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 2021  marzo 11 Giovedì calendario

Biografia di Francesco Piccolo

Francesco Piccolo, nato a Caserta il 12 marzo 1964 (57 anni). Scrittore. Sceneggiatore. Vincitore, tra l’altro, del Premio Strega 2014, col romanzo Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), e di tre David di Donatello, per le sceneggiature di La prima cosa bella (2010) e Il capitale umano (2014) di Paolo Virzì e Il traditore di Marco Bellocchio (2020). «Io voglio raccontare le cose vere, non le cose giuste» • Primo dei tre figli di una famiglia borghese di ristoratori. Il padre Corrado Piccolo, infatti, calciatore in gioventù nei campionati di IV Serie e di Eccellenza e impiegato di banca, «sposò Anna Russo, il cui papà Peppino aveva rilevato il ristorante Massa a metà degli anni Cinquanta, portandolo al livello dei più celebrati ristoranti di Napoli. In piena sintonia con l’esuberante simpatia di “don Peppino”, alla sua scomparsa affiancò la moglie Anna e la cognata Lina nell’attività di ristorazione. […] Giovialone e allegro, come papà stravedeva per i figli, che con la moglie Anna aveva cresciuto “baciandoli soltanto di notte”, come ripeteva» (Franco Tontoli). «Racconta di essere diventato comunista dopo la partita tra le due Germanie ai mondiali del 1974. […] Il 77° minuto, quando segna Jürgen Sparwasser. “Avevo dieci anni, ero con mio padre, eravamo due maschi che vedevano insieme i mondiali. Quel giorno scoprivo di stare dalla parte dei deboli, della Germania Est, mentre mio padre era dall’altra. Un gol in un mondiale ha segnato le scelte di una vita”» (Raffaella De Santis). «La cosa pazzesca è che non solo io sono diventato comunista per un gol, ma per un caso incredibile: perché, se Sparwasser non avesse preso il pallone in faccia, non avrebbe segnato quel gol, e io non mi sarei accorto di quello che avevo dentro» (a Valentina Desalvo). Tra i quindici e i sedici anni il primo amore (non corrisposto) e le prime prose. «Cercavo disperatamente di farmi amare da una compagna di scuola bella e rivoluzionaria. La seguivo negli incontri del suo gruppo, dove mi guardavano come un infiltrato, proprio mentre a casa mi dicevano che facevo il comunista con i soldi di papà. Ebbi però la malaugurata idea di regalarle uno Snoopy di peluche. Mi guardò con disprezzo e me lo sbatté sul petto, dicendomi: “Come ti viene in mente? Anche il giorno di San Valentino noi siamo impegnati a fare politica”. Fu un dolore immenso» (a Stefania Rossini). «“A sedici anni scrissi un romanzo sulla mia compagna di banco: era un romanzo straziante sul mio amore per lei ed era molto brutto, io ne ero cosciente, ma allo stesso tempo sentivo questa grande felicità di scrivere nella stanza mia e di mio fratello, di nascosto da lui perché mi vergognavo, e lì ho pensato per la prima volta che avrei voluto scrivere per tutta la vita. […] Le cose che facevo a casa, di nascosto, piano piano si sono allargate, e io ho cominciato a non andare più in vacanza, così mentre i miei amici erano fuori mi sembrava di recuperare il tempo perduto: un agosto ho visto tutti i film di Bergman, quello dopo ho letto tutto Proust, poi ho visto tutto Hitchcock, ogni volta mi davo degli obiettivi che riuscivo a raggiungere, ed era una cosa che mi dava euforia”. Ai tuoi amici a Caserta dicevi: resto a casa perché devo leggere Proust? “Certo che no, inventavo scuse: non ho soldi, devo andare a prendere la mia fidanzata, devo aiutare mia madre”» (Annalena Benini). «Non ho mai pensato di diventare scrittore, mai: io stavo a Caserta, vivevo una vita completamente diversa, leggevo i classici o leggevo Moravia, vedevo la foto sull’Espresso di Moravia e pensavo che Moravia stesse su Marte: sapevo che esisteva, ma che non mi avrebbe mai riguardato. Ma quella cosa stranamente mi dava una grande euforia, […] era talmente forte per me che ho preso una decisione un po’ folle: nella vita avrei dovuto trovare un lavoro che mi permettesse di scrivere, ad esempio il giornalista della cronaca sportiva del Mattino, perché volevo scrivere diari, racconti, romanzi, ma senza pensare di fare lo scrittore. Mi rendevo conto che ero molto scarso ma pieno di desiderio». «L’autore […] vive a Caserta fino ai ventotto anni. Dopo la maturità scientifica al Diaz, si laurea in Lettere alla Federico II con una tesi sulle teorie comiche nel teatro, relatore Franco Carmelo Greco. Ma, all’ombra della Reggia, dove trovò stimoli culturali? “Tre persone furono davvero importanti. Mia zia Rosa Piccolo, che fu anche la mia professoressa di italiano gli ultimi due anni del liceo: era severa di suo, con il nipote ancora di più, ma era attiva, spronava, mi convinse persino ad abbonarmi alla stagione sinfonica; poi la mia compagna di banco, colta e comunista, che mi fece studiare di tutto; e Attilio Del Giudice, scrittore e all’epoca soprattutto regista, il primo con il quale trovai il coraggio di chiacchierare delle mie velleità”» (Carla D’Alessio). «“Io per varie vicissitudini familiari e per un rapporto difficile