26 marzo 2021
Tags : Cesare Cremonini
Biografia di Cesare Cremonini
Cesare Cremonini, nato a Bologna il 27 marzo 1980 (41 anni). Cantautore. Già leader e cofondatore dei Lùnapop (1999-2002). «Non sono figlio d’arte, non ho parenti in ambito musicale, non ho avuto nessuno che mi abbia detto come si fanno le canzoni, nessuna scuola per stare sul palco, nessuno che mi abbia regalato qualcosa. Non dirò che me lo merito, ma un po’ me lo merito» (a Malcom Pagani) • «Cesare Cremonini, qual è il suo primo ricordo? “La timidezza. Erano i primi giorni d’asilo. Sentivo gli altri come un mondo già preparato, già unito, in cui sono dovuto entrare. Gli altri erano un terreno di conquista. Vivevo in campagna, a Colunga, frazione di San Lazzaro, provincia di Bologna. Fui il primo bambino a imparare a leggere e a scrivere. Però non riuscivo a dormire”. Perché? “Dopo pranzo c’era il riposino. Tutti si coricavano sulle brandine. Io sgattaiolavo via, mi nascondevo, e mi inventavo qualcosa per far passare il tempo. Da allora dormo solo quattro ore per notte. E ho imparato la noia; che ai ragazzini nell’èra del cellulare è negata”. Cosa facevano i suoi genitori? “Mio padre il medico. Se n’è andato l’anno scorso [nel 2019 – ndr], a 95 anni. Mia mamma ne ha trenta meno di lui. Si è laureata in Lettere, passava le giornate a disegnare e a fare composizioni floreali; il côté artistico, quasi frivolo, mi viene da lei. A San Valentino rubavo qualche banconota dal portafoglio di papà e facevo regalini a tutte le compagne di scuola”. A che età comincia la musica? “A sei anni arrivò il pianoforte. A otto suonavo Mozart, Chopin, Beethoven: prima ancora di capire cosa fossero le emozioni, la solitudine, la disperazione, la paura, l’amore, avevo già gli strumenti che ne parlavano”» (Aldo Cazzullo). «“Mia madre era presente, voleva che andassi bene a scuola e sul tema a tratti era ossessiva, ma non controllava i miei diari. Mio padre invece lavorava come un pazzo, ho preso da lui anche questo, ma, pur nell’assenza, tornava a casa tutte le sere, e non mi chiedeva cosa c’era che non andava e cosa invece andava bene, ma di suonare qualcosa per lui. […] Il suo esempio per me valeva molto più della sua presenza”. […] Sua madre? “Mi proteggeva in un modo tutto suo. Se l’allenatore della squadra di calcio voleva farmi giocare, lei lo dissuadeva chiamandolo di nascosto: ‘L’ho visto un po’ emaciato, Cesare: perché non lo lascia in panchina domenica?’. Adorabile”» (Pagani). «“A sei anni, quando cominciai a studiare pianoforte, capii che suonando si può essere come scrittori erranti, camminare con la fantasia. Così mi perdevo dentro gli spartiti, anche di notte. Da quell’età in poi ho sempre avuto una certezza: […] volevo diventare un cantante. Per un certo periodo ho vissuto davanti a una chiesa che aveva un altare dedicato a un giovane frate beato, Venanzio M. Quadri. Su quell’altare c’era un libro nel quale si potevano scrivere pensieri, preghiere o desideri da chiedere al frate. Non me lo sono fatto sfuggire. Ho scritto: ‘Caro Venanzio, vorrei diventare un cantante: decidi tu appena puoi…’”. […] Quand’è nato l’amore per la scrittura? “Quand’ero ragazzino un giorno decisi di portare l’orecchino. Volevo metterne uno, arrivai a casa con tre. Mio padre mi urlò dietro ogni cosa possibile. Scappai e andai da un amico, ma dopo tre giorni mi accorsi che mi mancava moltissimo scrivere seduto al pianoforte, allora tornai indietro e lasciai credere a mio padre di aver capito la lezione. Non era vero. La realtà era che non avrei avuto più niente da dire a me stesso senza il mio piano e senza scrivere più canzoni. L’ho capito quel giorno”» (Giusi Fasano). «Scrivere è la mia passione da quando avevo 11 anni. Di quel periodo ricordo i cartoni animati, i pomeriggi a studiare pianoforte, ma soprattutto le notti, in cui aprivo un quaderno segreto, e sotto le coperte, all’insaputa dei miei genitori e di mio fratello, scrivevo le mie prime rime, le mie prime poesie, dedicate quasi sempre alla mia compagna di banco… I miei genitori, in effetti, mi hanno sempre tenuto molto a freno, estremamente severi sui miei risultati scolastici, e preoccupati che la troppa libertà potesse in qualche modo mettermi in pericolo. Non si rendevano conto che quell’oppressione, quel cercare di controllarmi con tutte le loro forze sarebbe diventato per me un guscio dentro al quale avrei creato in poco tempo un mondo tutto mio, fatto di note e di canzoni. A 12 anni mi fu regalato un disco dei Queen, che divennero la mia fede più grande, e grazie a quella passione capii che le mie poesie avrebbero potuto trovare spazio nel cuore degli altri, grazie alla musica. Neanche il tempo di diplomarmi al liceo scientifico Albert Sabin di Bologna (1999), e avevo già un cassetto pieno di canzoni, e un gruppo tutto mio, con il quale sognavo un futuro nel mondo della musica. Tutto il resto per me iniziò a non avere più alcun senso. Esistevano le mie canzoni, i Queen, la personalità stravagante e carismatica di Freddie Mercury e il mio gruppo». «La musica dei Queen lo spinge presto a cantare e scrivere i primi pezzi con l’amico chitarrista Gabriele