15 marzo 2021
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Biografia di Teresa Berganza
Teresa Berganza, (Teresa Berganza Vargas), nata a Madrid il 16 marzo 1933 (88 anni). Mezzosoprano. «La più sublime dei mezzosoprani» (Claudio Abbado). «La longevità di cantanti come me, Mirella Freni, Alfredo Kraus dipende dall’aver rispettato le caratteristiche naturali delle nostre voci. La voce è un dono prezioso, ed è un diamante che va pulito, ma non troppo, altrimenti si assottiglia» • «Una carriera lunghissima che l’ha portata a esibirsi nei più grandi teatri del mondo. Eccellente interprete di Rossini, Mozart, Donizetti, nonché indimenticabile Carmen» (Paola Zonca) • «Sono nata in casa il 16 marzo 1933 alle 14 a Madrid. Abitavamo in calle San Isidro 13. I miei genitori avevano già avuto […] un bambino di nove anni e una bambina di tre anni, e non volevano avere altri figli, ma io sono arrivata lo stesso, per i piedi, in un modo doloroso per la mamma, che aveva già sofferto perché mi muovevo molto nel suo grembo e non vedevo l’ora di venire al mondo». «La guerra civile era qualcosa di terribile: una lotta fratricida. Ma non abbiamo mai sofferto la fame, mio fratello, mia sorella e io. Quando avevamo solo un’arancia (che chiamavamo “arancia di Washington”, facile da sbucciare e senza semi), mio padre la condivideva con noi tre dopo averla sbucciata in un unico nastro per farci divertire e ci raccontava delle storie per alleviare il peso delle privazioni. La sua fantasia addolciva la vita di tutti i giorni. Ricordo anche che andavamo in cantina per proteggerci dai bombardamenti». «Mio padre era un contabile in un’azienda elettrica. Suo padre è morto prematuramente lasciando tredici figli a una donna che è stata costretta a lavorare come lavandaia per nutrirli. Mio padre ha avuto la possibilità di entrare in collegio, dove si è appassionato alla musica, alla letteratura e alla pittura. Suonava bene il pianoforte e ha imparato il clarinetto e la tromba durante il servizio militare. Uno zio di mia mamma, che era più fortunato di noi, aveva lasciato in eredità alla mamma dei vecchi mobili e un po’ di soldi. L’amore di mia madre per mio padre era così forte che ha usato questa eredità per comprargli un pianoforte. Così dopo il lavoro suonava più e più volte brani di sinfonie, arie di Wagner o canzoni popolari. Tutto ciò che sentiva e amava. Io cantavo con lui. Ero molto piccola quando mi prendeva sulle sue ginocchia e guidava il mio dito a suonare il tema del primo movimento della Sonata “Facile” in do maggiore di Mozart. Mi impegnavo a provare questo brano durante il giorno, per dimostrargli che avevo fatto un buon lavoro lui quando veniva la sera e mi riprendeva sulle sue ginocchia. […] A sette anni, sono stata iniziata al solfeggio da mio padre. A dieci anni, ho studiato il pianoforte più seriamente. La sera mi esercitavo con la sordina per non disturbare i vicini. […] A dodici anni, sono entrata a far parte dei Cantores de Madrid, un coro da camera. […] E poi sono stata accettata in Conservatorio». «A diciassette anni ho avuto una crisi mistica molto forte. Mi sono sentita chiamata da Dio e ho voluto entrare in convento, presso le Clarisse francescane ad Alcalá de Henares, dove è nato Cervantes. Le suore furono felicissime di accogliermi, perché suonavo l’organo e conoscevo perfettamente il canto gregoriano. Ho dato loro lezioni di tecnica vocale perché cantavano tutte con il naso. Mi vedevo come la sposa di Gesù Cristo. Ero felice. Si suonava, si cantava, si pregava. Era fantastico! Forse avrei dovuto restare lì… Il velo mi stava benissimo, ero bellissima. L’unica cosa dolorosa erano le mattine: alzarsi alle cinque del mattino per cantare! Probabilmente sarei ancora al convento se non avessi saputo che mio padre era molto malato e stava per morire. Mi sono precipitata al suo capezzale, e lui ha detto: “Mi sento come se stessi già meglio”. Quindi diventare di nuovo una figlia amorevole mi ha portato via dalla