con mio padre ho cominciato subito a lavorare e a fare l’università lavorando”. Cosa facevi? “Ho fatto molte cose, in vari posti. Ho lavorato a Napoli, ragazzo tuttofare in un ufficio. Poi ho lavorato in una concessionaria di auto a Caserta. E poi per un bel po’ di anni ho lavorato nel basket. Giocando, facendo l’allenatore, e poi scrivendone”» (Giuseppe Rizzo). «La sensazione che scrivevo cagate un po’ valeva, e a un certo punto ho fatto una cosa tutta da solo, senza ambizioni: ho detto “Va bene, se voglio scrivere devo essere più bravo”, quindi ho smesso di scrivere. Facevo l’università e intanto lavoravo a Napoli. […] Ho deciso che per un anno avrei solo letto, studiato e cercato di crescere, grazie all’università anche, ma soprattutto grazie alle letture: ho letto il triplo di quello che già leggevo, ho cercato di capire qualcosa di più. […] In quell’anno […] ho letto i Taccuini di Fitzgerald, fatti di frasi che lui appuntava, e allora mi sono comprato un quaderno piccolissimo, e lì ho cominciato a scrivere delle frasi che mi sembrava che arrivassero da qualcosa di più importante». «“Poi cominciai con il teatro, monologhi comici soprattutto. Ma la vera svolta avvenne quando Enrico Campana mi affidò una rubrica su Superbasket. Mi interessava scrivere di qualsiasi cosa, e fare il giornalista di basket mi bastava. Cominciò anche a piacermi il fatto che gli altri mi leggessero. Il passo successivo fu decidere di frequentare un corso di scrittura creativa a Roma, e andarci significava aver già cominciato a crederci”. Lì a Roma conobbe “due ragazzi” (Marco Cassini e Daniele Di Gennaro) che stavano fondando una rivista letteraria distribuita via fax, e Piccolo ne divenne il redattore. “Fu la molla che mi spinse definitivamente a provarci, a tentare e a trasferirmi a Roma”. Era il ’93, e gli eventi si succedettero velocemente: quello stesso autunno il suo primo romanzo inedito, Diario di uno scrittore senza talento, arrivò finalista al Premio Calvino; l’esperienza della rivista approdò alla creazione di una casa editrice e nacque la Minimum Fax: il primo titolo che sfornò fu il suo Scrivere è un tic, una raccolta di saggi sui metodi di scrittura di grandi scrittori. Intanto collaborava al Manifesto, e divenne anche docente di scrittura creativa: “In pochi mesi e con una serie di coincidenze fortunate, dalla provincia mi ritrovai in un altro mondo, in cui accadevano queste cose…”» (D’Alessio). «“Ho ricominciato a scrivere racconti su cose lontanissime da me, che non parlavano né della realtà né di me, era una specie di surrealismo di Caserta: un paio di occhiali, due onde che si incontravano e si innamoravano, ma pian piano sono arrivato a scrivere cose più vicine a me, e ho scritto i racconti che ha letto Domenico Starnone e che poi sono diventati Storie di primogeniti e di figli unici, il mio primo libro”. Pubblicato da Feltrinelli […] quando Piccolo aveva trentadue anni e viveva già a Roma, lavorava per Minimum Fax, si era liberato, racconta adesso, di quella “casertanità”. “A Roma ho capito che non dovevo spiegare nulla, che potevo esprimere me stesso, che c’erano altri che vivevano così, e improvvisamente perdere quella parte di me di casertanità mi liberava dall’obbligo di vivere la vita in un altro modo: prima ero una persona un po’ spezzata, che si vergognava e però si struggeva, a Roma sono diventato una persona unica, e questa cosa mi ha drogato, perché è stata una scoperta”» (Benini). «Se ne andò da Caserta e arrivò a Roma a casa di una cugina soprano, “non perché Caserta fosse degradata e io un disperato intellettuale gramsciano, ma perché mi annoiavo: da provinciale mondano, facevo una vita da bar e da discoteche e volevo semplicemente trovare il modo di scrivere: a casa ero Gramsci, fuori ero Miguel Bosé”» (Benini). «Ma è vero che suo padre corteggiava Maria Corti per facilitare la carriera letteraria del figlio? […] “Lei può immaginare il devastante imbarazzo in cui caddi quando seppi che mio padre faceva lo scemo con la professoressa Corti”» (Simonetta Fiori). «Com’è stato l’impatto con l’ambiente editoriale? “Ne ero affascinato e spaventato. A Roma […] ho capito subito che tra le regole c’era il mostrare di essere scocciato dal tuo lavoro, di farlo con sufficienza. È una grammatica molto romana. Che all’inizio ho fatto mia per adeguarmi. Ho impiegato parecchio tempo a liberarmene, a darmi il permesso di tirare fuori la felicità di scrivere”» (Raffaela Carretta). «Vuoi raccontarci come hai cominciato l’esperienza cinematografica? “Dopo aver pubblicato il mio primo libro, Storie di primogeniti e figli unici, hanno cominciato a chiamarmi in molti, prima con delle proposte assurde, poi con un progetto che mi piaceva, e al quale ho cominciato subito a lavorare. Immediatamente, mi sono reso conto che la scrittura per il cinema era una cosa che sapevo fare, e che mi piaceva. Il primo progetto, di conseguenza, ha portato ad altre proposte, prima un po’ casualmente – perché dipende molto da chi ti chiama, all’inizio –, pian piano con sempre