Gallassi. […] Mentre frequenta il liceo scientifico, con Gallassi e il batterista Alessandro “Lillo” De Simone forma nel 1995 i Senza Filtro, a cui si aggiungono Andrea Furlanetto (basso) e Lorenzo “Lollo” Benedetti (chitarra)» (Jole Silvia Imbornone). Secondo un’altra versione, invece, l’incontro fondamentale sarebbe stato quello con le canzoni di Lucio Battisti. «Se escludo le sigle dei cartoni animati, la prima canzone che ho ascoltato in assoluto è stata Acqua azzurra, acqua chiara. Mi diede una tale sensazione di piacere che portai la cassetta in classe per farla ascoltare agli amici. Nell’attacco c’era questa malinconia così diretta, precisa, ficcante e struggente, una malinconia brevissima, da eccelsa canzone pop, che contrastava con la fiduciosa, liberatoria allegria del ritornello. Quel contrasto mi portò lontano». «A 13 anni, scoperto Lucio Battisti, decide che anche lui farà la storia della musica: “Devo studiarlo, carpire il segreto, farlo anch’io”. Masterizza un cd la cui copertina è un foglio a quadretti con una lampadina disegnata da lui. Titolo: The Light. Viene distribuito a pochi amici. Incredibilmente nessuno di loro l’ha ancora messo su eBay: “Sono preoccupatissimo, prego tutto il giorno che non accada”» (Guia Soncini). In ogni caso, «il primo concerto, lo tenemmo in un cortile estivo bolognese: buffet misero e poca gente. Le prime cinquantamila lire di ingaggio, le più importanti della mia vita, le prendemmo in un circolo marinaro del centro, tra gomene e salvagenti, spendendole in birra la sera stessa. Per la prima volta, però, c’era gente che era venuta apposta per ascoltare noi» (a Emilio Marrese). «Ho iniziato a suonare adolescente in un pub vicino a San Vitale: quando il piano bar si liberava, potevo fare un paio di mie canzoni. Incontravo Lucio Dalla al bar di piazza Calderini con il suo bastone: scompariva lungo i portici e lo seguivo per capire dove andava, come nella sua canzone Lucio dove vai, un capolavoro» (a Gianni Santoro). «Tutto cominciò all’incrocio sotto le Due Torri. “Avevo fatto fuga da scuola, quell’anno era la centoventottesima volta, ero in un negozio di dischi in via Goito, e c’era un libricino giallo: Etichette musicali italiane. Strappai la pagina di quelle di Bologna. All’una ero in Vespa, sotto le Due Torri, e dovevo decidere che direzione prendere: tornare da mia mamma, che mi aspettava ed era già incazzata, o andare a cercare questi indirizzi”. […] Prende la traversa che lo porterà dal suo produttore» (Soncini). «Mi rispose l’ultimo della lista, Walter Mameli: gli portai subito un nastrino, e da quel giorno io e Walter non ci siamo più lasciati». «Nel 1999 prendono il nome di Lùnapop, la cui formazione definitiva comprende Michele Giuliani, compagno di scuola di Cremonini, al posto di Benedetti, e Nicola “Ballo” Balestri (bassista dei 20 Barrato), che sostituisce Furlanetto. Il gruppo pubblica … Squèrez? (in gergo bolognese, “merda”), che diviene un successo enorme, lanciato nel giugno 1999 dal singolo 50 Special. I brani composti dal cantante-pianista Cremonini, coadiuvato in alcuni pezzi da De Simone, oscillano tra un pop orecchiabile (Qualcosa di grande, le ballate Se ci sarai, Niente di più, Un giorno migliore) e il brit pop (vedi le robuste chitarre elettriche di Zapping e Silvia stai dormendo); i testi lineari esprimono luci e ombre del mondo adolescenziale. I Lùnapop spopolano; nel 2000, fra l’altro, vincono il Festivalbar con Qualcosa di grande» (Imbornone). «All’esame di maturità scientifica si presentò alla commissione con uno stereo portatile. “Dissi: ‘Questo è quello che mi sta succedendo’. E schiacciai play”. Proprio quel giorno 50 Special era arrivata in testa alla classifica. Com’era bello andare in giro per i colli bolognesi. “La prof di chimica iniziò a battere il piedino, quello di fisica si rilassò sulla sedia, quella di matematica mi fissava inespressiva”. Voto finale? “Sessantuno. Mi sono sempre chiesto cosa significasse quell’uno. Forse: ‘È scemo, ma non del tutto’”» (Marrese). «Non ha molto senso tentare di spiegare razionalmente un successo (specie di quella sostanza particolarmente instabile che è una canzone), ma c’è una caratteristica innegabile di 50 Special: è una canzone che i ragazzini percepivano scritta da un coetaneo. Lì dentro non c’era l’adolescente raccontata da un cantautore ventisettenne che era stata Albachiara; né la preadolescente raccontata da un regista cinquantacinquenne nel Tempo delle mele. Era – quando non era normale com’è ora, che basta un telefono per mettere in rete le proprie opere, e qualunque adolescente può raccontare la propria storia – un’avanguardia: un ragazzino che raccontava quella speciale allegria forzata con cui i ragazzini mascherano la malinconia» (Soncini). «… Squèrez? è l’album d’esordio di una band più venduto nella storia della musica italiana. “Passai dalle feste liceali ai palasport. Come leader dei Lùnapop mi spettava appena l’1% degli incassi; mi arrivò lo stesso un assegno da 60 milioni. Fu una soddisfazione andare alla Carisbo, dall’impiegata che mi chiedeva insistentemente di rientrare: ‘Il suo conto è in rosso, dovremo chiuderlo!’