12 marzo 2021
Tags : Luciano Ligabue
Biografia di Luciano Ligabue
Luciano Ligabue, nato a Correggio (Reggio Emilia) il 13 marzo 1960 (61 anni). Cantautore. Regista. Scrittore. Album: Ligabue (1990, cinque dischi di platino), Lambrusco, coltelli, rose & popcorn (1991), Sopravvissuti e sopravviventi (1993), A che ora è la fine del mondo? (1994), Buon compleanno Elvis (1995), Su e giù da un palco (1997, live), Radiofreccia (1998), Miss Mondo (1999), Fuori come va? (2002), Giro d’Italia (2003, live), Nome e cognome (2005), Primo tempo (2007), Secondo tempo (2008), Sette notti in Arena (2009), Arrivederci, mostro! (2010), Campovolo 2.011 (2011), Mondovisione (2013), Made in Italy (2016) e Start (2019). Film: Radiofreccia (1998, presentato fuori concorso al Festival di Venezia, tre David di Donatello, uno dei quali allo stesso Ligabue per la regia, e Nastro d’argento come miglior regista debuttante), Da zero a dieci (2002, Nastro d’argento), Made in Italy (2018); Libri: Fuori e dentro il borgo (Baldini & Castoldi, 1997), La neve se ne frega (Feltrinelli, 2004, 200 mila copie vendute, ne è stato tratto anche un fumetto, ha vinto il premio Fernanda Pivano), Lettere d’amore nel frigo (Einaudi, 2006), Il rumore dei baci a vuoto (Einaudi, 2012), Scusate il disordine (Einaudi, 2016). Nel 2020, per i sessant’anni di vita e i trent’anni di carriera, ha pubblicato il libro È andata così (Mondadori, scritto con Massimo Cotto), l’album di inediti 7 («perché 7 è il mio numero magico. Una volta due numerologhe mi hanno detto che io ho un 7 che cammina. Mi sono fidato e assecondo questa teoria ogni volta che posso») e il cofanetto 77+7 («incredibile ma vero, ho scoperto che nella mia carriera ho pubblicato 77 singoli, in pratica uno ogni cinque mesi»).
Vita «Sono nato in un appartamento di via Santa Maria, una strada del centro. È stato un parto a rischio. Fin dal principio io non ho scelto la via più facile per vivere…» • «Mia madre per tre volte mi ha di fatto ridato la vita. La prima: la levatrice, che si era presa la responsabilità di voler fare il parto in casa, si accorse che il cordone ombelicale mi si era attorcigliato intorno alla fronte e mi impediva di uscire. Finalmente con un dito mi liberò e così mia madre, quando sembrava già tardi, con le ultime spinte mi mise al mondo. La seconda: a un anno e mezzo avevo la pertosse ed era così cattiva che, con i colpi che davo, mi era venuta l’appendicite. Ma nessuno se n’era accorto. Io continuavo a piangere e mia madre mi portò in farmacia per trovare qualche rimedio. Lì incrociò un medico che mi fece una visita sommaria, sufficiente per portarmi in ospedale d’urgenza perché era già diventata peritonite. Infine l’ultima: banale operazione alle tonsille, ma mia madre decise di passare la notte con me contro il volere dei sanitari. Ad un certo punto lei cominciò a dire: “Guardate che non sta bene…”. Ma gli infermieri le ripetevano che non era nulla, di stare tranquilla, che il giorno dopo sarei stato come nuovo. Non la convinsero e andò a chiamare un medico per fargli vedere le mie unghie che stavano iniziando a ingrigirsi. Il dottore mi dette uno scossone e io iniziai a vomitare sangue: c’era un’emorragia in corso. Di nuovo di corsa in sala operatoria per un secondo intervento e io rimasi, credo sia un record assoluto per un’operazione alle tonsille, 17 giorni in ospedale. E questa è la Rina, mia madre» (a Pasquale Elia) • «Mia madre era una contadina, mio padre invece è sempre stato una testa libera. Non si è mai precluso niente e ha fatto mestieri molto diversi. Di base era un commerciante che ha venduto casa per casa dal riso alla frutta e verdura. Poi ha cambiato genere e s’è lanciato nell’avventura di aprire un negozio: Ligabue tessuti e confezioni. Ma è stato anche il gestore di una balera