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 2021  febbraio 25 Giovedì calendario

Biografia di Dante Ferretti

Dante Ferretti, nato a Macerata il 26 febbraio 1943 (78 anni). Scenografo. Tra i numerosi riconoscimenti conseguiti, quattro David di Donatello al miglior scenografo (Il mondo nuovo di Ettore Scola, 1983; E la nave va di Federico Fellini, 1984; Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud, 1987; La voce della Luna di Federico Fellini, 1990) e tre premi Oscar alla migliore scenografia (The Aviator di Martin Scorsese, 2005; Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street di Tim Burton, 2008; Hugo Cabret di Martin Scorsese, 2012). «Commettere errori fa sì che le cose che uno ricostruisce siano più vere: la perfezione sa di falsità. Mai copiare la realtà: bisogna reinventarla per renderla più credibile e vitale» • «Sono nato a Macerata, che fu bombardata quando avevo un anno. Casa mia crollò, papà perse una gamba, io restai sotto le macerie per due giorni. Mi salvai perché finii sotto una scala e mia madre non smise mai di scavare. È qualcosa che vedo e rivedo perché ancora lo sogno, ogni volta in modo diverso. Di uguale ci sono sempre io che mi muovo dentro un buco e cerco aria che entra dalle fessure. Da allora, soffro di claustrofobia. Gli ambienti chiusi, piccoli, scuri, mi danno angoscia. […] In quel buco nero, ho aperto l’immaginazione» (a Candida Morvillo). «“Io sono nato a Macerata, e in una città così piccola l’unica cosa bella è che c’erano quattro cinema e altre quattro sale delle parrocchie. Il primo film che ho visto, a 6 anni, fu I ragazzi della via Paal, nella sacrestia di una chiesa vicino a casa mia. Da quel momento il cinema divenne una fissazione: volevo sempre andarci. […] Al pomeriggio, finita la scuola, dicevo a mio padre che andavo a studiare in casa di amici. In realtà gli rubavo… diciamo che mi appropriavo dei soldi che teneva in tasca e correvo a vedere i film. Se mi piacevano, li guardavo anche due volte o tre consecutive, oppure mi infilavo in una sala al primo spettacolo e in un’altra al secondo”. Quali erano i suoi generi preferiti? “Western, film in costume e, ovviamente, quelli di Totò”» (Carlo Piano). «Ero affascinato dai posti dove si giravano i film, quelli sui cow-boy e gli indiani, i film sull’antica Roma, le ricostruzioni storiche». «Vedevo film magari brutti, non importava: l’essenziale era che avessero grandi scenografie. Mi lasciavo andare allo stupore. E adesso mi piace l’idea di stupire il pubblico» (a Paolo Conti). «“Io studiavo all’istituto d’arte, e un giorno decisi che volevo fare il cinema. Mio padre rimase sbigottito e mi chiese con un risolino se volevo diventare attore, però a me piacevano le costruzioni e le scene, anche se non sapevo neppure come si chiamasse questo lavoro. Ricordo che un giorno uno scultore abbastanza famoso di Macerata, Umberto Peschi, mi spiegò che dovevo diventare scenografo. Pensai: ecco quello che voglio fare da grande”. E suo padre come la prese? “Gli dissi che volevo frequentare l’Accademia di belle arti a Roma per studiare scenografia. Pensava fossi matto, anche perché lui sognava che portassi avanti la piccola fabbrica di mobili di famiglia. Comunque, visto che venivo sempre rimandato a ottobre in quattro o cinque materie, mi propose un patto: ‘Se alla maturità vieni promosso a giugno senza problemi, ti mando a Roma’. Pensava che non ce l’avrei mai fatta. Mi misi a studiare l’ultimo mese e mezzo, e passai l’esame con i migliori voti di tutta la scuola. Vinsi addirittura una borsa di studio del Pio Sodalizio dei Piceni. Nessuno ci credeva: pensavano che i professori si fossero sbagliati”» (Piano). «Suo padre mantenne la promessa? “Era un uomo di parola. Mi diede un po’ di soldi da aggiungere a quelli della borsa di studio del Pio Sodalizio dei Piceni e alle 100 lire a bocca che mi passava la Incom”. A bocca? “Nel pomeriggio, dopo l’Accademia, lavoravo alla produzione dei cartoni animati. Facevo le scomposizioni, le bocche dei personaggi che parlavano. Alla fine della settimana, di sole bocche, guadagnavo 12 o 13 mila lire”. […] “Ho avuto la fortuna di cominciare a lavorare a 17 anni. Nelle ore libere dall’Accademia andavo a disegnare da un amico di mio padre, Aldo Tomassini Barbarossa. Era stato scenografo per René Clair e per Blasetti, ma stava lasciando il cinema per dedicarsi completamente alla professione di architetto. Gli offrirono contemporaneamente due film di Domenico Paolella, e lui fu generoso: ‘Se vuoi li accetto così inizi a lavorare, ma poi sul set vai tu’”. E lei si ritrovò sul set di Paolella? “Ad Ancona, a due passi da casa. Ero perplesso: ‘Dopo aver fatto tanto per lasciare Macerata – mi dicevo – proprio nelle Marche mi tocca ritornare?’