29 marzo 2021
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Biografia di Warren Beatty (Henry Warren Beaty)
Warren Beatty (Henry Warren Beaty), nato a Richmond (Virginia, Stati Uniti) il 30 marzo 1937 (84 anni). Attore. Regista. Sceneggiatore. Produttore. Vincitore di un Premio Oscar al miglior regista nel 1982 per Reds e di un Premio Oscar alla memoria Irving G. Thalberg (in veste di produttore). «Un uomo capace di reinventarsi più volte nel corso di una carriera memorabile costruita, nel corso di oltre mezzo secolo, solo su 23 titoli» (Stefania Ulivi). «Ho fatto pochi film, ma tutti scelti per passione, per convinzione, perseguendo le mie idee» • Secondo figlio di due insegnanti di fede cristiana battista, la cui primogenita era stata la futura attrice Shirley MacLaine (nata Shirley MacLean Beaty, nel 1934). «Perché non ha seguito le tradizioni di famiglia? “I miei genitori non mi hanno mai spinto a imboccare strade differenti da quelle che mi incuriosivano; ma, a pensarci bene, mia madre insegnava recitazione, come sua madre, e mio padre era anche un violinista, e io me la cavo col pianoforte…”» (Alessandra Venezia). Acclamato giocatore di football americano alle scuole superiori, «vinse diverse borse di studio universitarie di football, ma le rifiutò per studiare recitazione alla Northwestern. Nel 1956, dopo aver lasciato gli studi, si trasferì a New York per allenarsi con la mitica Stella Adler, sostenendosi suonando il piano nei bar e lavorando nell’edilizia. Si trasferì a Hollywood nel 1958» (Judith Newman). «A fargli da apripista a Hollywood, dopo l’esordio in tv e in teatro, fu Elia Kazan, che lo volle come protagonista di Splendore nell’erba del 1961, al fianco di Natalie Wood. Melodramma con amore contrastato, ambientato ai tempi della Grande depressione ma che già anticipava timori e contraddizioni dell’epoca kennediana» (Ulivi). «“Il mio agente mi aveva chiesto di leggere Splendore nell’erba di William Inge dicendomi che Kazan, il quale aveva allora un immenso potere a Hollywood, stava preparando un film. Conoscevo Inge, avevo recitato in teatro alcuni suoi testi, ero stato rifiutato dagli agenti per altri. Arrivai all’incontro con il regista deciso a ottenere la parte”. Che cosa le disse Kazan offrendole il ruolo da protagonista? “Poche parole: è una storia sulla vulnerabilità degli esseri umani, sull’agonia della giovinezza. Voglio che catturi e commuova, ma che riesca anche a dare a tanti un senso di colpa per gli errori che commettono. Per questo il film è rimasto e sempre resterà nella storia del cinema al di là delle recensioni non positive, specie per la mia interpretazione. Elia amava il cinema, ma sempre portava in esso un suo convincimento”. […] Quanto e come le cambiò la vita quel film interpretato nel 1961? “Divenni un attore con la guida di Kazan. Ero soprattutto un aspirante giocatore di football, prima. Quel film segnò la mia esistenza”. Come? “Mai, in seguito, ho dimenticato le sequenze finali, quelle in cui il mio personaggio Bud dimostra a tutti come sia sempre importante seguire se stessi, scoprire chi si è veramente, al di là di ogni moda sociale o ingerenza autoritaria. Alcune parole di Oscar Wilde erano e sono care a me e a Elia Kazan: ‘Conoscere e imparare ad amare se stessi per quello che si è è l’inizio della lunga relazione con la vita’”» (Giovanna Grassi). «Fisico atletico, sorriso ironico e sguardo magnetico, si propone come attore bello e tormentato, sulla falsariga di James Dean e Marlon Brando, e riscuote un notevole successo di pubblico. Dopo alcune prove discontinue, Arthur Penn