e di un deposito per pellicce. Ricordo anche periodi in cui non lavorava o si dedicava a intermediazioni di immobili. Appena sentiva il soffio della noia, cambiava aria» • «A dodici anni ho capito che c’era qualcuno che poteva fare le canzoni in modo diverso, erano i cantautori. In particolare Theorius campus, di Venditti e De Gregori, ha cambiato la mia percezione. Tre anni dopo, mio padre, che gestiva una balera coi gruppi di liscio, e per tutta la vita mi aveva detto: I musizéssta i én tótt murt ed fãm, i musicisti sono tutti morti di fame, contravvenne alle sue convinzioni e mi regalò una chitarra. Poi la nascita delle radio libere, la consapevolezza che uno poteva far sentire la sua voce» • Debutto nel 1987 con il gruppo Orozero. Partecipano a diversi concorsi regionali. Cantano Bar Mario, Sogni di rock’n’roll ecc. Pierangelo Bertoli, dopo aver messo in un suo album i Sogni, lo presenta al produttore Angelo Carrara. Primo singolo Anime in Plexiglass (1990). Vinile, introvabile, è una rarità da collezionisti • «“Ho cominciato tardi a fare musica. La prima volta che ho suonato con una band avevo 26 anni. A 27 il primo concerto in un circolo culturale a Correggio. Salimmo su una pedana improvvisata alle quattro del pomeriggio, un’ora in cui di solito nel mio paese si fanno le tombolate”. Che accoglienza riceveste? “Suonammo davanti a una settantina di amici e conoscenti. Tutta la timidezza che mi portavo addosso da anni, sparì sulla pedana. Mostrai una sicurezza che non avevo nella vita. Fu una rivelazione per me e per gli altri”. Fino a quel momento cosa avevi fatto? “Lavori stagionali, raccogliendo frutta in campagna, il metalmeccanico e perfino il dj in una piccola radio locale”. La musica com’era entrata nella tua vita? “Nelle nostre terre emiliane la musica ci appartiene come noi apparteniamo ad essa. Forse abbiamo l’alibi della nebbia che ci costringe a immaginare e a inventare storie. Io la musica l’ho sempre ascoltata e amata. In modo caotico, per tutta l’adolescenza. Poi mio padre mi regalò una chitarra. Tutto mi sarei aspettato da lui tranne quel dono inatteso”. Perché inatteso? “Dovrei raccontarti di un uomo che sognava in grande dentro un orizzonte troppo piccolo”. Prova a farlo. “Mio padre si chiamava Giovanni, a volte ci raccontava di imprese più grandi di lui. Io e mio fratello lo ascoltavamo rapiti, mentre mia madre disapprovava. Prese in gestione dei locali dove si ballava il liscio, ma si suonava anche musica meno tradizionale. Al Tropical, un postaccio, a Rovereto sul Secchia, si affacciarono i Nomadi, e venivano anche certi cantautori nazionali. Lì sentii suonare Ivan Graziani. Ma il primo concerto che ascoltai fu quello di Lucio Dalla al Foxtrot di Carpi. Mio padre mi spinse a chiedergli l’autografo. Dalla fu gentile e disponibile con un timidissimo dodicenne”. Sentivi che quella era la tua strada? “Non da percorrerla, soprattutto allora. E poi c’era il monito di mio padre che aveva sotto gli occhi le orchestrine del liscio con cui lavorava, cogliendone tutta la provvisorietà: le macchie sui gilè sgargianti e la fatica dei suonatori a cottimo. “Cosa vuoi fare Luciano, cantare? Ma trovati un mestiere serio”, mi diceva. E poi, così, senza nessuna giustificazione, arrivò la chitarra in dono per i miei 15 anni”. Che musica ti piaceva? “Era il periodo delle radio libere e dei cantautori che scimmiottavo, componendo canzoni che non mi somigliavano. Poi scrissi un testo che raccontava il mio sabato sera e sentii che quella canzone aveva il tono giusto. Oltretutto, mi sembrò di poterla accostare al mondo di uno scrittore che amavo: Pier Vittorio Tondelli, anche lui di Correggio. Tutto quello che avevo sotto gli occhi, lui lo aveva reso interessante con i suoi libri”» (ad Antonio Gnoli) • «Con Tondelli ci siamo