maggiore regolarità, finché la scrittura per il cinema è diventato un lavoro concreto che adesso affianco a quello letterario. Tanto che oggi posso dire che il mio lavoro è costituito, in ugual misura, dal cinema e dalla narrativa. Inoltre, occasionalmente, scrivo anche sui giornali, ma in maniera libera, quando posso, quando riesco, quando ne ho voglia, quando me lo chiedono. […] Prima scrivevo tante cose per Diario, per Il Mattino, prima ancora per Repubblica Napoli, per il Corriere, avevo una rubrica di libri su Amica, scrivevo per varie riviste, cioè mi davo da fare nel mio campo, perché, ovviamente, non potevo vivere solo con i miei libri. Adesso, tutta questa roba è stata sostituita dal cinema”» (Antonella Lattanzi). «Forse, se ho una qualità, è quella di avere un senso critico verso me stesso. […] Una cosa simile a quella degli inizi mi è successa anche dopo. Tra Allegro occidentale e L’Italia spensierata avevo già detto a Einaudi che gli avrei dato un libro, ma quel libro non gliel’ho mai consegnato. Ho scritto un romanzo e non gliel’ho mai dato. Non l’ho proprio fatto leggere a nessuno. Salvo che, successivamente, a qualche amico, che mi ha poi confermato la mia impressione: che fosse buono ma che non mi facesse fare dei passi in avanti. E, soprattutto, è stato il romanzo che mi ha fatto capire definitivamente che la figura dello scrittore che deve scrivere un libro dopo l’altro, anche libri che non lo toccano da vicinissimo, è una cosa che non mi interessava tanto». Il romanzo abortito fu soppiantato nel 2008 da La separazione del maschio (Einaudi), che «racconta i molti tradimenti amorosi e il sentimentalismo fallito di un quarantenne come lui, con una chiara e letteraria intenzione autobiografica» (Benini). Nel 2010 il primo grande successo editoriale, Momenti di trascurabile felicità (Einaudi). «Non si tratta di un romanzo e neanche di un saggio, ma del catalogo dei piaceri minimi, che illuminano le nostre giornate. C’è spazio per tutto, tra dolcezza e provocazione: “Ricordarsi dov’eravamo mentre leggevamo un libro; gli sms dopo le 11 di sera che dicono: ‘Dove sei?’; quando è morto il canarino; perdersi un concerto jazz; l’inizio del film porno, quando sono vestiti e non si conoscono…”. […] Il libro, che mostra anche le sue debolezze – non riuscire a stare a dieta, sentirsi figo con le donne, parcheggiare in seconda fila per bere un caffè –, sembra un diario. È davvero autobiografico? “La confusione con l’autobiografia è la mia cifra stilistica. Anche nei precedenti La separazione del maschio e Allegro occidentale giocavo con la sovrapposizione tra protagonista e autore. Ma non è importante sapere se le cose siano andate realmente come le racconto. Mi prendo la responsabilità delle storie che scrivo facendole passare per mie”. L’ordine dei “momenti” è casuale. Non c’è una sequenza cronologica o tematica. Come li ha montati? “C’è un ordine empatico. Non so spiegare perché ogni trascurabile felicità sia collocata proprio in quella parte del testo. […] È stato costruito per accumulo nel tempo. […] Anni fa ho aperto un file in cui, ogni tanto, annotavo gli episodi più luminosi. Lentamente il libro è diventato un’idea possibile”» (Annarita Briganti). Nel 2014 la conquista del Premio Strega, con Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013). «Possiamo chiamarla un’autobiografia dei suoi primi 50 anni? “Possiamo”, risponde. I primi 30 stanno nella prima parte, ai tempi di Berlinguer, gli ultimi 20 nella seconda, a quelli di Berlusconi: perché “il desiderio di essere come tutti” è il desiderio di conciliare la scelta del comunismo con le origini borghesi, la profondità con la superficialità, la purezza con l’impurità, noi con gli altri. Piccolo scrive, come sempre, in prima persona, ma il tasso di “messa a nudo” qui è molto più alto del sesso della Separazione del maschio o delle manie dei Momenti di trascurabile felicità. Qui c’è la scoperta di essere comunista al 77° minuto di Germania Ovest-Germania Est, assieme alla descrizione di una evacuazione sul water, piena di significati simbolici, nel 1974. Ci sono le serate in discoteca, assieme al pianto disperato davanti alla tv che trasmette i funerali di Berlinguer, nel 1984. C’è l’incontro con Chesaramai, compagna “superficiale” che diventa sua moglie, assieme alla battuta a sfondo sessuale di Berlusconi in visita alla Reggia di Caserta, nel 1994. Ma la confessione si spinge molto oltre, ammettendo a un certo punto di aver messo le corna e averle subite, di aver fatto download illegale, di aver scommesso sulle partite di calcio, di aver sperato che l’immigrato steso davanti al portone sotto casa si spostasse di civico e persino aver desiderato un condono berlusconiano. […] C’è il rapporto, difficile, con suo padre. “Il padre, che vota Msi e poi An, è l’opposto del protagonista, eppure è la persona che il protagonista ama di più. Nel libro gli dice: guarda che assomiglio a te più di quanto abbia detto da sempre. E questa divisione, questa saracinesca che abbiamo messo tra