mia vocazione di suora. Ho continuato ad andare in chiesa. Parlavo con Dio, in ginocchio, per ore». «Al Conservatorio ho studiato solfeggio per quattro anni, musica da camera per quattro anni, armonia e composizione per due anni. Dovevamo suonare una partitura orchestrale direttamente al piano, a prima vista. Ho anche studiato l’organo con il compositore Guridi, di cui più tardi ho cantato le Canciones. Volevo fare direzione d’orchestra, ma all’epoca alle ragazze non era permesso dirigere. Poiché l’insegnante mi apprezzava, mi lasciava entrare in classe come ascoltatore libero. […] Al piano adoravo Chopin e Liszt, su cui ho lavorato per otto anni perché corrispondevano al mio temperamento romantico. Ma ho comunque ottenuto il mio primo premio per pianoforte con la Sonata in la maggiore “alla turca” del mio caro Mozart. Era senza dubbio un segno». «Nel coro avevo imparato a cantare. Avevo una bella voce, ma ancora non lo sapevo. Nei corridoi si sentivano gli allievi delle classi di canto interpretare in modo meraviglioso le arie de La bohème o di Rigoletto. Non sapevo nulla di questo universo, non essendo mai stata all’Opera. Un giorno sono entrata nella classe di Lola Rodríguez Aragón, che era un’allieva di Elisabeth Schumann. Mi sono seduta in prima fila ad ascoltare con tutte le mie orecchie e con tutta la mia anima. Lola mi ha chiesto: “Tu che cosa canti?”. Confusa, ho risposto: “Niente”. Lei ha sorriso e mi ha dato la partitura di Voi che sapete di Cherubino ne Le nozze di Figaro. Che straordinaria intuizione da parte sua, non è vero? “Canta come puoi, prova!”, mi ha detto lei. Dato che non conoscevo affatto la melodia, ho cantato in solfeggio, senza dire le parole. “Forse non sei una cantante, ma sei una musicista”, ha decretato. Poi mi ha fatto decifrare O del mio dolce ardore di Gluck. Deve esserle piaciuto, perché ha deciso di occuparsi di me”. Il secondo giorno, Lola mi ha chiesto di sdraiarmi sul pavimento e mettere una pila di libri sul mio diaframma. “Devi prima imparare a respirare, e quindi a far lavorare i muscoli”. Mi ha mostrato come inspirare con il naso, e i libri sono saliti di colpo. Poi a trattenere l’aria nei polmoni, grazie ai muscoli del diaframma, e a far scendere i libri molto dolcemente, espirando con un piccolissimo getto d’aria. Così ho lavorato alla gestione dell’aria per settimane. Pochissima aria per il pianissimo, un po’ di più per il piano, ancor più per il mezzo-forte e molto di più per il forte. […] Lola mi ha detto che potevo cantare le parti di soprano lirico, poiché potevo giungere senza sforzo al mi bemolle acuto, ma che avevo un colore naturale da mezzosoprano. Quindi non ha cercato di plasmare la mia voce nella prospettiva di una carriera o un impiego particolare, ma di svilupparla secondo la mia natura profonda». «Il debutto fu un recital all’Ateneo di Madrid nel ’55, in cui arrivai con un programma (Max Reger, Montsalvatge, Schumann) dettato dall’incoscienza giovanile» (a Elisabetta Torselli). «Il lancio vero e proprio l’ebbe in terra francese, durante il Festival di Aix-en-Provence del 1957, quando interpretò mirabilmente Dorabella nel Così fan tutte. Subito Teresa Berganza si rivelò stilista di singolare raffinatezza» (Enrico Stinchelli). «“I miei inizi sono stati segnati da una certa incoscienza. Durante il mio primo grande recital a Parigi, al Théâtre des Champs-Élysées, avevo dimenticato l’ora del concerto e dormivo tranquillamente nella mia stanza, al Meurice, quando il direttore d’orchestra, in preda al panico, mi chiamò, un quarto d’ora prima che si alzasse il sipario! Ho avuto solo il tempo di indossare il primo vestito che ho trovato, mia madre mi ha prestato uno scialle per fare scena e sono arrivata tutta sudata, senza aver scaldato la voce né essermi truccata, giusto per l’ora del concerto. Fu un trionfo”» (Thierry Hillériteau). «A lungo, mantenne il suo repertorio incentrato su Rossini e Mozart (L’Italiana in Algeri, Il Conte