ne esalta la fantasiosa aggressività nel cabarettista di Mickey One (1965) e nel Clyde di Gangster Story (1967)» (Gianni Canova). «Le qualità imprenditoriali di Beatty si misero in luce nel ’67, quando produsse Gangster Story, in cui nessuno credeva e che in vece iniziò la moda […] degli anni Trenta: “Quando lo mostrai a Jack Warner, l’ottantenne presidente della Warner Bros – racconta –, egli si assentò tre volte dalla proiezione per andare a fare pipì. Segno che il film lo annoiava, e molto. Quando vide poi i titoli di testa, senza colore né audio, quasi gli venne un collasso: ‘Ma se è stata proprio la Warner a inventare il sonoro!’. Ma chi la dura la vince. Ci fu la Guerra dei sei giorni, e al termine l’imprenditore era più allegro, e diede il via a Bonnie and Clyde [titolo originale di Gangster Story – ndr]”. Il film ebbe successo, più in Europa forse che in America, dove la critica si divise in due: da una parte l’osanna, dall’altra il rifiuto totale» (Maurizio Porro). «Dopo i successi di critica con Robert Altman (I compari, 1971) e Alan J. Pakula (Perché un assassinio, 1974) e il trionfo al box office con Shampoo di Hal Ashby (1975), divenne l’icona di una nuova Hollywood, ribelle e sbarazzina, che lasciava campo libero al suo talento inquieto e ironico. Ma quelle esperienze avevano anche temprato la sua passione creativa, spingendolo presto a infrangere la “parete invisibile” fino all’altro lato della cinepresa. Forte del sodalizio con un maestro di teatro e scrittura come Buck Henry, eccolo debuttare da regista e protagonista in Il paradiso può attendere (1978), che lo porta subito a una doppia nomination all’Oscar. Tre anni dopo si getta nell’avventura di Reds, che riunisce il suo talento e la sua passione politica nel tratteggiare la figura di John Reed, il sognatore americano che fu testimone e partecipe della Rivoluzione d’ottobre all’ombra di Lenin. […] Quando Reds esce nelle sale, il tempo della “caccia alle streghe” è finito da tempo, e il regista/ attore/ produttore si gode fama e gloria, pur con l’etichetta del “comunista a Hollywood”. […] Dal 1990, l’anno del coloratissimo Dick Tracy, Beatty ha potuto solo di rado dirigere i film che voleva, e, non per caso, si è identificato nel senatore di Bullworth (1998), da cui traboccano disincanto e rimpianto verso la stagione del sogno e della fiducia in una nuova frontiera della politica» (Giorgio Gosetti). Dopo una lunga pausa, nel 2016 Beatty è tornato nelle sale cinematografiche con una nuova pellicola da lui diretta, interpretata, sceneggiata e prodotta: L’eccezione alla regola. «Mr Beatty, ha dedicato anni a questo progetto. Come è nata l’idea di interpretare Howard Hughes? “Premetto che L’eccezione alla regola non è la storia di Howard Hughes; è la storia di due giovani molto religiosi – appartengono alla Chiesa battista – che sbarcano a Hollywood nel 1958, lo stesso anno in cui ci arrivai anch’io… Entrambi lavorano per Howard Hughes. Siamo agli albori della rivoluzione femminista e sessuale: è un periodo interessante in una città come Los Angeles, che certo non era riluttante a certi cambiamenti. Come me, a essere sinceri (ride). C’era qualcosa di triste, e pure di comico, in quei tempi, effetto di quello che io definirei il puritanesimo sessuale americano – che ha sempre suscitato ilarità in Paesi come la Francia o l’Italia”. Sì, ma perché Howard Hughes? “Hughes mi ha sempre affascinato. Conoscevo tutto il suo entourage, ma non l’ho mai incontrato di persona. Il suo stile di vita poco convenzionale mi incuriosiva. È impossibile tuttavia descriverlo, se non per approssimazione: la mia commedia racconta il suo desiderio di dominare la sua immagine pubblica e di nascondersi. Mi interessava soprattutto il concetto di fama: una cosa enorme cui è difficile abituarsi… è un tale cambiamento nella tua vita!”