. Le mostrai l’assegno: ‘Lo chiuda pure, cambierò banca’. Uscì il direttore a inseguirmi. Invano”. […] Cosa significa diventare un divo a 19 anni? “Violavamo tutte le regole dello spettacolo. Entravamo nei camerini altrui a rubare la biancheria intima delle star per regalarla agli amici. Organizzavamo feste invitando le ragazze incontrate per strada. Non vidi mio padre e mia madre per due anni. Fu la scoperta del sesso. E dell’Italia, della sua immensa provincia. Il bassista, Nicola ‘Ballo’ Balestri, era minorenne e non poteva andare alle serate promozionali senza l’autorizzazione dei genitori; una sera si gettò dalla finestra di casa con l’ombrello, come Mary Poppins. Finì in ospedale”. È vero che sulla carta di identità, alla voce “professione”, lei fece scrivere “clown”? “Il successo può indebolirti: ingelosisce chi ti ama, spesso rende peggiore chi ti circonda. Solo un pagliaccio poteva sopravvivere a un cambiamento così grande. Per questo mi colorai i capelli di rosso”» (Cazzullo). «Il gruppo è ormai un (discusso) fenomeno di costume. Basti dire del libro Mia figlia vuole sposare uno dei Lùnapop (non importa quale) di Freak Antoni, leader degli Skiantos. Ma il successo diventa pesante da gestire: una pausa di riflessione e alcune tensioni interne diventano aperta crisi. Cremonini decide di andare avanti da solo» (Imbornone). «Nel 2002 termina la breve avventura dei Lùnapop. Che sensazioni hai provato, iniziando un percorso in solitaria? “Mi sentivo più al sicuro accanto a loro. Del resto, il recinto protettivo che ti dà una band non è di poco conto. E la goliardia del gruppo recita un ruolo fondamentale nell’economia di una qualsiasi attività. Dopo un paio d’anni tutto fu sostituito da una strana forma di solitudine: mi sono sentito sullo stesso piano dei grandi cantautori, pur provando un forte senso di smarrimento. Così ho pensato di rifugiarmi nella scrittura, con consapevolezza che quello fosse un passo doveroso. Non potevo non cambiare strada, ero fin troppo giovane”» (Gianfranco Valenti). «Hai studiato Bob Dylan come fosse un programma scolastico… “Prova a immaginare cos’è stato per me, dopo il big bang clamoroso da un milione e mezzo di copie a 19 anni e dopo una band casinara, diventare di colpo un cantautore. Mi sono sentito scoperto, impreparato, incapace. Allora ho studiato la musica degli altri. Dylan è stato per me come Shakespeare per chi studia letteratura”» (Fasano). «Con al suo fianco il solo Balestri pubblica il singolo Gli uomini e le donne sono uguali, che anticipa di diversi mesi il cd Bagus (2002), termine che in indonesiano indica tutto ciò che è positivo. Le prime strofe del pezzo sono state scritte intorno ai 16 anni: Cremonini resta sospeso tra il passato di icona pop per adolescenti e un futuro cantautorale. Con Bagus cerca un pubblico più adulto, rinunciando a inseguire unicamente gli umori variabili dei teenager modaioli, e Vieni a vedere perché per i suoi echi beatlesiani si guadagna persino gli apprezzamenti di Francesco De Gregori» (Imbornone). «Fu un disco difficile, ma molto importante, perché Walter, a cominciare da quello che nella pratica era solo il mio secondo album, cominciava già a chiedermi di alzare la posta in gioco. A mio parere è l’opera più folle e coraggiosa tra quelle che ho realizzato, perché spiega a che velocità mi stessi muovendo dal punto di vista creativo, quanta voglia avessi di crescere, raccontare e imparare, senza il minimo condizionamento verso i grandi successi appena raggiunti coi Lùnapop». «La strada è ancora difficile. “Dopo un tour di oltre settanta date che cominciò nelle grandi città ma per mancanza di pubblico si concluse nei piccoli paesi di provincia, decisi di fermarmi e di passare un anno viaggiando alla ricerca di me stesso”, dichiara Cesare raccontando il lungo lavoro che precede la lavorazione dell’album Maggese, uscito nel 2005. L’artista da Bologna si sposta in Sardegna “con gli amici di sempre, […] bevendo senza sosta, vedendo molte albe nascere e pochissime mattine”. Poi in viaggio on the road per la Francia, il Sud America, il Brasile, l’Argentina, e poi a New York, in un appartamentino, dove nascono i brani Sardegna, Maggese, Momento silenzioso, Le tue parole fanno male e Marmellata #25. È così che Cesare riprende la sua corsa verso nuovi mondi musicali. Il cantautore non si adagia certo sugli allori, con l’album Il primo bacio sulla luna del 2008 e la fine del rapporto con la casa discografica Warner Music con un Greatest Hits all’interno del quale, per stessa ammissione dell’autore, spicca l’inedito Mondo. “Ho un ricordo molto speciale di questa canzone, che ebbe un grande successo – spiega Cesare –. Provai grazie a essa il piacere di realizzare un sogno che tenevo nel cassetto fin da bambino: collaborare artisticamente con Lorenzo ‘Jova’ Cherubini, aprendo così nel migliore dei modi una nuova stupenda fase della mia carriera”. Ecco che nel 2012 arriva la trilogia artistica di Cesare Cremonini, inaugurata da La teoria dei colori. […] Cesare si esibisce nei palasport di tutta Italia per la prova del nove. E va bene, il tour segna sold out ovunque. Il