Ory, Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola da un lato, La clemenza di Tito, Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte dall’altro): temeva che la sua voce potesse alterarsi se non si fosse attenuta a quell’estensione vocale» (Eileen Romano). «Teresa Berganza entra ben presto in quella ristretta schiera di nomi che hanno fatto grande la storia dell’opera nel ventennio compreso grosso modo tra il 1960 e il 1980, quando nasce e si impone il fenomeno della Belcanto Renaissance. […] In un periodo in cui l’astro di Marilyn Horne doveva ancora sorgere, Teresa Berganza si distingue come la prima vocalista del Novecento in grado di eseguire a regola d’arte il Rossini comico di Barbiere di Siviglia, La Cenerentola e L’italiana in Algeri. […] Le esecuzioni della Berganza si impongono per una tecnica di fonazione d’alta scuola, il legato perfetto, la levigatezza e la fluidità della vocalizzazione, a cui si aggiungono una dizione nitida e un accento nobile. Un tipo di canto in apparenza spontaneo e diretto, in realtà stilizzato e aristocratico, contrassegnato da un atteggiamento cauto nelle variazioni, nell’interpolazione di cadenze e fioriture. Ne risulta un Rossini elegante e malizioso, più che folle e pirotecnico. In ogni caso un Rossini di origine controllata, privo di manierismi e leziosità, quale nessun mezzosoprano del XX secolo fino a quel momento era mai riuscito a realizzare. […] Il temperamento e il timbro vellutato, caldo e dal limpido smalto brunito, portano spontaneamente la Berganza a confrontarsi anche con il repertorio mozartiano. La sua prima decisiva affermazione teatrale risale non a caso a un Così fan tutte al Festival di Aix-en-Provence. Dorabella da una parte e Cherubino delle Nozze di Figaro dall’altra sono in pratica gli altri due pilastri dell’arte della Berganza. Che con soli cinque ruoli diventa nel giro di pochi anni uno dei punti di riferimento della vocalità del secondo Novecento» (Roberto Mori). «Gli sconfinamenti al di fuori di Rossini e Mozart sono amministrati saggiamente e consentono alla cantante di conseguire esiti artistici notevoli. Si pensi alla Neris interpretata a Dallas, nel 1958, nella Medea al fianco di Maria Callas, o all’Isoliero del Conte Ory di Rossini, sempre del 1958, realizzato alla Piccola Scala di Milano, dove successivamente canterà Orontea di Cesti e Dido and Aeneas di Purcell. Tra gli altri ruoli occasionali, nell’ambito della musica barocca, si segnalano l’Ottavia dell’Incoronazione di Poppea, cantata ad Aix nel 1961, e il Ruggiero della memorabile Alcina discografica realizzata nel 1962 con Sutherland, Freni e Sciutti. Verso la fine degli anni Sessanta, la cautela dimostrata nell’ampliamento del repertorio mostra un contenuto cedimento verso l’opera francese: Mignon di Thomas e Charlotte del Werther di Massenet. A questi seguirà Carmen, altro personaggio destinato a rimanere legato indissolubilmente all’arte vocale di Teresa Berganza. Nel 1977, a Edimburgo, sotto la direzione di Claudio Abbado, la cantante ne realizza un’interpretazione – successivamente consegnata al disco – per molti aspetti inedita, alla quale approda dopo una lucida speculazione critica» (Mori). «Vent’anni dopo i suoi inizi, fu convinta da Peter Diamand a tentare la Carmen: “Sai, Bizet è molto più vicino a Mozart di quanto non lo sia a Puccini”. Lesse la novella di Mérimée e scoprì che il torero Pepe-Hillo era un personaggio storico, e che era stato perfino ritratto da Goya. La sua curiosità si accese, ed entrò nella parte. Non voleva fare la solita Carmen aggressiva, seno prorompente e mani sulle anche: “Carmen è una donna passionale, ma non mostra la sua passione. Non si butta sugli uomini come una assatanata. È una regina che decide chi, quando e dove”. Andò perfino a Granada per studiare la vita degli zingari. Ne incontrò una vera che viveva in una grotta, tutta vestita di nero, con una grande scollatura. Questa le lesse la mano e le disse: “Sarà bellissimo. Sei come noi. Hai la pelle e gli occhi di una zingara. Fallo!”