incrociati qualche volta, ma per le rispettive timidezze non ci siamo mai detti nulla. Però c’è una storia che ci unisce ulteriormente. Nel dicembre del ’91, all’inizio della mia carriera (non sono stato un enfant prodige, avevo già trent’anni) abitavo nello stesso condominio dei suoi genitori. Un giorno mi sveglio con la febbre alta. La sera avevo un concerto, ma non sono riuscito nemmeno ad arrivare al sound check. È stato il primo e unico concerto saltato nella mia vita. Quella notte, mentre mi aggiravo per casa nel delirio della febbre, al piano di sopra stava morendo Tondelli, malato di Aids. È una cosa su cui ho molto favoleggiato, dal punto di vista strettamente personale. Forse, se nel mio paese non ci fosse stato uno che aveva così tanta voglia di raccontare quello che gli passava sotto gli occhi, non avrei mai sviluppato un mio punto di vista» (a Camilla Baresani) • È diventato il primo rocker italiano a suonare per sette volte nel giro di dieci giorni nella stessa città: prima a Roma (al PalaEur dal 17 al 26 novembre 2007) poi a Milano (dal 12 al 21 dicembre 2007 al Forum) per lanciare un “best of” in due parti: Primo tempo (2007, con gli inediti Buonanotte all’Italia e Niente paura), Secondo tempo (2008, con gli inediti Il centro del mondo, Il mio pensiero, Ho ancora la forza) • Il 2011 è l’anno di Campovolo 2.0, nuovo mega-concerto da cui è tratto il primo film italiano che racconta uno show musicale in 3D e il triplo album Campovolo 2.011 • «Qualche anno fa hai rischiato di troncare la carriera per colpa della voce. “Fu a causa di una micidiale influenza che si era trasformata in laringite. Ho sempre cercato di dare il massimo nei concerti. C’era un lungo tour da affrontare, mi riprendo e, bene o male, lo porto avanti. Poi una sera, al Forum di Assago, il giorno dopo il mio compleanno, arrivò il crollo. Feci il concerto più brutto della mia vita. Credevo di prendere una nota e ne usciva un’altra. Mi vergognavo di me, chiesi scusa davanti a 13 mila persone. Il pubblico capì il dramma. Il giorno dopo scoprirono un polipo alle corde vocali. Fui operato a Lione e tutto è andato per il meglio […] Ero abbastanza disperato. Disperato perché non sapevo con che voce mi sarei ritrovato. Comunque dovetti attendere più di sei mesi prima di riprendere i concerti. In quel lungo intervallo chiamai Domenico Procacci, produttore della Fandango, e insieme realizzammo il film Made in Italy, la prosecuzione di un album che era nato dai miei concerti negli Stati Uniti» (a Gnoli).
Vasco Storica rivalità con Vasco Rossi. «Si cominciò nel secolo scorso, ai tempi di Radiofreccia. Era morto Massimo Riva – chitarrista e amico di Vasco – e Ligabue dichiarò: “Il pensiero comune era che si potesse smettere quando si voleva. Per i musicisti rock c’è l’alibi dello scotto da pagare, per fare musica. Dunque secondo il galateo della rockstar, io che non mi drogo sarei fuori target”. A Vasco la cosa non piacque per niente e se la legò al dito: “E’ morto un amico e invece del silenzio c’è chi, per accrescere la sua popolarità, specula lanciando inutili messaggi moralizzatori”. Una frattura mai sanata, se molti anni più tardi Vasco Rossi ancora definisce Liga un “bicchiere di talento in un mare di presunzione”. Sono seguiti blandi tentativi di riconciliazione, magari sull’onda di quegli eventi di beneficenza per le disgrazie della loro terra. Ma anche su quello, i due la vedono diversamente: “Non parteciperò a nessun concerto di beneficenza”, scrive Vasco online: “Non amo quel modo di farla, poco costoso e poco faticoso”. Quindi saltuari segnali di pace, poi più nulla, perché non è che la questione sia così determinante e quando s’arriva a una certa età si accetta anche il fatto che a qualcuno vai a genio e a qualcun altro meno» (Stefano Pistolini).