secondo capitolo della trilogia è Logico, del 2014» (Andrea Conti). «Finalmente ora le cose procedevano a gonfie vele, soprattutto dal vivo. Era appena cominciato un periodo che mi avrebbe portato ai grandi eventi negli stadi, superando di gran lunga il successo del mio primo album con i Lùnapop. Oltre ai tanti fan, infatti, ora stava creandosi intorno al progetto una credibilità e una curiosità a lungo attesa. Tutte le scelte fatte fino a quel momento in termini di coerenza e rispetto nei confronti della musica stavano pagando» «Possibili scenari del 2017 chiude la trilogia. […] L’idea del disco nasce dopo un piccolo viaggio di vacanza con il produttore Mameli, a seguito del lungo tour del 2016, e la visione di Love & Mercy, il film biografico sulla vita di Brian Wilson, compositore e cantante dei Beach Boys. Wilson dopo un attacco di panico decise di lasciare il resto della band in tour e creare il celebre album Pet Sounds» (Conti). «Possibili Scenari […] è il prodotto di quasi due anni di lavoro indefesso, che Cesare ha trascorso praticamente blindato nello studio di registrazione. “Per la prima volta mi sono completamente rifugiato nel progetto, cercando di allontanare qualsiasi distrazione, e mi sono imposto di portarlo a termine a costo di morirci dentro. Confesso che è stata un’esperienza un po’ traumatica. Anche perché, sentendo la musica sempre più imbrigliata dentro parametri che trovo abbastanza illogici, ho scelto la strada più faticosa: lottare per la massima libertà e autonomia”» (Valentina Giampieri). «Per realizzare Possibili scenari, sono entrato in sala di registrazione a 36 anni e ne sono uscito a 38, sfigurato dalla solitudine. È stato traumatico perché ho lasciato alle spalle due anni senza ricordi e senza luce. Non lo voglio fare mai più». Nel 2019 «arrivano i vent’anni di carriera e il traguardo del volume antologico Cremonini 2C2C – The Best Of, con 6 brani inediti tra cui i singoli Al telefono e Giovane stupida» (Conti). «Un percorso fra inediti, hit del passato, demo e rarità che svela la solidità della penna di Cesare» (Andrea Laffranchi). «Ci parli degli inediti. “Sono canzoni sull’amore e sull’amicizia estremamente a fuoco su di me. Al telefono parla della fine e della sopravvivenza dopo una grande relazione. Ora sono fidanzato con una ragazza molto più giovane di me, e nei pezzi nuovi cerco di capire dove sta il vero e il falso; l’amore è diventato importante per decifrare la realtà. In Giovane stupida subisco e soffro grazie allo scontro generazionale. Con piccole provocazioni racconto cose di oggi, e gioco quando scioccamente e in modo un po’ retorico chiedo alla mia ragazza: ‘Ma come chi è Mick Jagger?’”» (Luca Dondoni). «In una delle nostre prime cene al ristorante la radio passava Marmellata #25 e mi ha chiesto “Ma chi è Baggio?”. Da allora sono nate delle gag, mi sono chiesto più volte cosa possiamo raccontarci se abbiamo due universi così lontani nel tempo. […] Non è facile per me iniziare un’avventura amorosa con una persona che non sa chi è Mick Jagger, ma è anche bello condividere le scoperte. In quello “stupida” c’è la sua etimologia, che deriva da “stupere” cioè “stupire”». «“Il 2020 era l’anno dei miei sogni, fin da bambino l’ho sempre identificato con l’idea del futuro, come molti altri ragazzini degli anni Ottanta. Una cifra tonda che somigliava a una nuova èra, sia per la cultura cinematografica che per quella letteraria di molti bambini cresciuti in quel periodo». A causa della pandemia da Covid-19, tuttavia, il grande ciclo di concerti da tempo programmato per celebrare i quarant’anni di vita e gli oltre venti di carriera del cantante è stato rinviato sine die. «Come ha passato il lockdown? “In convalescenza, e in silenzio, dopo l’operazione alle corde vocali. Una cosa non rara per un cantante, ma delicata. Mi ha aiutato molto Eros Ramazzotti, che ci era passato prima di me. Quasi un fratello maggiore”» (Cazzullo). «Durante la quarantena […] molti artisti hanno raccontato di essersi bloccati, quasi annichiliti. “Non ho avuto la necessità di scrivere, perché il racconto di quello che capitava era separato dall’intimità, ed era diventato molto generico fare delle canzoni. […] La bellezza e la brutalità mi ammutoliscono. È quando sto in contatto con le persone, quando riesco a entrare nel loro cuore che scrivo la mia musica”» (Simonetta Sciandivasci) • «Io e Walter lavoriamo insieme da vent’anni: lui ha una visione lungimirante del progetto, io invece sono più concentrato sul presente. Se non ci fosse stato lui, non avrei potuto fare quello che oggi racconto. Mi ha protetto da me stesso quand’ero un ragazzino, ma soprattutto è riuscito ad arginare le pressioni discografiche, che in passato sono state molto forti: mi si chiedeva di ammiccare a ciò che funzionava e che veniva considerato il trend musicale del momento» • Un paio di esperienze cinematografiche. «Pupi Avati con Il cuore grande delle ragazze mi ha battezzato e salvato dal peccato originale, perché nel primo film, Un amore perfetto di Valerio Andrei con Martina Stella, ero così giovane che non avevo gli strumenti per capire. Adesso vorrei la