. E così divenne la “Carmen del secolo”, come la definì Herbert von Karajan» (Romano). «Lo scavo intimistico e il processo di miniaturizzazione vocale e psicologica portano l’interprete a rendere con distaccata fatalità la vicenda di Carmen, a viverne la tragedia in una dimensione interiore, assecondando puntualmente tutte le sfumature di una scrittura punteggiata da Bizet con continue prescrizioni a cantare piano e leggero» (Mori). «Il 1979 segna una tappa importante per Teresa Berganza, in quanto è l’anno dell’uscita del celebre Don Giovanni diretto da Joseph Losey. Il grande pubblico scopre al cinema una piccante Zerlina di fronte al Don Giovanni di Ruggero Raimondi, perché la cantante è anche un’attrice formidabile. Parallelamente alla sua carriera lirica, Teresa Berganza tiene numerosi recital che le permettono di far conoscere meglio le melodie dei grandi compositori spagnoli, siano essi Manuel de Falla, Enrique Granados o Joaquin Turina. La cantante è anche una perfetta ambasciatrice della zarzuela, una sorta di equivalente dell’operetta francese. Nel 1992 Teresa Berganza saluta la scena lirica al Teatro de la Maestranza, a Siviglia, con Carmen» (Catherine Duault). Pur rifiutando di prendere ancora parte a opere liriche – a suo dire, perché incompatibile con registi troppo estrosi e modernizzanti –, la Berganza continuò comunque a tenere concerti per molti anni, fino al 2008, anno del suo definitivo ritiro dalle scene. «Ho smesso di cantare a settantacinque anni. Sono rimasta quattro mesi senza fare un vocalizzo per la prima volta nella mia vita da quando avevo diciotto anni. Dopo cinquantatré anni di carriera, posso svegliarmi nel mio letto senza l’angoscia di aver perso la voce durante la notte, senza prendere il primo aereo per consultare il mio medico non appena si presenta un problema sconosciuto. Non volevo tirarla in lungo: diventare una vecchia gloria del canto che rifiuta di smettere con la voce che trema è escluso. Ho troppo orgoglio e troppo rispetto per la musica. Non ho voluto neppure prestarmi a una interminabile e ridicola tournée d’addio. Quando è finita, è finita. Ho sempre odiato i tributi, che somigliano a funerali di prima classe. Tutti affermano che sei formidabile, anche quelli che ti odiano e diventano gentili non appena smetti di sembrare un pericolo. Vivo nella musica. Aiuto i giovani cantanti». «Durante la mia carriera, ahimè, non ho avuto tempo per l’insegnamento. Poi è giunta la ritirata, un momento speciale in cui non bisogna mai smettere di fare le cose con intelligenza e passione. Nella strategia militare, una ritirata fatta in tempo, nel momento giusto, è una vittoria. Allo stesso modo, nelle attività umane, soprattutto nel canto, bisogna sempre sapere cos’è la dignità del finale. Ma poi ho capito che con la carriera non finisce mica tutto: si perdono delle facoltà fisiche ma non le conoscenze, la tecnica e l’esperienza. Tutto ciò […] deve essere messo al servizio degli altri: trasmettere questi saperi e questi valori alle generazioni successive è un dovere oltre che una immensa gioia. Dedicarmi all’insegnamento mi ha dato grandissime soddisfazioni. Vedendo chiudersi la vita da cantante ho subito scoperto un nuovo mondo di esperienze e obiettivi nuovi». «Qual è il livello di preparazione dei giovani artisti? “Hanno voci bellissime, ma tendono a cantare tutto troppo forte. Lo dico sempre ai ragazzi: un compositore come Verdi ha scritto pagine di una delicatezza incredibile. E li sprono a usare la voce come una tavolozza, a trovare il colore giusto per ogni frase. […] Il problema è che hanno tutti troppa fretta: e invece dovrebbero imparare a conoscere la propria personalità, le proprie potenzialità, ad amministrare il loro prezioso strumento, che va amato come un figlio, e a non bruciare mai le tappe. Le faccio solo un esempio: per sapere se potevo sostenere il ruolo di Carmen, ho aspettato vent’anni”» (Zonca) • «Si canta come si