. È un film in parte autobiografico? “Non direi. Ogni biopic è un lavoro di fiction: io non sono Clyde Barrow di Bonnie and Clyde e neppure John Reed di Reds. È vero però che, mentre rubi l’essenza di una persona, riveli qualcosa della tua infanzia e delle tue esperienze”» (Venezia). «Come mai tutto questo tempo per tornare su un set? “In questi anni ci sono stati i figli, e io sono sempre ai loro ordini: scuole, viaggi, vacanze. Posso passare tanto tempo felicemente senza inciampare sui cavi di un set, ma ora che i figli sono praticamente tutti via di casa c’è qualcosa in quel nido vuoto che mi incoraggia a uscire, a fare film, a riprendermi la mia vita professionale”» (Silvia Bizio) • Dopo una gran quantità di conquiste femminili – quantificate da un biografo non autorizzato in quasi tredicimila, cioè una nuova amante al giorno per trentacinque anni, dal 1957 al 1992: stima definita iperbolica dallo stesso Beatty –, nel 1992 si è sposato con l’attrice Annette Bening (classe 1958), da cui ha avuto i figli Kathlyn (1992) – transessuale, nel frattempo ha assunto il nome di Stephen –, Benjamin (1994), Isabel (1997) ed Ella (2000). «Nel carnet delle sue amanti figurano donne come Julie Christie, Joan Collins, Natalie Wood, Diane Keaton, Jane Fonda e Janice Dickinson, senza dimenticare Madonna, con cui ebbe una relazione ai tempi di Dick Tracy. E, a proposito della Dickinson, […] si racconta della volta in cui la bella Janice si svegliò nel cuore della notte, beccando Beatty “che si ammirava nello specchio”, mentre Jane Fonda ha ammesso che all’inizio era convinta che l’attore fosse gay, salvo poi ricredersi già al primo bacio, “dove sembrava che ci stessimo mangiando a vicenda”. Dopo la figlia del mitico Henry, fu la volta di Joan Collins, con cui Beatty “faceva sesso senza mai fermarsi”. Ma anche per una pantera come Joan “sette volte al giorno” (come recitano le cronache) sarebbero state decisamente troppe da sopportare: “Non penso che sarei potuta andare avanti ancora per molto – ha raccontato la Collins –, perché lui non si fermava mai. Saranno state tutte quelle vitamine che prendeva. Nel giro di pochi anni mi avrebbe distrutta”. Insomma, Beatty era davvero un amatore insaziabile. Che, però, decise di “appendere la libido al chiodo” quando incontrò Annette Bening, sua moglie dal marzo del 1992. Fu amore a prima vista, e da allora lo sciupafemmine Warren si è trasformato in un marito modello» (Simona Marchetti). «“Non ho mai preso in giro nessuno”, si difende l’attore, che pare abbia ispirato You’re So Vain, la hit di Carly Simon, altra sua fiamma, del 1972. “In fondo, sono un bravo ragazzo. Ho aspettato a lungo prima di sposarmi. E, quando uno non lo fa fino ai 54 anni… beh, come dice Arthur Miller in Morte di un commesso viaggiatore, quello che succede fa parte del gioco”. Un gioco che per Warren Beatty è finito sul set di Bugsy, quando ha conosciuto la moglie Annette Bening. “Le ho detto: ‘Non hai niente da temere da me’. E lei mi ha risposto: ‘Non ti ho chiesto niente’”» (Sara Sirtori). «Cosa ha reso così solida questa relazione? “Annette è una donna perfetta”» (Venezia). «Che relazione ha con i suoi figli? “Vede questa cosa? (dice, mentre solleva il cellulare dal tavolo, ndr). I miei figli mi hanno insegnato a usarlo. Li chiamo i miei 4 Paesi dell’Europa dell’Est: porto avanti negoziati