. In realtà fu un’esperienza importantissima. I film di Paolella erano – come da cognome – di serie P, ma imparai tanto, perché c’è stato un tempo in cui il cinema in Italia, anche il cinema minore, si faceva davvero. […] Le prigioniere dell’isola del diavolo mi servì per fare esperienza”. […] Dai film di Paolella, con un primo grande salto, passò a La parmigiana di Antonio Pietrangeli. “Il lavoro con Paolella mi valse l’apprezzamento dell’organizzatore generale: ‘Anvedi ’sto regazzino’, diceva. Mi presentò Luigi Scaccianoce, un grande scenografo dell’epoca. Gli feci da assistente con Pietrangeli e gli rimasi accanto per tanti anni come assistente a partire da Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini”. Cosa significava assistente? “Portare avanti il lavoro quando lo scenografo si assentava. E si assentava spesso, perché, come le ho detto, non era così strano fare due film contemporaneamente. Scaccianoce non faceva eccezione. Veniva e andava, andava e veniva. Pasolini si era ormai abituato ad avere quello che voleva anche con me, e così quando ci fu il passaggio di consegne attenuò il cruccio. Accadde a Ouarzazate, in Marocco, alla vigilia delle riprese di Edipo re. Avevamo viaggiato per ore ed eravamo arrivati nella polvere in quello che a tutti gli effetti sembrava un villaggio western. Scaccianoce si guardò in giro, mangiò una scodella di riso bianco con noi, lasciò che Pier Paolo e gli altri andassero a dormire e poi mi prese da parte: ‘Caro Ferretti, io ho 54 anni e queste avventure non le posso più fare, non dormo neanche qui, guido fino a Marrakech e domani al massimo arrivo a Roma. Rimani tu e òccupati di tutto quel che c’è da fare: io vado a fare qualche interno alla De Laurentiis’”. Lei che reazione ebbe? “Aspettai Pasolini, che non tardò a manifestarsi: ‘Ma Scaccianoce dov’è?’, ‘È andato a Roma perché dice che ha tante cose da fare per il film’. Pier Paolo si incazzò, ma gli durò un secondo. Scaccianoce – che era bravissimo – non gli era troppo simpatico. […] Dal set di Edipo re, comunque, Pasolini mi mandò via due settimane prima del previsto”. Era insoddisfatto? “Tutt’altro. ‘Vai a Roma a vedere quello che ha fatto Scaccianoce con gli interni – mi disse – e correggi, mi raccomando, perché altrimenti sembrerà sicuramente un set cinematografico’. Io andai a Roma e cambiai tutto. Scaccianoce non se la prese, ma, non avendo fatto praticamente niente, era scettico sul valore del film. Un disfattismo che non cessò neanche quando venne nominato ai Nastri d’argento: ‘Tanto non vinco, perché il film non lo merita’. ‘Mi scusi – gli dissi, un po’ scherzando e un po’ no –, ma il film non merita perché non l’ha fatto lei?’. Poi il premio glielo diedero comunque, e dubbi e critiche non gliene sentii pronunciare più”» (Malcom Pagani). «Nel ’69, poi, ebbi una delusione: ero aiuto nel Satyricon di Federico Fellini, lui mi chiamava “Dantino”, lasciava che gli proponessi le cose, mi dava ascolto. Ero tutto felice, ma si dimenticarono di mettere il mio nome nei titoli di coda. Quando lo scoprii, depresso, me ne stavo andando al mare, ma tornai a casa perché avevo dimenticato il costume. In quel momento, telefona Franco Rossellini, dice: fai la valigia, ho il biglietto aereo pronto, fra quattro ore devi stare in Turchia e da lì in Cappadocia, Pasolini ti vuole scenografo di Medea. Fu il primo film tutto mio». «Appena arrivo in Turchia, mi dicono: “Ferretti, tra quattro ore giriamo, è la prima volta che appare Medea su un carro”. Avevo ancora le valigie in