è; e Teresa è l’interiorizzazione, la delicatezza musicale, la sensualità e la fantasia fatta poesia. Questo è lo stile Berganza. Uno stile coniato quel giorno a Aix-en-Provence, in cui la critica francese annunciò la nascita della mezzosoprano del secolo, stile riaffermato a Salisburgo per raggiungere il suo culmine di consacrazione a Edimburgo, quando Teresa assume il difficile e importante impegno di affrontare Carmen. […] Stile Berganza che incanta l’Opéra di Parigi, Vienna, La Scala, il Covent Garden, il Teatro dell’Opera di Roma, il Colón di Buenos Aires, la New York Metropolitan Opera, Dallas, Chicago, la San Francisco Opera, Amburgo, Stoccolma, ecc. Sotto la direzione di Giulini, Rescigno, Von Karajan, Solti, Mehta, Abbado, Barenboim, Muti, Adler… e rigorosi registi come Strehler, Zeffirelli, Rennert, Ponnelle, Faggioni, tra altri. Teresa è diventata la prima e unica donna academica di numero presso l’Accademia Reale di Belle Arti di San Fernando di Spagna» (Alfonso Sáiz Valdivielso). «Lei ha fatto in tempo a essere compagna di Maria Callas. “Sì, nel ’58, a Dallas, in Medea. Contrariamente a quello che dicono tanti, è stata generosissima nel lasciare spazio in scena a me, giovane e piena di paure. Cantavo la fine della mia aria appoggiata alle sue spalle. Scoppiarono gli applausi ma io non ce la facevo a voltarmi, a ringraziare, mentre lei mi esortava, e alla fine mi ordinò: ‘Vòltati al pubblico, o lo faccio io’. Non ho fatto una cosa che Maria avrebbe voluto, la Norma con lei: avevo paura della parte di Adalgisa. Ho un ricordo triste di questo: dopo anni ci incontrammo al Biffi Scala, le dissi che ero pronta. ‘È troppo tardi: ora, Norma, non la canto più’, disse lei”» (Torselli) • Tre figli (tra cui il soprano Cecilia Lavilla Berganza) dal primo matrimonio (1957-1977), con il pianista Félix Lavilla (1928-2013). Prima di divorziare, «presa da scrupoli religiosi, andò a consultarsi a Monaco con un prete spagnolo che conosceva. Grande errore! Questi divenne il suo secondo marito» (Romano). Anche questo secondo matrimonio, da lei definito «un fallimento totale», si concluse – dopo quattordici anni – con il divorzio. Nel 1993, presso l’ambasciata di Spagna a Tokyo, la Berganza conobbe quello che considera il grande amore della sua vita, un diplomatico, rapporto tuttavia anch’esso concluso da tempo. «Oggi sono sola senza che la solitudine mi pesi. Ho sempre avuto uno spirito indipendente, ma, siccome ero molto forte, ho preso tutto su di me. Non appena c’era qualcuno malato, ero io a occuparmene. Tra mariti autoritari, il peso della religione, il fastidio delle incombenze quotidiane, la musica mi è sempre apparsa come uno spazio di libertà, una vita a parte dove potevo esprimere tutta la mia fantasia» • «Mi sento molto spagnola. È il mio sangue, sono delle radici che mi trascinano verso terra. Ma restare a casa troppo a lungo mi soffoca. Mi sento così dappertutto. Avrei potuto benissimo vivere a Parigi, Monaco, Milano o Buenos Aires. Queste sono città in cui sono stata molto felice. Ho amato lavorare in Inghilterra, adoro il Giappone, l’Italia mi incanta. In America non ho mai cancellato nessuna esibizione. Forse perché lì mi sentivo più libera, lontano dalle mie preoccupazioni» • «Spiritosa, divertente, brava, con una tecnica sopraffina, Berganza è un’artista che ha saputo gestire i doni della natura con grande intelligenza e volontà» (Landa Ketoff). «Caratteristica peculiare della Berganza è la messa a fuoco degli elementi di riflessione e finezza psicologica, più che di quelli emotivi di un testo musicale. Il che spiega i limiti che la cantante si è autoimposta nella scelta del repertorio, vasto e articolato solo in campo cameristico, dove ha realizzato una continua ricerca su se stessa e sulle pagine affrontate: dalla musica antica al liederismo tedesco, con una particolare predilezione per la produzione spagnola di origine popolare, sia arcaica che contemporanea. Inflessibile nella difesa del proprio