con loro, a volte mando anche gli ambasciatori. Per lo più passo il mio tempo ad aspettare che rispondano ai messaggi, e resto malissimo se non lo fanno subito, o se rispondono a monosillabi”» (Bizio) • «Sono l’unica in questa città [Los Angeles – ndr] a non essere andata a letto con lui, e soltanto perché sono sua sorella» (Shirley MacLaine). «Uno su cui ha detto tutto ciò che c’era da dire Katharine Hepburn. Il suo matrimonio con Annette Bening, spiegava KH, ha basi semplici: “Marito e moglie sono innamorati dello stesso uomo”» (Guia Soncini) • Notoria la sua simpatia politica per il Partito democratico, risalente almeno ai tempi di John Fitzgerald Kennedy. «Kazan sosteneva che lui e il presidente non fossero poi così diversi. “Warren aveva tutto quello che Jack aveva. Bellezza, intelligenza, sguardo abile e affascinante con le donne”. Si incontrarono e divennero amici fino alla morte di JFK. E l’amicizia proseguì con il fratello Robert, per cui fece campagna elettorale nel 1968» (Ulivi). «Era con Bobby Kennedy il giorno prima che gli sparassero. […] Ha trascorso un anno a fare campagna per George McGovern» (Newman). «Democratico di ferro, è stato amico di Reagan. Perché si è sempre tirato indietro dalla politica? “Ho deciso che essere un padre e un marito felice di Annette […] sarebbe stato il punto focale più interessante della mia vita”» (Grassi) • «È una star del cinema. Ma, col passare del tempo, ha dimostrato di essere forse ancora più talentuoso dietro la macchina da presa» (Newman). «Quattordici nomination agli Academy Award in cinque categorie diverse (quella come miglior attore, regista, film, sceneggiatura non originale e sceneggiatura originale), un Oscar infine conquistato nel 1982 per la regia di Reds, in cui si diresse, al fianco di Diane Keaton, nei panni di John Reed, ruolo memorabile almeno quanto il Clyde Barrow di Bonnie and Clyde con Faye Dunaway. […] Tanti ruoli rifiutati, altrettanto leggendari: da Butch Cassidy a Non si uccidono così anche i cavalli?, da La stangata a Il grande Gatsby, da Ultimo tango a Parigi a Boogie Nights (l’unico per cui ammette di essersi pentito). È stato parrucchiere a Beverly Hills, un giocatore di football scomparso di morte prematura, Dick Tracy, Bugsy Siegel, un senatore che si dà al rap, Howard Hughes. […] Tra chi l’ha diretto ci sono Robert Altman, Hal Ashby, Arthur Penn, Mike Nichols, Barry Levinson. Ha vissuto a cavallo delle stagioni di Hollywood: ha fatto a tempo a recitare al fianco di un mito come Katharine Hepburn (Love Affair) e ha lanciato Carrie Fisher (Shampoo). La lista degli amici comprende Andy Warhol e Arthur Schlesinger Jr., tra gli ammiratori può vantare Fidel Castro, che gli mandò ottimi sigari cubani dopo l’uscita di Reds» (Ulivi) • «Oggi, […] i capelli brizzolati, gli occhi sempre azzurri, è […] l’uomo dal fascino di sempre. Elegante, galante, spiritoso e autoironico, gran conversatore» (Venezia) «Non ha mai amato parlarsi addosso, è sempre stato piuttosto allergico alle interviste e alla retorica sul ruolo del suo mestiere. “I film”, ha spiegato in più occasioni, […] “sono divertenti, ma non curano il cancro”» (Ulivi). «Per me fare un film è come vomitare. Non che mi piaccia vomitare, ma funziona così: hai un’idea che ti frulla in testa, a volte ti diverte, a volte ti tortura, poi a un certo punto è meglio se esci fuori e la vomiti». «Avrebbe fatto qualcosa di diverso? [Riflette in silenzio:] “No”. Le mancano le fan impazzite di quando era più giovane? [Ride:] “No”. Vorrebbe fare altri film? “Nel mio futuro c’è tanto tempo da passare con Annette…”» (Bizio).