noi, vale fino a un certo punto, perché siamo vicini anche se la pensiamo in modo diverso”. […] Il conflitto del protagonista è prima all’interno della famiglia, dove è un alieno, poi universale: noi e loro, quelli che votano a sinistra e quelli che votano a destra, Berlinguer e Berlusconi. “Il ‘desiderio di essere come tutti’ è appunto la voglia di essere comunità, noi che ci assomigliamo assieme agli altri che non ci assomigliano. Io mi sono messo nella sinistra, che è il mio mondo. L’idea sbagliata della ‘purezza’ ispirata da Berlinguer – ossia che si è migliori, e si sta e si parla solo con quelli che la pensano come noi – è fallimentare. Certo, non ‘sono Berlusconi’ come ‘sono Berlinguer’, ma dentro di me ci sono dei pezzi di Berlusconi”» (Silvia Bombino). Dopo Momenti di trascurabile infelicità (Einaudi, 2015) – «cose come gli addobbi natalizi subito dopo le feste, la bellissima sconosciuta che ti chiede di tenerle la mano in aereo e poi capisci che era solo perché aveva paura, il bagno sporco di un locale con un altro che entra subito dopo di te, o il figlio piccolo che arriva con la scatola del Lego mentre sei al computer: “Papà, giochiamo?”» (Carretta) –, fu la volta de L’animale che mi porto dentro (Einaudi, 2018), «autobiografia letteraria di un maschio italiano, arrogante, adultero, fiero portabandiera del coito ergo sum» (Vittorio Zincone). «La struttura, la visione, il modo di agire del personaggio Piccolo si forma nei giorni dell’infanzia a Caserta, da quando in seconda media c’è stata la ferita d’amore, la prima, leggera eppure mai rimarginata; […] poi cresce, ci sono le partite a basket con una memorabile trasferta a Battipaglia finita in rissa dopo che già era stato sospeso per aver dato sfogo ai suoi istinti violenti, le estati a Baia Domizia commoventi, attese anno dopo anno per guardare dal muretto con gli amici più grandi le svedesi, rappresentazione reale e carnale di sesso, gioia, vita. Il personaggio Piccolo poi diventa scrittore, scegliendo le parole, le storie, il mezzo della scrittura per affermarsi, vince il premio ambìto, lo Strega, e si sente onnipotente, anzi, dichiara esplicitamente: “Mi sono creduto stocazzo”. […] Come ne Il desiderio di essere come tutti, l’immaginario di eventi e storie fa da guida, sorregge il personaggio nel comprendere se stesso, i propri atteggiamenti e scelte» (Pier Luigi Razzano). «Che differenza c’è tra l’uomo de La separazione del maschio e quello de L’animale che mi porto dentro? “Beh, l’uomo de La separazione del maschio mi sembra che esprimesse più potenza che fragilità. È un libro scritto a quarant’anni, nella stagione del sentirsi potenti, del sentirsi stocazzo. L’animale che mi porto dentro è il libro di un cinquantenne, quindi sul rendersi conto che l’essere stocazzo in fondo siede sulla fragilità, e infatti si frantuma facilmente”» (David Frati). Da ultimo, nel maggio 2020, ha pubblicato Momenti trascurabili. Vol. 3 (Einaudi), «un catalogo di pensieri sparsi e situazioni comuni che fanno ridere anche quando affrontano temi seri e girano intorno a questioni filosofiche essenziali come il perché della vita e della morte. […] Il libro si apre con una schermaglia esistenziale. La moglie dice: “Prendiamo tutti i soldi che abbiamo e andiamo in Polinesia: che ce li teniamo a fare, i soldi? E se poi moriamo?”. E Piccolo: “E se poi moriamo, chi se ne importa, di essere andati in Polinesia? Cioè, quando siamo morti, a chi lo diciamo, che siamo stati in Polinesia?”» (De Santis). «In questo volume né felicità, né infelicità: i suoi momenti sono semplicemente trascurabili. Contiene già tutto questo aggettivo? “Sì, perché col tempo ho notato che questa distinzione è sempre più labile, discutibile. Nella trascurabilità non c’è grande differenza fra felicità e infelicità: spesso quello che ci dà allegria ci dà malinconia e viceversa. Nella contingenza del presente, poi, abbiamo scoperto che il trascurabile non è poi così trascurabile”» (Felice Sblendorio). In questi mesi «sta lavorando alla sceneggiatura della terza stagione dell’Amica geniale e a “una specie di romanzo”, che, assicura, non sarà sul coronavirus» (De Santis) • Parallelamente all’attività di scrittore, svolge con successo anche quelle di sceneggiatore cinematografico (My name is Tanino, La prima cosa bella, Il capitale umano, Ella & John e Notti magiche di Paolo Virzì; Il Caimano, Habemus Papam e Mia madre di Nanni Moretti; Ovunque sei di Michele Placido; Agata e la tempesta e Giorni e nuvole di Silvio Soldini; Caos calmo di Antonello Grimaldi; Il nome del figlio, Gli sdraiati e Vivere di Francesca Archibugi; Momenti di trascurabile felicità e Lacci di Daniele Luchetti; Il traditore di Marco Bellocchio) e televisivo (L’avvocato Guerrieri di Alberto Sironi, dai romanzi di Gianrico Carofiglio, per Mediaset; L’amica geniale di Saverio Costanzo, dai romanzi di Elena Ferrante, per Rai e Hbo), nonché di autore televisivo, in stretto sodalizio con Fabio Fazio (Quello che (non) ho su La7, Festival di Sanremo 2013 e 2014 su Rai 1, Vieni via