cresima. Gli ultimi dieci anni, li ho dedicati a dischi e tour, ma ora potrebbe esserci un film o anche qualcosa di documentaristico sulla mia carriera. La recitazione per me è la vacanza ideale dalla musica, che vivo in maniera sofferta e ossessiva… da perfezionista» • Celibe. Varie relazioni sentimentali all’attivo, tra cui quella con la cantante Malika Ayane. «Il nostro incontro fu bellissimo. Ci conoscemmo al Quirinale per un evento in cui dovevamo incontrare Napolitano. Dopo aver omaggiato il presidente sgattaiolammo per i corridoi del Palazzo eludendo la sorveglianza… Per conoscerci meglio, ci nascondemmo dietro a una tenda accanto a una finestra illuminata dal sole di Roma. Ora siamo amici, in ottimi rapporti». Attualmente fidanzato con Martina Margaret Maggiore (24 anni), studentessa dell’Università di Bologna. «È innamorato? “Sì. E ho capito che gli amori finiti si superano quando non è più necessario dimenticarli, ma vai avanti portando con te il ricordo della persona che hai amato”. Vorrebbe figli? “Sì, ma non ho fretta. Il segreto della longevità è credere nella longevità. In questo momento la mia preoccupazione è rendere felici le persone che mi sono intorno”» (Cazzullo) • «Credo moltissimo nel valore della famiglia, famiglia dalla quale io sono scappato per salvarmi. La fuga rappresentava un modo per trovare la mia strada, la mia identità. Una scelta coraggiosa quanto necessaria». «Sono sempre stato ostacolato dai miei nella mia carriera artistica. Mio padre voleva che facessi il medico come lui, e quando ha sentito che componevo canzoni è caduto dalle nuvole. Così ho preferito escluderli dalla mia vicenda musicale, cercando di impegnarmi per dimostrare che valevo» • «Due grandi tatuaggi che escono dalla maglietta. “Uno riproduce Freddie Mercury”, spiega, “è stato il mio primo mito, a dodici anni ho pianto e gioito per lui, e non avrei fatto canzoni se non fosse stato per lui. Il tatuaggio, l’ho fatto nel 2001, quando ho cominciato a lavorare al secondo disco. L’altro, un disegno tribale, l’ho fatto quando ho iniziato a lavorare a Maggese”» (Gino Castaldo) • «Da quando avevo 18 anni bado a me stesso e nella vita ho provato e fatto qualsiasi cosa, ma non ho mai pensato di fare cazzate per dare un senso alla mia esistenza. Per me la baldoria, l’alcol e il perdere il controllo sono sempre stati legati all’idea di festeggiare qualcosa. Ho sempre inteso il divertimento alla stregua di un omaggio al bello della vita: come ubriacarsi al matrimonio del tuo miglior amico, ma nel mio studio di registrazione e sul palco io sono sempre stato lucido. Non c’è mai stata un’occasione in cui non lo sia stato. […] Non ho mai capito come abbiano fatto i grandi artisti della storia del rock a esibirsi in certe condizioni» • «“C’è una canzone, Nessuno vuole essere Robin, per la quale ho rischiato la vita. Come mi disse lo psichiatra: una pallottola mi ha sfiorato”. Perché andò dallo psichiatra? “Per accompagnare un’altra persona. Poi gli raccontai di me, di quel che provavo. I sintomi crescenti”. Quali sintomi? “La sensazione fisica di avere dentro di me una figura a me estranea. Quasi ogni giorno, sempre più spesso, sentivo un mostro premere contro il petto, salire alla gola. Mi pareva quasi di vederlo. […] Braccia corte e appuntite, gambe ruvide e pelose. La diagnosi era: schizofrenia. Percepita dalla vittima come un’allucinazione che viene dall’interno. Un essere deforme che si aggira nel subconscio come se fosse casa sua”. Com’era potuto accadere? “Venivo da due anni di ossessione feroce per la musica. Sempre chiuso in studio, anche la domenica. Smisi di tagliarmi la barba e i capelli”. È vero che mangiava solo pizze? Due a pranzo e una a cena? “A volte due pizze pure a cena. Superai i cento chili. Non facevo più l’amore, se non da ubriaco. Avevo smesso qualsiasi attività fisica”. Quale cura ha fatto? “Lo psichiatra mi chiese cosa mi faceva sentire meglio. Risposi: camminare. Non lavorare: il lavoro era la causa. La cura era camminare”. Ha preso anche farmaci? “Cose leggere, di cui non parlo per rispetto a chi ha dovuto fare cure farmacologiche pesanti. Ho camminato per centinaia di chilometri. Ho scoperto i sentieri di collina. E mi sono ribellato all’eccesso di attenzione per tutto quel che proviamo, all’idea impossibile di poter esprimere ogni cosa, di comunicare questa slavina di emozioni da cui siamo colpiti”. Così è nata Nessuno vuole essere Robin. “L’ho scritta in quattro minuti: ‘Fammi un’altra domanda, ché non riesco a parlare…’. La prima ammissione”. E adesso? “Quando sento il mostro borbottare, mi rimetto in cammino. Su una collina, in montagna. Sono tornato dallo psichiatra alla fine del primo tour negli stadi. Mi ha chiesto se vedevo ancora i mostri. Gli ho risposto di no, ma che ogni tanto li sento chiacchierare. E lui: ‘Let them talk’”. Lasciali parlare. Il titolo del suo libro. “Un’esperienza vissuta e superata”» (Cazzullo) • «Nelle sue canzoni affiora più volte la morte. “Me lo fece notare Red Ronnie: ‘Ma tu che parli di morte chi ti credi di essere? Sei così giovane. Devi pensare alla vita, no?’