Amori Due figli: Lorenzo Lenny, dalla prima moglie Donatella Messori (separazione nel 2002 dopo 15 anni di matrimonio), Linda da quella attuale, Barbara Pozzo (la sua ex fisioterapista). «I loro nomi iniziano con la L, come mi ha chiesto mio padre, perché secondo lui avere iniziali uguali porta fortuna» (a Baresani). A Donatella, che occupa sempre un ruolo importante nella sua vita, ha dedicato L’amore conta • «Io sono lento, ho fatto il primo album a 30 anni, il primo figlio a 38» • «Lenny non vive con me, Linda sì. Lenny ha un grandissimo talento musicale, a due anni teneva il tempo dei Nirvana con le bacchette, ha molto più orecchio di me, vuol fare da solo, naturalmente. Linda è vanitosa, ingenua, molto popolare fra le amiche. Li amo. Ne avrei voluti altri, di figli. Tanti. Ne ho persi tre. Due nel passato, uno pochi anni fa da Barbara, la madre di Linda. Al sesto mese di gravidanza. Un lutto che non trova casa, nessuno lo considera un vero lutto».
Religione «Provengo da una famiglia comunista. Ma fin dall’adolescenza, sono andato in chiesa per soddisfare un bisogno spirituale. Ero un timido alla ricerca di qualche certezza. Gli amici mi guardavano in modo strano. Forse non capivano o ero io a non farmi capire. […] Avendo praticato seriamente, è difficile che possa aver smesso di essere del tutto cattolico. Ma ho capito che una religione non si fonda sul dolore. Quando entravo in chiesa, certe liturgie, o certe immagini, come la corona di spine, mi turbavano profondamente. Non è possibile, pensavo, che una religione debba esibire tanta sofferenza. Non è giusto che il bisogno di credere sia condizionato dalla paura di Dio» (a Gnoli) • «Quello del “mangiate il mio corpo, bevete il mio sangue” è stato sempre un rito che mi ha messo i brividi. Tuttavia continuo ad avere un forte bisogno di spiritualità, non sempre da indirizzare verso un’entità precisa, a volte anche da rivolgere all’universo e alle sue norme» (a Elia).
Politica È stato consigliere comunale a Correggio: «Ho partecipato a tre sedute come indipendente del Pds. Mi ero candidato per occuparmi di musica, ma mi sono subito accorto che la musica era l’ultima delle voci in bilancio. Una cosa però l’ho capita: far funzionare le cose attraverso la politica è molto difficile. Ci vogliono diplomazia e pazienza, doti che io non ho. Così, quando ho compreso che non c’entravo niente, ho dato le dimissioni» • «Non sono così attaccato ad un’idea fissa. Si sa che vengo da una famiglia comunista, l’ambiente qui intorno era, negli anni 60-70, assolutamente così, quasi con percentuali bulgare. A Correggio, il centro cittadino è letteralmente tagliato a metà da corso Mazzini che all’epoca divideva don Camillo da Peppone, si stava o di qua o di là. Io seguivo i miei genitori, ma poi andavo anche a messa. Ho sempre avuto le mie simpatie, ho sempre votato a sinistra, ma questo non ha mai voluto dire aderire ad un dogma, essere allineato. Ecco, se c’è una cosa che mi dispiace è aver visto svanire quell’adesione popolare al Pci che gli altri partiti non avevano. Lo vedevo qui alla Festa dell’Unità quando tante persone prendevano le ferie per lavorare come dei matti, senza venir pagati, ma semplicemente perché comunque volevano contribuire ad una causa. C’era proprio una fiducia illimitata in quella cosa che sicuramente non andava di pari passo con l’idea del comunismo sovietico» (a Elia) • Nel 2004 la sua canzone Una vita da mediano è stata la colonna sonora della candidatura di Romano Prodi. «Per me i politici non sono tutti uguali (...) Lui sì che ha fatto di tutto per fare il mediano».
Vizi Ama il lambrusco, il biliardo, il calcio: da ragazzo ha giocato come mediano nella squadra del paese. Una passione per Elvis Presley: si è fatto incidere il suo nome sul manico della chitarra.
Tifo Interista. «Perché quando ero bambino stava vincendo tutto, io però mi sono beccato poi i quarant’anni di buio fino al 2010, un anno straordinario in cui finalmente è tornato a vincere: ero commosso. Ancora oggi riesco a farmi guastare l’umore alla domenica. Lo so, è pazzesco, ma non c’è niente da fare» (a Luca Valtorta) • Suo idolo Gabriele Oriali, mediano degli anni Settanta/Ottanta. In occasione dello scudetto 2007, il 27 maggio improvvisò un concerto a sorpresa per la squadra allo stadio Meazza.