con me su Rai 3), e teatrale (Momenti di trascurabile (in)felicità, 2017-2020, di cui fu anche interprete, al fianco di Pif) • «Mi è successo […] di scrivere un soggetto da solo per il cinema: mi è piaciuto, ma preferisco di gran lunga farlo con altri. Nanni Moretti teorizza che tre sia il numero perfetto per scrivere un film: in due è poco assembleare, in quattro troppo. Con Virzì, con Nanni, con Soldini abbiamo scritto sempre in tre. Succede una cosa strana: si crea una specie di centro che raccoglie le teste di tre persone. Non è la somma di tre modi di vedere, sentire o scrivere, ma diventa una cosa altra, separata. È come se confluissero lì tutte le cose migliori» (a Silvia Truzzi). «Le due scritture convivono come due mondi paralleli – sono vicini ma non si toccano – e danno linfa l’una all’altra. Dopo ogni periodo di scrittura cinematografica ho voglia di rimettermi a fare narrativa con maggiori energie rispetto a prima. […] Le due cose occupano due spazi diversi. Gli elementi che le tengono insieme sono la passione, il mestiere e quel po’ di talento per la scrittura. E, soprattutto, l’idea che la scrittura abbia molte facce, molti aspetti da sperimentare: il romanzo, il cinema, i racconti, il reportage… Io cerco di muovere la scrittura lì dove si può» (a Maria Agostinelli). «Da quando lavoro per il cinema ho scritto i miei libri migliori» (ad Antonio Tricomi). «È tra gli autori del Festival di Sanremo targato Fazio. Nel curriculum di un uomo di sinistra possono convivere il Premio Strega e le canzonette? “Guardo Sanremo da quando ero un bambino: non mi è affatto antitetico. Mi piaceva e mi sono divertito a farlo”» (De Santis). «“Sanremo per un italiano è la memoria. Anche io sono cresciuto con quelle canzoni”. Quali? “Nada, il Celentano di Chi non lavora non fa l’amore, la Zanicchi, Nicola di Bari …”. Ti piaceva già il cinema? “Certo, c’era il primo De Niro”. Dunque Nada e Taxi Driver? “E ti dico che mi piacerebbe pure scrivere canzoni”» (Francesco Merlo) • Due figli, Camilla e Andrea, dalla moglie Gabriella D’Angelo. «Ho incontrato una persona che, quando mi disperavo perché Berlusconi aveva vinto le prime elezioni, mi ha detto “E che sarà mai!”. L’ho sposata, facendomi aiutare ad attraversare la vita senza pesantezza» • «Io tento sempre di non fare molto, imponendo l’idea scema che un artista non sa e non deve caricare la lavastoviglie. Mia moglie e mia figlia mi accusano di maschilismo e hanno ragione, ma io cercherei di non fare niente anche se fossi femmina. Io non è che deleghi: io scanso. Le mie energie, le metto tutte nel lavoro. A casa sono disordinato, quando scrivo sono precisissimo» (a Simonetta Sciandivasci) • «Sono insonne da quando avevo 19 anni, di notte la mia vita è un tormento: sono attraversato da pensieri, da un coacervo di nevrosi, paure, dubbi. Mi macerano talmente tanto che la mattina mi sveglio con sollievo e sento che la giornata sarà migliore» • «La mia squadra da bambino è stata la Juventus. Io credo di aver tifato prima il Milan, da piccolissimo, perché il mio idolo era Gianni Rivera, ma poi quando sono diventato più cosciente ho tifato la Juve per due motivi: tutta la mia famiglia tifava la Juve e mio padre tifava il Napoli. E anche perché tifare il Napoli significava soffrire e tifare la Juve significava essere tronfi e vincitori, e credo questa potrebbe essere stata una delle cose che mi ha convinto. […] Quando la Juve a Perugia perse lo scudetto, io sentii una specie di distacco e mi accorsi che non mi dispiaceva, e anzi un po’ mi faceva piacere. E quel giorno non decisi di non essere più tifoso, ma presi atto che evidentemente non lo ero già più. Poi ero troppo grande per cominciare a tifare in maniera seria qualche squadra. […] I miei calciatori preferiti sono stati Rivera, Bettega, un po’ anche Tardelli, e Platini più di tutti. […] Il calciatore che mi piace di più oggi, perché mi sembra elegantissimo, fa sempre la cosa giusta, è un lottatore ed è intelligente, è De Jong del Barcellona». «Meglio il calcio o il basket? Qual è la differenza per lei? “Non è una domanda a cui possa rispondere. Il calcio mi piace molto, è uno sport che ho imparato ad amare. Il basket ha a che fare con la mia famiglia, con il mio Dna. […] Il basket mi appartiene a tal punto che non mi sono mai chiesto se mi piace. Per quanto riguarda la mia famiglia, ha fondato la Juvecaserta (si chiama così perché i miei zii erano appunto tifosi della Juventus), mio padre ne è stato dirigente, i miei zii sono stati giocatori, allenatori, general manager di quella squadra, e quindi per noi il basket e la Juvecaserta sono stati qualcosa che ci riguardava fin da piccoli. Era come andare a scuola, per me. […] Flavio Tranquillo […] ha detto in tv pubblicamente che io ero il Magic Johnson di Caserta. Magic Johnson è il mio mito in assoluto”. […] Qual è stata la sua partita migliore, da giocatore o da allenatore? “La mia partita migliore da giocatore è una finale di play-off con la Little Basket [altra squadra fondata dai Piccolo, da cui il nome