. Io gli risposi che solo un idiota non pensa mai alla morte. Mio padre ha avuto un tumore alla vescica, un altro ai polmoni, e un ictus mentre eravamo a cena insieme: lo portai in ospedale, fu operato nella notte, lo salvarono. Nei suoi ultimi giorni mi ha insegnato molto, mi ha mostrato cos’è la dignità: era a pezzi, ma sempre pettinato, le unghie curate. Un ordine mentale”. Crede nell’aldilà? “Da ragazzo sentivo di avere una forte convenienza a crederci. Ora sto trasformando la cultura che ho ricevuto, l’idea infantile e fiabesca del Paradiso, in qualcosa di più razionale. Forse possiamo davvero trasformarci, di vita in vita, verso altre esperienze. Prima o poi la fisica quantistica, che è la nuova poesia, ci spiegherà come e dove; e quello sarà il nostro paradiso”» (Cazzullo) • «Com’è il tuo rapporto con Dio? “Credo in Dio e ne ho timore. Non vado in chiesa ogni domenica, ma cerco continuamente un rapporto con la spiritualità. Sono distante ma mai troppo per quel timore di Dio che non vorrei mi rovinasse la festa”» (Fasano). «È vero che da ragazzino aveva pensato di fare il prete? “Proprio il prete no, ma mi piaceva intrattenermi nel confessionale. Ogni settimana ci portavano a confessarci. I miei amici sbuffavano, stavano cinque minuti, mentivano, e se ne andavano. Io restavo per ore: ‘Don Giulio, può essere che io sia stato chiamato da Dio?’. Alla fine il sacerdote era esausto”» (Cazzullo) • «“Per me di Bologna conta la tradizione, la vicinanza tra le melodie cantate dalle mondine e tramandate di generazione in generazione; è nella civiltà contadina che individuo il senso di cantare per questa città, di trovare la melodia per raccontarla”. Andresti mai via? “Sono monogamo con poche cose: Bologna è una di quelle, e la ritrovo ovunque, non posso non farci i conti, prima o poi mi uscirà anche nelle carte mentre gioco a poker. E mi fa piacere, perché, se oggi intervistassi quel bambino di 16 anni che andava al pub di via San Vitale e aspettava di suonare i suoi pezzi, ti racconterebbe che sognava di essere uno dei nomi della musica bolognese”» (Sciandivasci). Il 30 novembre 2019 «Bologna ha acceso le luminarie di via d’Azeglio con le parole del testo di Nessuno vuole essere Robin. Il fiume di persone che hanno accolto l’avvenimento era impressionante. Bologna si è fermata per lei. “Sono ancora in estasi per quello che è successo: i bolognesi sanno che amo la mia città e sanno quanto quello che è successo mi abbia fatto piacere. È stata come un’investitura. In più Robin è forse la canzone più italiana che ho scritto, ed è bello aver ricevuto un omaggio così”» (Dondoni). «Bologna mi ha dato il rispetto e ora mi coccola anche. Di questo sono grato come poche cose alla mia carriera. Proprio perché quel ragazzino che andava in giro in Vespa per i colli ancora vive dentro me» • Grande passione per Giorgio Gaber. «“No, non ho mai avuto modo di incontrarlo o di vederlo a teatro. Questione di anagrafe. Però mi è capitato nella vita, Giorgio Gaber, in un momento cruciale, dopo la sbornia del successo dei Lùnapop, quando ero uno stordito che non capiva se quello che gli era successo fosse dovuto più alla fortuna o più al talento”. Cesare Cremonini se lo ascoltava di notte, “con le cuffiette, ossessivamente, uscito dall’ubriacatura: quando ho preso in mano me stesso e ho capito che, da cantautore italiano, dovevo fare i conti con una tradizione inarrivabile. Con Pasolini è stato, da allora, una figura sorvegliante, un angelo custode”. Capitava anche, aggiunge, che lo proponesse alle numerose fidanzate, “dopo aver fatto l’amore, con insistenza: diciamo, dieci minuti di me e due ore di Gaber”. Non stupisce che molte ne rimanessero stranite» (Egle Santolini). «Domanda secca: Vasco Rossi o Ligabue? “A me ‘san Vasco’ piace di più da sempre. Lo amo da quando ero adolescente. La colonna sonora dei miei 16 anni è stata Albachiara. Di Vasco mi affascina lo sguardo dolorante, sofferente, anche quando ha davanti 50 mila persone in delirio”» (Gianni Poglio) • «Gran parte dei libri che leggo, la lascio a metà per correre al pianoforte a comporre, sfruttando l’ispirazione. Mi ritengo uno che legge poco ma bene: quando un autore mi prende ci vado totalmente dentro, vivo di amori improvvisi ma terribilmente forti. John Fante, Gaber, Dylan, Pasolini, Fellini… E lo stesso vale per le mie altre passioni: la cucina, lo sport, i motori…» • «Mi manca il Novecento, mi manca perfino il fatto che fossimo tutti lì davanti al Tg1 e potessimo crederci, oggi che siamo soffocati da milioni di informazioni inutili. Leggeteli, i giornali: l’approfondimento serve» • «Gli dico che è un seduttore, ma lui mi corregge: affabulatore, meglio. “Ero il brutto anatroccolo di casa, andavo male a scuola, le ragazze non mi prendevano in considerazione. Poi ho trovato la strada per poter piacere. Mi piace piacere, e mi piace essere in grado di trovare un modo di comunicare che avvicini le persone, che illumini i punti in comune tra loro. È l’esercizio che faccio sempre, quando scrivo musica o un post su Instagram o vado a cena fuori: avvicino le persone per essere accettato, rubare un pezzo del loro cuore, evitare le separazioni”» (Sciandivasci). «A