modo autentico di intendere canto e musica, Teresa Berganza ha sempre escluso il grande melodramma romantico e il verismo, come pure l’acquisizione dei ruoli del Rossini serio, che sotto il profilo stilistico avrebbero potuto adeguarsi benissimo alle sue possibilità. Un’intelligenza vocale fatta di istinto, musicalità e rigore, quella della Berganza. Nella quale è racchiuso, tra l’altro, il vero segreto di una longevità vocale conquistata con tenacia e sfruttata nel corso di quasi mezzo secolo con naturalezza aristocratica. Un’arte del canto estranea a qualsiasi compiacimento e compromesso» (Mori). «L’arte di Teresa Berganza era quella di essere al tempo stesso raffinata cantante da camera e diva sul palcoscenico, ben conscia del suo status e dell’autentica venerazione di cui il pubblico la rendeva oggetto. Credo, anche, che Teresa Berganza per tutta la sua carriera sia sempre stata assolutamente conscia dei propri limiti vocali e di temperamento e con questa chiara cognizione abbia costruito una carriera che proprio nel concerto di canto ha sempre trovato la sua più alta espressione. Pur nella consapevolezza dell’ammirazione incondizionata di cui godeva presso il pubblico, Teresa Berganza non ha mai osato ruoli, o anche brani, che pur minimamente esulassero dalle sue possibilità e di cui non avesse pieno dominio. Con quello che oggi, velleitario e impunito, circola, una lezione ulteriore e più alta ancora rispetto a tante raffinate Violetta o a sofferte Nebbie di Respighi» (Domenico Donzelli). «Una delle più grandi interpreti di Rossini e una delle più grandi cantanti del secolo. […] Teresa Berganza è una grande diva senza neanche un solo atteggiamento da diva. […] Dominio sublime della voce, legati impeccabili, intonazione infallibile. […] Il segreto sta forse proprio in questa ricchezza espressiva: non si ascolta solo una cantante, si ascolta soprattutto una grande musicista. Perciò, alla fine, ci si esalta, ci si commuove» (Dino Villatico). «Un’artista che nel corso della carriera ha saputo farsi apprezzare per un’infinità di pregi, tra i quali la tecnica suprema dell’emissione, la vocalità fluida e gioiosa, la cura dello stile e del particolare, la capacità di introspezione psicologica. E, non da ultimo, l’autentica umiltà dell’interprete nei confronti dell’autore» (Alfredo Ferrero). «Questo studio delle parti, lo ha sempre fatto con passione e coscienziosità: studio della psicologia del personaggio, della pronuncia – quale che sia la lingua in cui doveva cantare – e dell’intonazione. […] Non per nulla è un “orecchio assoluto”» (Romano). «La voce non è mai stata potente né particolarmente estesa, ma di bel timbro e omogenea in tutti i registri, fluida nella vocalizzazione, morbida nel legato, abile e fantasiosa nel gioco chiaroscurale» (Stinchelli). «Teresa Berganza è più di un mezzosoprano. Teresa è un modo di essere e di sentire, uno stile vivace, con un potente carisma e la maestà di una dea» (Sáiz Valdivielso) • «Donna spiritosa, ma serissima e disciplinata sul lavoro. […] Non le piace il modo di lavorare, frettoloso e superficiale, di oggi. “Prima ci si preparava a lungo, si riusciva a creare un’intesa con i colleghi e col maestro. Che era un vero maestro, ci seguiva, ci insegnava. E, se anche facevamo un’opera di repertorio, riuscivamo sempre a dare qualcosa di più e di diverso della volta precedente”. […] Artista dalla volontà di ferro, ha saputo gestire la voce con grande intelligenza. […] Ai recital si è dedicata da sempre, anche quando cantava le opere, riuscendo a fare in modo che nel suo canto cameristico non rimanesse traccia della cantante lirica» (Ketoff). «Voltandomi verso il mio passato ricordo grandi momenti circondata da artisti e amici altrettanto grandi. Oggi, giorno dopo giorno, vedo sempre più mediocrità. La mediocrità inizia proprio quando non si riesce a comprendere il significato della parola “interprete”. Noi abbiamo studiato e dedicato la nostra esistenza traducendo ciò che