Little – ndr], perché segnai gli ultimi 11 punti e fummo promossi; mi ricordo che una mia amica alla fine della partita mi chiese di darle la maglietta per conservarla”» (Desalvo) • «Piccolo in passato ha raccontato la sua adesione giovanile al comunismo pur appartenendo a una famiglia di destra. Ha rivendicato l’appoggio a Walter Veltroni, quando è nato il Pd, e nel recente passato alla leadership di Matteo Renzi» (Zincone). Ciononostante, nel maggio 2020, intervistato da Gabriele Fazio per l’Agi, ha dichiarato: «Se si votasse domani continuerei tristemente, testardamente, ottusamente, a votare il Pd. […] È comunque il partito con cui mi identifico di più, in ogni caso» • «“Berlinguer, che aveva avuto il grande momento da statista con il tentativo di unire il Paese nel compromesso storico, dopo il suo fallimento aveva lanciato l’alternativa democratica, cioè il ripiegamento su se stessi con il culto dei valori perduti e il fastidio per il progresso. Ci aveva così condannati a essere reazionari. […] Ma la colpa, più che di Berlinguer, è di quanti hanno continuato a interpretare il suo sottrarsi ai tempi come un’idea virtuosa». «In linea di massima, […] considero l’idea di sentirsi diversi e migliori il vero cancro della sinistra, uno dei motivi per cui si è ridotta a quasi niente. Essersi sentiti, come diceva Pier Paolo Pasolini, un Paese migliore dentro un Paese peggiore, la considero una cosa inaccettabile. […] Le primarie sono l’altro male assoluto. Hanno distrutto il partito. La sintesi tra le diverse idee si forma attraverso un processo lungo, cioè il congresso». «Se la sinistra non impara a coniugare la leggerezza e la serietà, e quindi a rappresentare davvero tutti, resta elitaria e reazionaria». «Davvero era meglio prima? Io sono un progressista, credo che oggi sia meglio di ieri e che il meglio deve ancora venire». «Ho paura a dire “Non mi candiderò mai”, perché se poi […] dovesse succedere qualcuno potrebbe rinfacciarmelo. Ma oggi penso che il mio ruolo sia un altro: osservare e cercare di raccontare» • «In quello che fa e che osserva c’è questo continuo senso di empatia, l’idea di essere tutti insieme dentro il mondo (“anche dentro il mondo di Berlusconi”), alla pari con gli avversari politici: i centri commerciali, i villaggi vacanze, la televisione trash, l’Ikea, Domenica in, la morbosità delle intercettazioni, Beautiful, il sesso dentro le cose politiche. “Sono arrivato al liceo nel 1978, quando era appena finito tutto, un minuto dopo che avevano chiuso le porte, per questo ho sempre vissuto la politica con un’aria postuma: ho letto tutto il leggibile su quello che non ho visto, ma resto un provinciale meridionale degli anni Ottanta”. Da provinciale meridionale non disgustato del mondo, […] gli viene naturale smascherare lo snobismo e il perbenismo, l’attitudine a provare orrore e senso di superiore distanza per i comportamenti altrui della sinistra chic. “L’ho anche scritto sull’Unità: non mi posso dimenticare che il settimanale di resistenza umana che ho tanto amato, Cuore, nell’ultima pagina faceva una classifica delle cento cose per cui vale la pena vivere. Questi italiani evolutissimi di sinistra che facevano resistenza umana votavano ogni settimana, al primo posto, la fica. Siamo diversi nel voto politico, ma non nelle ossessioni: il maschilismo atavico e spaventoso che si imputa a quelli di destra non è diverso dal maschilismo atavico e spaventoso di quelli di sinistra: […] sarebbe il momento di accettarlo”» (Benini) • «Uno scrittore che sta attento ai conformismi culturali, ovvero a non far male e non pescare la parte peggiore di sé, non è uno scrittore fino in fondo. […] L’idea di raccontare il mondo come dovrebbe essere, con le sue virtù umanitarie e la nettissima divisione fra ciò che bisogna fare e ciò che è proibito, dal punto di vista letterario non mi interessa. […] Io non sono contro la letteratura che cambia il mondo, ma sono contro chi scrive letteratura con l’intenzione di cambiarlo, questo mondo. […] L’indignazione è l’espressione di un pensiero già condivisibile. Questa cosa qui, che dal punto di vista di un cittadino è più che degna, per uno scrittore non è accettabile: uno scrittore deve pensare prima di tutto per sé stesso, quindi far pensare agli altri, delle idee che fino a quel momento non erano condivise in maniera lucida da tutti. Da molti anni, invece, in Italia si esprimono pensieri banalissimi spacciati per qualcosa di importante: una perdita di energia vitale per scrivere qualcosa di utile, in poche parole». «La superficialità non è un valore se non sta accanto alla profondità, ma se l’affianca è legittimata a stare al mondo. Noi tendiamo a scacciarla, a darle un’accezione talmente negativa da provare vergogna nell’essere superficiali, ma io credo fortemente che anche attraverso la superficialità si viva il mondo, lo si comprenda». «I primitivi rischiavano la vita per procurarsi il cibo, ma anche per cercare i coralli. L’essere umano è così: un miscuglio di profondità e superficialità. Sono due