scuola inventavo storie per conquistare le ragazze, e in sette giorni scrivevo diari di cento pagine che avrebbero dovuto riassumere tutta una stagione: “Ti amo segretamente da oltre un anno”. Ma non funzionava. Avevo tante doti, ma non gli occhi azzurri». «Cremonini, lei si piace? “Il bisogno di ritrovare ogni giorno la sicurezza in se stessi nello sguardo degli altri c’è. Chi nega mente. Onestamente, mi piacciono le mie espressioni, il mio essere storto, il mio modo di guardare alle cose. Certo non sono un adone. Quando ero bambino chiedevo a mia madre se ero bello, e lei: ‘Cesare, bello non sei, però sei buffo’. Quello sono restato, anche per i miei amici: uno che si mette al centro dell’attenzione per essere più buffo che bello. Questo non significa che in questo mio modo di essere io non mi trovi bellissimo”» (Pagani) • «Raro esempio di autore di canzoni pop con il cervello» (Poglio). «Se parti da Bologna, capitale mondiale del luogo comune – e come si mangia bene, e come siete accoglienti, e come siete comunisti, e le donne, ah, le donne –, è tutto sempre un po’ più difficile. Canzonette, certo. Forse. Ma con un percorso di erudizione in filigrana, eppure palmare, paragonabile solo a quello di Jovanotti. Al quale gli anni hanno regalato l’espressione da guru. Mentre Cesare no, Cesare ha ancora la faccia buona di quando faceva il fesso cattivo nei film di Pupi Avati, che tra parentesi imita benissimo. E quando ti parla (lui dice di no) sembra quasi debba sempre chiedere scusa: del successo, dei soldi, degli stadi pieni, di essere, o mio Dio, spiritoso» (Luca Bottura) • «Lucio Dalla disse che saresti stato il suo “unico erede”. Cosa ti viene in mente di lui? “Il ricordo di quella mattina che mi chiamò dalla sua casa di Bologna e disse: ‘C’è qui De Gregori, vieni anche tu a colazione?’. Ovviamente andai. Avevo più o meno 25 anni. Li trovai che prendevano un caffè sul terrazzino che dava su piazza Maggiore. Puoi immaginare la mia emozione nel salire fino all’ultimo piano. Ricordo che mi sudavano le mani. L’ascensore era di vetro e vedevo gli oggetti vari, i quadri, i pianoforti. Immaginavo la vita dell’uomo e quella del professionista attraverso gli oggetti”. E come andò poi l’incontro? “Benissimo. Erano i tempi dell’ultimo concerto Dalla-De Gregori. Finimmo a parlare di Com’è profondo il mare. Lui ne parlava con la stessa naturalezza con la quale un padre parla di sua figlia. Ancora oggi vorrei scrivere la mia Com’è profondo il mare. Poi andammo nel salone e c’era un piano, mi misi a suonare e all’improvviso Dalla comparve con una cornice”. Una cornice? “Sì. Disse: ‘Facciamo che diventiamo un quadro io, te e Francesco?’. E facemmo questa foto-quadro tutti e tre assieme, tenendo con le mani la cornice. Io non mi sono mai sentito all’altezza di far parte di quel quadro”» (Fasano) • «A chi ti ispiri di più: Paul McCartney o Billy Joel? “Sul palco sei come una macchina del tempo e lì sopra porti tutti i tuoi miti dell’adolescenza. È un meccanismo naturale. Quando sono solo al pianoforte penso alla faccia di Lucio Dalla, quando mi scateno sento che sto portando avanti qualcosa che avevo dentro all’epoca di Freddie Mercury. Non mi ispiro a nessuno di questi, ma sono tutti dentro di me ogni volta che mi confronto con il pubblico. Loro come i Beatles e John Lennon, Chopin e Beethoven. Ma, giuro, faccio fatica a identificare un solo uomo allo specchio”» (Valenti) • «Sarebbe giusto avvisare chi vuole avere successo che è legittimo desiderarlo, ma che la musica non si può consumare come un rapporto occasionale. Il rapporto con la musica non può essere come quello con una prostituta. Dev’essere pensato come qualcosa in cui ti immergi per tutta la vita, quindi c’è tutta la vita per inseguire i risultati che vorresti». «La creatività […] è figlia della curiosità e dell’incontro con la diversità. Ma non può sopravvivere senza esercizio ripetitivo. Che è anche una forma di meditazione. Il mio amico Valentino Rossi rifà la stessa curva milioni di volte per poterla stringere un solo millimetro in più. O Stephen Curry nel Nba: per diventare il recordman dei tiri da tre, quanti ne avrà fatti prima? Poi è chiaro che la genialità sta anche nel romperle, le regole: ma senza regola da trasgredire non può esistere trasgressione» (a Paolo Foschini). «Cosa pensa di X Factor e degli altri talent? “Li considero un’esperienza più che maturata, più che sfruttata. Hanno creato un segmento di mercato; che è cosa diversa da una scena artistica. Con la pandemia siamo alla fine di un ciclo. Ci sarà un forte ritorno alla territorialità, alle provenienze culturali, alla strada, allo scambio”» (Cazzullo) • «Mi piace che le mie canzoni raccontino una storia. Con un inizio, uno sviluppo e una conclusione costruttiva. Credo che una canzone riuscita sia una piccola profezia. Altrimenti è solo un passatempo fischiettabile». «Non c’è stato un giorno in cui io abbia messo insieme parole perché rimavano o suonavano. Ho scritto Logico perché cerco sempre una logica in quello che dico, e voglio che le mie canzoni siano chiare, comprensibili. È anche un fatto di sensibilità provare a essere