geni del calibro di Beethoven o Mozart hanno lasciato scritto secoli fa. Questa eredità è sacra! Con orgoglio posso dire di aver assistito e partecipato personalmente al recupero di opere di Rossini ormai dimenticate da anni. Tutti, dico tutti, dal direttore d’orchestra fino all’ultimo dei coristi, facevano il possibile per essere il più fedeli possibili al maestro Rossini. Se una delle sue arie era già di per sé perfetta, quello che io dovevo fare era solamente interpretarla con tutta la sua bellezza innata e consegnarla al pubblico senza nessun tipo di inganno. Mi stupisco sempre di più dell’attuale firmamento di stelle (stelle fugaci, mi verrebbe da dire) che invece di lavorare con serietà pretendono di stupire il pubblico con i loro sogni di gloria che nulla hanno a che fare con l’opera che si vuole rappresentare». «Una nuova corrente è venuta dalla Germania e purtroppo si è diffusa in Europa. Traviate in bicicletta, Tosche in bikini, Mozart rispolverati hanno invaso la scena. Per farsi notare, alcuni registi hanno ricalcato le loro ossessioni sessuali su capolavori. Ci hanno mentito sostenendo che bisognava avvicinare i giovani all’opera. Ma i giovani non sono così stupidi. Vogliono la verità del teatro. E Fidelio in un campo di concentramento o Don Carlos in un bordello o in un vespasiano non sono la verità. Sono la moda. I critici sono caduti nella trappola: hanno scritto pagine intere per descrivere la regia, per discuterla, per spiegarla, finendo il loro articolo con tre righe sulla conduzione del direttore d’orchestra, sugli acuti del soprano e i gravi dei bassi». «“Per me l’opera è una religione, e come tale deve essere rispettata. Diremmo ai giovani ‘Tintoretto è un pittore troppo vecchio: se aggiungessimo il rosso o il giallo neon per rendere i suoi quadri più moderni?’? Il primo a farlo finirebbe in prigione. Dovremmo fare lo stesso con alcuni registi”. Se l’opera è una religione, chi sono i suoi dèi? “I compositori, evidentemente: da Monteverdi a Šostakovič. E Mozart è il mio messia. Mi si chiami pure mistica. Non mi dispiace. Non mi chiamo Teresa per niente”» (Hillériteau) • «C’è una distanza sempre più grande, e sempre più chiara, tra un vero musicista e un divo dell’opera. Ciò mi rattrista immensamente: non si può essere fedeli agli spartiti se non si è in grado di leggerli, di interpretarli. […] Per essere in grado di trasmettere la bellezza e soprattutto per riuscire ad avere l’autorità necessaria per pretendere l’eccellenza nell’arte, bisogna fondamentalmente avere due strumenti: la sensibilità e lo studio. Per quanto riguarda la sensibilità, […] solo il vero artista riesce a trovare qualcosa anche dove non vi è nulla, sente emozioni intangibili per gli altri, soffre per ragioni assurde con la stessa facilità con cui descrive una commovente felicità cinque minuti dopo. Tutto ciò definisce un vero musicista, un grande artista. […] Per quanto riguarda lo studio, io sono cantante. […] Ma, prima che cantante, ho l’onore di definirmi musicista, dal momento che il canto fa parte di questo grande mondo. Essere musicista è tanto naturale quanto difficile se lo si vuole essere veramente e profondamente. Essere musicisti significa vivere la musica. Non vuol dire vivere della musica o per la musica, ma, “semplicemente”, vivere la musica, che è quasi come trasformarsi o essere la musica stessa. Stia attento dunque colui che nell’estasi della creatività si dimentica dello studio e della tecnica!». «Com’è semplice cantare! Ma allo stesso tempo penso: com’è difficile! Nasce da un elementare impulso umano, per poi modulare e cambiare all’infinito grazie allo studio, l’intelligenza e la sensibilità. Cantare è e al contempo non è come suonare uno strumento, che in fin dei conti non è altro che una macchina. Nel caso del canto abbiamo a che fare con la nostra fisiologia, col nostro stesso corpo, con cui riusciamo ad eseguire la più bella, intima, meravigliosa delle musiche. Non altro se non questo è il