aspetti che in genere convivono». «Quando scrivo sono molto molto molto impermeabile al ruolo sociale che avrà il libro e all’interazione che avrà con l’attualità. Io devo raccontare» • «Sono di quelli che hanno paura che la psicoanalisi possa sottrarre qualcosa a questo modo di affrontare i libri. Credo che tutti i “grumi” di una persona che scrive questo tipo di libri debbano essere affrontati nei libri. Forse ho torto, ma sento che, quando ho cose irrisolte, non devo risolverle: devo scriverle». «“Quando ho scritto La separazione del maschio e L’animale che mi porto dentro mi sono occupato di qualcosa che mi interessava a fondo, e l’ho fatto condannandomi e assolvendomi. Lo sguardo che gli altri ti impongono di avere, d’altra parte, è sempre uno solo: se parli della bestialità, devi condannarla. E invece no: a me interessa dire che sono così, non vorrei essere così, ma mi piace essere così, o almeno non mi dispiace del tutto”. […] Le capita di litigare con le donne per quello che scrive? “Naturalmente sì. Per molte però L’animale ha risposto a una loro richiesta precisa: gli uomini devono raccontarsi. Il problema è che ci sono alcune donne che dicono che gli uomini devono raccontarsi ed essere così come loro desiderano che siano gli uomini”. […] “Il #metoo è l’esempio perfetto: siccome la causa è giusta, allora chi la sostiene diventa intoccabile, viene esonerato dalle considerazioni più complesse, va sostenuto e basta”» (Sciandivasci). «Stare al mondo è molto più complicato che stare semplicemente dalla parte del torto o della ragione» • «Se uno fa il mio lavoro non può mai pensare a chi si offende, o prova dolore. Non è bello da dire, ma è così. E, soprattutto: nulla della propria vita è rintracciabile in modo meccanico nei libri. Prendi pezzi veri e li mischi col falso, rubi qualcosa agli altri e te lo attribuisci. È la libertà da cui nasce l’egocentrismo e la spietatezza: è il tentativo di essere follemente sinceri, ma soprattutto è letteratura» • «La scrittura è una combinazione originale di sacra devozione e mentalità da impiegato di concetto. […] Io credo infatti che, così come si va a lavorare ogni giorno, e per forza, allo stesso modo ci si debba comportare con la scrittura, anche ritagliandosi uno spazio parziale, piccolo, ma quotidiano, […] perché, casomai, se non lo hai intuito da solo, […] lo capisci lì dentro, dentro quella costanza, che è questo il vero modo di scrivere, ed è lì dentro che capisci che la scrittura non è inventare qualcosa, ma lavorare su qualcosa, fare in modo che l’invenzione lavorata si compia, divenga qualcosa di sostanziale» • «Hai riti particolari legati alla scrittura? “Mi sveglio alle cinque e mezzo, leggo, accompagno mio figlio Andrea a scuola e poi scrivo all’incirca tutto il giorno”. Prendi appunti su un quadernone, sullo smartphone…? “Su fogli sparsi. Ma ormai faccio quasi tutto a computer. Per i romanzi, procedo così: accumulo idee e le divido per argomento in grossi file. Butto dentro letture, spunti… Quando mi accorgo che sto cominciando ad accumulare materiale soprattutto su un unico argomento, capisco che è arrivato il momento di cominciare il libro”. Ti rileggi gli appunti e parti? “No. Per me non esiste la pagina bianca. Entro nel file, che è un caos con mille cose dentro, mi ci immergo e il libro comincia a costruirsi, si lima, si ripulisce, si monta. Insomma, vive”» (Zincone) • «Il mio problema è che io penso poco alla mia vita: penso di più ai libri. […] Io passo attraverso crisi, euforie, lutti come quello di mio padre, […] passo attraverso eccitazioni, giornate bellissime con i figli, passo attraverso la tensione verso i figli quando si ha paura che stiano soffrendo, e però sempre, nel giorno del dolore grande e nel giorno della grande felicità, io comunque mi siedo e scrivo. Così è strutturata la mia vita, e nulla riesce ad abbattermi su questo». «Io dentro di me ho un padrone che mi dà ordini, e uno degli ordini è: se tu fai tutto quello che avevi detto di fare puoi ascoltare la musica, altrimenti no. Fino a quando non finisco tutto non posso ascoltare Renato Zero. Solo che poi tutto questo mi porta a impazzire, e non ascolto semplicemente Renato Zero, ma faccio Renato Zero nel mio studio da solo con il microfono in mano come gli adolescenti, perché mi devo sfogare di questa liberazione. Questo è il mio sistema di vita, si basa sulla rinuncia. […] Sono diventato una persona saldamente rinunciataria rispetto a tanti piaceri della vita, perché il mio piacere è quello: lavorare. […] Io apro gli occhi e lo scrivere mi ha preso già, e lo porto con me finché chiudo gli occhi la notte, ma essendo un insonne lo scrivere mi prende pure durante la notte. Da una parte lo sento padrone e vorrei un po’ abbandonarlo, vorrei rilassarmi, ma dall’altra parte ci sono aggrappato completamente, non riuscirei a vivere in nessun altro modo». «Faccio lunghi elenchi di cose da fare, in cui metto tutto: quello che devo scrivere, leggere, le persone a cui devo telefonare, posso scrivere anche “volere più bene