accessibili e semplici, di modo che tutti capiscano. Le parole devono colpire al centro del bersaglio, e io le uso per dare forza ai concetti. Se mi chiedessero cosa vogliono dire le mie canzoni, mi spaventerei moltissimo. Mi piace quando si creano delle leggende, perché il pubblico cerca sempre qualcosa di più grande, e così è capitato che si sia sparsa la voce che la ragazza di cui parlo in Marmellata #25 sia morta, come successe a De Gregori con Buonanotte fiorellino. Spero mi capiti ancora». «Ho iniziato a scrivere canzoni negli anni ’90 e il mio gusto rimane legato ai primi amori: la musica inglese, il sound degli anni ’60, la psichedelia. Sono questi i riferimenti che da sempre porto nella mia musica. Non credo scriverò mai un pezzo reggaeton. […] Non amo cavalcare le mode: preferisco pazientare finché non tornano le sonorità che piacciono a me. Tanto torneranno». «Scrivere canzoni non è una cosa seria, e per questo a volte è necessaria. È come guardare la polvere in controluce. C’è un momento preciso: la finestra è aperta, entra un raggio di sole e tu sei nell’angolo giusto per vedere quello che normalmente non vedresti. Intendo dire che attraversare le cose non è figlio della volontà, ma della giusta prospettiva per inventare» • «La politica e l’osservazione del sociale restano fuori dalla sua scrittura. “Per capire chi sta morendo nel Mediterraneo non ci vuole una laurea ma l’immaginazione, pratica che ti fa identificare nell’altro. Il mio lavoro ti esercita a farlo, ma spesso sento canzoni di quel tipo cui manca l’approccio artistico”» (Laffranchi) • «“Ho girato tutte le divisioni. Verso l’alto e verso il basso. […] Sono un grande incassatore, resto in piedi anche quando mi prendono a calci e pugni. Non è stato facile passare dal milione e 700 mila copie dell’esordio alle 80 mila del terzo disco, ma ho sempre pensato che le canzoni mi avrebbero tirato su”. E lo hanno fatto. “Anche io ho i miei insuccessi personali e umani. Non mi vergogno a raccontare che per anni sono stato fuori dalla cornice culturale di quello che era figo. Dopo i Lùnapop sono caduto e mi sono fatto male: ero finito a fare concerti gratuiti nelle piazze. È stato difficile. Il mio produttore Walter Mameli e io abbiamo continuato lungo la nostra strada, proteggendo il nostro lavoro e seminando bene”» (Laffranchi) • «Di notte non arrivo mai alla fine dei miei sogni. Mi risveglio sempre sul più bello, come un televisore che si spegne sull’ultimo calcio di rigore, a un passo dalla mèta. Così da sempre vado a cercare il gran finale dei miei desideri nella realtà. Forse per questo ho iniziato a scrivere poesie che ero ancora un bambino e ho continuato a immaginare di poterlo fare per sempre. Da ragazzo, durante le prove dei concerti che tenevo alle feste liceali, salutavo un pubblico immaginario – “Ciao Milano”, “Ciao Bologna”, “Ciao Roma” –, e adesso che […] ho raggiunto un traguardo simbolico e tremendamente concreto, suonare davvero negli stadi di quelle stesse città, sento, senza spaventarmi, che un percorso si è compiuto e che assecondare la passione di un’intera esistenza mi è servito a regalarmi una bellissima prospettiva di libertà. Sono quello che avrei voluto essere e comprendo che tutto il tempo speso per capirmi, mettermi a fuoco e regalarmi un’identità non è stato tempo perso». «Guarda quella foto alla parete: io con una birra in mano dopo il tutto esaurito all’Arena di Verona. Eccola. La felicità è quella, il risultato di una grande attesa. […] Un artista che vuole avere successo a volte è solo uno che vuole avere successo. Il mio sogno è un percorso alla Celentano o Morandi che attraversi tutte le stagioni» (a Emilio Marrese). «Resto un progetto indipendente nonostante i miei numeri. Lo erano anche i Lùnapop, con un’etichetta indipendente, piovuti da Marte, e probabilmente è stata quella determinazione a farli nascere. Quel primo disco, lo avevo fatto a casa e sui banchi di scuola, da solo con il mio produttore, e oggi faccio la stessa cosa. Sono un artigiano, un bolognese a San Siro, come mi sono definito». «Non sono preoccupato di non riuscire più a scrivere canzoni, ma di spegnermi, di smettere di sentire ed emozionarmi in modo contraddittorio e intenso abbastanza da mandarmi in crisi così da cercare poi di tradurre quella crisi in un pezzo. […] Trascolorare è un rischio che corriamo tutti: se capitasse a me, io davvero non saprei come sopravvivere. Ho iniziato così presto a fare questo lavoro che conosco soltanto un modo di stare al mondo: scrivere la vita». «Quando mi chiedono “Cosa fai nella vita?”, non mi ritrovo mai nella definizione “cantante”, che mi ricorda la parola campanello. Mi sento piuttosto uno che… scrive. È il rapporto con la scrittura che sostenta la mia esistenza. […] Quando ho le parole, ho tutto. La musica è un accessorio, il linguaggio è la concretezza. La musica è il mare, la parola è la possibilità di attraversarlo. Sulla tomba di Freddie Mercury c’è scritto “Lover of life, singer of songs” [“Amante della vita, cantante di canzoni” – ndr]. Sulla mia vorrei ci fosse scritto “Cesare Cremonini, scrittore di canzoni”» (a Giuseppe Videtti).