «Quando sostenne Ed Koch, un outsider democratico di destra, contro Mario Cuomo, democratico di sinistra, nella campagna per l’elezione del sindaco di New York, Murdoch spiegò: “È semplicissimo. A New York ci sono due milioni e mezzo di ebrei e un milione di italiani”. Murdoch gli dedicò interamente il giornale [il New York Post – ndr], e Koch, una volta eletto sindaco, gliene fu adeguatamente grato» (Newbury). «Dopo anni di vicinanza all’ala neoconservatrice dell’amministrazione Bush, nel maggio 2006 patrocina un evento di raccolta fondi a sostegno di Hillary Clinton nella corsa alle primarie del Partito democratico. Due anni dopo, a un giornalista che gli chiede se abbia qualcosa a che fare con il sostegno del New York Post a Barack Obama, risponde: “Certo, [Obama] è fantastico, penso che vincerà lui e non vedo l’ora d’incontrarlo”. Il riorientamento verso i democratici non impedisce comunque a News Corp di donare un milione di dollari all’Associazione dei governatori repubblicani nel 2010, anno della vittoria repubblicana alle elezioni di medio termine. Ciò, a sua volta, non preclude a Murdoch di sedere nel consiglio direttivo del Cato Institute (think-tank libertario avverso alla destra massimalista del Tea Party), né di formare con il sindaco di New York Michael Bloomberg e con gli amministratori delegati di Hewlett-Packard, Boeing e Disney la Partnership for a New American Economy, a sostegno di una riforma della legge sull’immigrazione in linea con quella proposta […] dall’amministrazione Obama» (Maronta). Durante l’amministrazione Trump le sue reti televisive (ancor più dei giornali, talvolta critici) sono state a lungo apertamente schierate con il presidente, salvo poi abbandonarlo repentinamente in seguito alle elezioni presidenziali del 2020, non appena iniziò a profilarsi la vittoria del democratico Joe Biden. «Ci sono due chiavi di lettura nella rottura fra Rupert Murdoch e Donald Trump. La prima è personale: Murdoch non ha mai sopportato Trump, al punto che nel 2016 aveva puntato su Hillary Clinton. Abbandonare il presidente nel mezzo di una nuova battaglia per il voto gratificava sia la sua concezione cinica del potere che la soddisfazione di liberarsene. Ma la seconda è politica ed è di business, e qui la vicenda si fa più complessa, perché, guardando in avanti, la partita di Fox nel contesto dei grandi conglomerati si sta facendo sempre più difficile. […] Per questo […] non si potrà escludere quello che oggi sembra impossibile: un riavvicinamento “in affari” fra Murdoch e Trump. Del resto, Murdoch è sempre stato un grande pragmatico. […] Per questo non c’è da sorprendersi se questo leggendario editore austro-americano-britannico ha mollato Trump all’improvviso […] quando i risultati elettorali sembravano addirittura favorire il repubblicano: la Fox fu la prima a fare una scelta di campo sull’Arizona, assegnandola a Biden già martedì 3 novembre alle 11.23 della sera. […] La reazione di Trump fu violenta. Suo genero Jared Kushner chiamò Murdoch nella notte per protestare infuriato. Ma Murdoch non solo non mosse un dito, ma rincarò la dose. Anche i suoi giornali, il Wall Street Journal, il New York Post e il Times di Londra, non seguivano Trump nella sua allucinata dichiarazione unilaterale di vittoria. La rottura si è fatta definitiva quando Trump ha suggerito alla sua base di seguire Newsmax Tv, una piattaforma digitale di destra, e abbandonare Fox. E qui interviene la parte politica, di affari e dietrologica. Michael Wolff, autore di una biografia autorizzata di Murdoch, un best seller, mi dice che nell’editore prevale sempre il pragmatismo: “Murdoch […] sa benissimo che i suoi figli, in lite fra loro, vorrebbero sbarazzarsi di Fox, vendere e incassare. Non escludo che dietro le provocazioni di Murdoch possa anche esserci un rilancio a Trump: se vuoi la rete, trova il danaro e cómpratela”. Tutto è possibile. […] E tutto fra Murdoch e Trump potrà cambiare di nuovo» (Platero) • «Il suo yacht nel Mediterraneo e il suo villone a Long Island, New York, hanno lo stesso nome, Rosehearty, […] il nome di un paesino scozzese dove si insediò il suo bisnonno James Murdoch, pastore della calvinistissima Chiesa di Scozia, nel 1843. […] Un antico priorato nell’Oxfordshire […] funge da scenario ideale per dimostrare la complicità incestuosa fra la famiglia Murdoch e la classe politica britannica. Era in alloggi lussuosi come questo che i Murdoch e i direttori dei loro giornali si riunivano, cenavano, bevevano e forgiavano rapporti intimi con David Cameron, Gordon Brown e con il fervente cattolico Tony Blair, che si è vestito di bianco per fare da padrino per il battesimo delle due figlie di Rupert e Wendi […] sulla riva di un fiume in Giordania» (Carlin) • «È un uomo all’antica, un vecchio preside, un moralista, uno scorbutico. […] Era già lavoro-dipendente quando ancora non andava di moda; non ha veri amici (“Sono troppo impegnato”), né veri partner in affari, fatta eccezione per i suoi figli. Non ostenta interessi particolari all’infuori del lavoro (“Sono sposato con il mio lavoro”)» (Michael Wolff). «L’editore più grande, ingombrante e geniale del mondo» (Orizio) • «Rupert ha spesso confessato il suo scarso interesse per le nuove tecnologie. L’ossessione finale della sua carriera è molto più tradizionale, alla Citizen Kane. […] Il suo sogno segreto è utilizzare il Wall Street Journal per rovinare the Old Lady, la vecchia signora, come qui viene chiamato il New York Times» (Rampini). «Lo “Squalo ridens” […] ha perso il pelo ma non il vizio. Resta solo da vedere dove concentrerà la sua attenzione in futuro e quali potranno essere le sue nuove prede. […] Sarebbe pericoloso sottovalutarlo» (Franceschini).