a…”, perché io mi do un compito per tutto, devo organizzare la mia vita in modo da riuscire sempre a sapere quello che faccio e quello che non faccio, metto a nudo la mia schizofrenia, in questi compiti settimanali e mensili metto anche di andare avanti con gli appunti di un libro che non so nemmeno se scriverò e se lo scriverò lo scriverò fra dieci anni, perché sento che devo portare avanti insieme tutti i carrarmartini del Risiko. Insomma, il mio dittatore è anche il mio gioco preferito». «So benissimo che io dentro questo mondo interiore sono vivo, ma non so bene, a guardarmi da fuori, se lo sono anche per gli altri: la mia famiglia, gli amici, le persone che mi stanno vicino. Mi sento sempre insufficiente come padre e insufficiente come marito, ho sempre l’impressione che si chiedano se ci sono veramente, se sono almeno un po’ affidabile: non so se sia un difetto professionale o un difetto esistenziale. So di avere questo cubetto di ghiaccio nel cuore, come ha scritto Graham Greene, che davanti a ogni cosa e a ogni persona e a ogni situazione mi fa dire soprattutto: scrivi». «Tutte le cose che nella vita non so fare, non so esprimere, credo di poter provare a esprimerle attraverso i libri. Se non ho espresso abbastanza amore verso mio padre credo di averlo risolto attraverso delle cose che ho scritto nei libri: faccio finta di non sapere che questo non vale. Dovrebbe valere la vita, ma che ci posso fare?» • «“Soffro tantissimo […] quando esce un film a cui ho lavorato: sono a casa sul divano e intanto mi immagino tutta la gente al cinema che non si diverte o che pensa ‘Che brutto film’, e mi sento in colpa”. Quando esce un suo libro si tormenta meno, “perché l’accoglienza scivola più morbida: ci vuole tempo, lo compri o non lo compri, lo leggi a casa tua, magari pensi che sono un cretino ma lo trovo meno doloroso, perché critichi soltanto me”» (Benini) • «Francesco Piccolo ha un’anima pop, è un surfista della modernità. Si muove con disinvoltura tra romanzi, cinema, televisione e nei suoi libri racconta la vita senza assoluti, quella fatta di compromessi e piena di difetti. […] Dopo l’incoronazione si sente ancora pop? “Spero fortemente di essere un autore pop. È la mia storia. Mi piacciono i centri commerciali, le multisale, Sanremo. E mi è piaciuto anche partecipare allo Strega”» (De Santis). «Lo sceneggiatore del film più brutto di Nanni Moretti (Il caimano) e del film meno bello di Paolo Virzì (My name is Tanino)» (Camillo Langone) • «Nel tempo ho imparato ad avere un rapporto con le recensioni, belle o brutte che siano, ma anche con gli attacchi personali, molto temperato. […] Io né mi avvilisco né esulto. Non è che pensi che questa roba non sia importante, anzi è importantissima nella vita di uno scrittore. Non ritengo trascurabili le recensioni o i pensieri degli altri sulle mie cose. Però ho imparato a riconoscere le cose sensate da quelle insensate. […] Credo che a questa abitudine mi abbiano portato il cinema e la televisione, che hanno moltiplicato l’esposizione, e mi hanno portato dei giudizi che oscillavano tra il genio e il cretino: e allora capisci che non sei né l’uno né l’altro, e che le cose le devi prendere per come arrivano» • «Chi sono i tuoi modelli? “Non vorrei sembrare presuntuoso dicendo Ennio Flaiano. Anche lui scriveva per il cinema e per la letteratura”. E anche lui somigliava fisicamente a un orso. “È vero. C’è qualcosa …”. […] Di Flaiano ti manca il veleno. “Io sono contento, lui era disperato”. Lui scriveva poco, tu sei incontinente: non è facile immaginare un Sanremo di Flaiano. “E chi può dirlo?”» (Merlo) • «La mia vera felicità corrisponde a quando ho pubblicato un libro e le porte si richiudono per cominciare a scrivere qualcosa di nuovo. Stare da solo immerso nella scrittura per anni è il mio vero momento di felicità». «“Sono molto legato a tutto quello che ho scritto, ma non provo un sentimento specifico: sono affezionato nel ricordo, ma non ci penso mai. Sia con i libri, sia con i film. Penso sempre al ‘dopo’, mi concentro sul futuro: devo avere sempre qualche progetto in cantiere”. […] È rimasto qualcosa del suo sguardo da provinciale. “Tutto. L’essere scrittore e l’essere provinciale per me coincidono. Ho proprio un atteggiamento provinciale. Lo stato mentale del provinciale, non lo perdi mai: quello è il tuo punto di vista, da lì nasce la tua visione”» (D’Alessio). «Ha vinto lo Strega e […] il David di Donatello come sceneggiatore per Il traditore di Bellocchio. Come mai insiste a raccontarsi come uno qualsiasi? “Il problema è come ci si sente. Io continuo a sentirmi come uno di Caserta che da un momento all’altro può essere rispedito da dove è venuto. So che potrebbe risultare insincero, ma è vero. Nell’Animale che mi porto dentro ho cercato di affrontare l’altro me stesso, quello che si sente stocazzo: in realtà non riesco a staccarmi dalla mia immagine di ragazzo di provincia. Lavoro ossessivamente, ho consapevolezza di quello che ho fatto, ma in fondo mi pare ancora di essere un intruso”» (De Santis).