canto. Il canto è costituito dalle doti naturali del corpo umano, da una solida tecnica e da una capacità d’espressione. Unendo nel migliore dei modi queste tre componenti essenziali, potremo raggiungere le più alte vette dell’arte e trasformare il canto in un momento di magia, sensibilità e bellezza. Credo, molto sinceramente, di essere riuscita a raggiungere un alto livello vocale, riuscendo a trasmettere agli altri bellezza ed emozioni». «Nella mia gloriosa carriera artistica c’è stato più tempo per lo studio che per gli applausi: giorni interi con una garza in bocca per far riposare la voce, ore di intenso lavoro per poi ascoltare il pubblico commentare la naturalezza e la facilità con cui raggiungevo il registro acuto o eseguivo una coloratura. Sono stata educata al lavoro, alla responsabilità e alla cultura per raggiungere sempre l’eccellenza. Spero solo di aver risposto adeguatamente a tanto sforzo e affetto. […] Ho trascorso anni comunicando con i miei figli e la mia famiglia con la bocca tappata da una durissima garza, così dura che quando la toglievo mi sembrava quasi di strapparmi la pelle. Parlavo con loro con una lavagnetta appesa al collo dove scrivevo “portami un po’ d’acqua”, “ricordati di pagare il giardiniere”, ecc. La solitudine e il silenzio, soprattutto i giorni prima del debutto, sono stati sempre essenziali, non solo per le mie corde vocali, ma anche per il mio spirito» • «Sono profondamente convinta che il volume di voce in sé non abbia alcun valore. Non emoziona e non serve a niente. Su questo argomento insisto sempre molto con gli studenti: l’espressività si ottiene attraverso il rispetto dello spartito. Bisogna impegnarsi a ricreare ogni sfumatura della partitura. Non dico che si debba cantare piano, ma sicuramente la cosa più importante è osservare le prescrizioni del compositore fin nei minimi dettagli. Ed è ovvio che l’autore non immagina dei “fortissimi” in ogni situazione! Questa è una tendenza tipica dei giorni nostri: gridare per impressionare. È sbagliato e controproducente!» (Filippo Tadolini). «Oggi purtroppo la musica barocca è diventata una moda. Io […] ho cominciato la mia carriera con questo tipo di repertorio e ho avuto un ottimo insegnante italiano che mi ha fatto capire l’importanza della ricerca di una vocalità corposa, fondata sull’efficacia interpretativa della parola e sulla bellezza del timbro. Queste voci “alla moda” di oggi sono troppo spesso inconsistenti e incolori» • «Io sostengo che Rossini possa considerarsi il “maestro della voce” per eccellenza. Ha scritto cose incredibili, di una difficoltà impareggiabile. Rossini esalta la voce fino all’estremo attraverso una scrittura varia e intensa, punteggiata di accorgimenti tecnici quasi deliranti: alternanza di legatura e accento, lirismo e agilità vorticose, note gravissime e acuti impegnativi… Intendo dire che a mio parere Rossini è l’incarnazione stessa della tecnica. Ed è attraverso Rossini che si raggiungono Mozart, Händel, Monteverdi, Haydn, Caldara, Purcell… Compositori differenti, stili differenti. Ma una volta acquisita la tecnica rossiniana non si incontra più nessuna insormontabile difficoltà nell’interpretare nuovi autori. Adoro la musica barocca, l’ho sempre cantata, fin dall’inizio della carriera: Alcina, Rinaldo, ho inciso molti dischi… ma metterò sempre Rossini al primo posto. Continuo ancora oggi a cantarlo come esercizio per tenere allenata la voce: il giorno che funziona Rossini, funziona anche tutto il resto». «L’emozione mozartiana è intima, quella di Rossini più esteriorizzata, drammatica o divertente che sia. Rossini è il mio maestro, e i vocalizzi li faccio con lui: quando feci la prima Carmen mi scaldavo cantando il finale della Cenerentola. Poi andavo in scena come Carmen» • «Quando io ero giovane, mai avevo pensato di arrivare così lontano. Ma quello che ho sempre saputo, ieri e oggi, è che mai e poi mai sarei stata felice se mi fossi allontanata dalla cosa che amo di più: la musica».