macchina. “Inventa qualcosa per questo carro”, mi dicono. Raccatto dei pezzi di pelle e arrangio quella prima apparizione di Medea: un film capitato così, senza preparazione, ogni giorno una scena nuova» (a Rita Cirio). «Che cosa ricorda della Callas? “Era gentilissima. Andammo a Parigi insieme a Pier Paolo Pasolini e chiamammo per farci invitare a casa sua, per vedere la semifinale dei Mondiali del 1970. Vedemmo a casa sua la partita del secolo, Italia-Germania 4-3”» (Giovanni Bogani). «A Cinecittà incontro Fellini: “Dantino, so che fai Medea da solo, il mio prossimo Roma lo devi fare con me”. “Grazie, maestro, però mi chiami fra dieci anni, così io avrò abbastanza esperienza, e lei magari si sarà stufato di Danilo Donati”. E così avvenne. Prima ci siamo incontrati per La città delle donne, e poi per Prova d’orchestra. Nel frattempo avevo lavorato con Petri, Ferreri, Comencini: un sacco di bei film, com’era il cinema italiano una volta. Ci siamo ritrovati con Fellini a Cinecittà – erano passati dieci anni – di notte sotto un lampione: lui girava con una cartella come quella delle elementari. Lui disegnava e io traducevo in modellini la casa di Katzone e tutto il resto. Per Prova d’orchestra arrivò con un disegnino, la sala dove c’era l’orchestra e poi un buco sul muro buttato giù da un bulldozer. Gli dissi: “Ho visto a New York un film con Paul Newman che faceva l’operaio e buttava giù i palazzi con una enorme sfera d’acciaio”. E così fu per Prova d’orchestra. […] Per E la nave va ho costruito un grande bilico per far muovere la nave come se fosse in mezzo al mare. Lui sale a bordo, vede il bilico muoversi e fa: “Ma io soffro il mal di mare! È meglio se ci mettiamo fuori e muoviamo la macchina da presa e anche il mare di qua e di là”. Ormai lo conoscevo e mi aspettavo di tutto, però siamo andati d’accordo a lungo». «Tra i due c’era un rapporto speciale. “Lui di Rimini, io di Macerata, due provinciali, avevamo memorie comuni, l’adolescenza sull’Adriatico, gli incontri bizzarri. Mentre parlava aveva l’abitudine di disegnare schizzi di caratteri: in fondo era lui che mi ispirava, non a caso lo chiamavo il Faro. La domenica si andava a pranzo a Fregene, ero un po’ suo prigioniero, se non altro perché ero io che guidavo. Ogni tanto mi chiedeva di accompagnarlo per un sopralluogo. Inutile, sapevamo entrambi che avrebbe ricostruito tutto a Cinecittà, ma gli piaceva l’idea. Una volta andammo a Bologna solo perché voleva mangiare in un ristorante che conosceva”» (Maria Pia Fusco). «“Facevo da autista. In quelle occasioni e in tutte le innumerevoli volte in cui abitando in via del Babuino lo caricavo da Canova per andare a Cinecittà. Saliva e faceva sempre la stessa domanda: ‘Dantino, che hai sognato stanotte?’. Io evadevo tra un ‘niente’ e un ‘non mi ricordo’, ma Federico non mollava la preda. Insisteva. Allora, alla terza volta che me lo chiedeva, come in un gioco tra noi, cedevo. E iniziavo a inventarmi sogni. […] A Federico piacevano quelli a sfondo erotico. La commessa della macelleria che appoggiava le tette sul bancone o le mutande delle sarte che vedevo abbassandomi quando mia madre andava a portare i vestiti da misurare. Le alternavo alle scene di vita vissuta che avevo visto ai tempi vitelloneschi e creavo l’alchimia perfetta per Federico, un genio per cui la Gradisca, in fondo, era ovunque”. Gli piacevano le sue storie? “Rideva e mi diceva: ‘Sei proprio il più bugiardo del mondo’. C’erano poche cose che preferisse alla bugia: un modo di riscrivere la realtà e renderla più allegra. Federico sognava sempre: che si trovasse sul set, in macchina o a passeggiare di notte per Roma. Quante camminate abbiamo fatto: ‘Ciao, Dantino: ci vediamo domani, e, mi raccomando, sogna’. ‘Guarda, non perdiamo tempo: se vuoi, il sogno, te lo racconto subito’”» (Pagani). «Nella Città delle donne, le scene di Marcello Mastroianni sotto il letto o che scende di notte in toboga vengono dai sogni». «Prova d’orchestra, La città delle donne, E la nave va, Ginger e Fred, La voce della Luna. Insieme avete fatto cinque film. […] Qual è stato il segreto del vostro incontro? “Stavo nella sua capoccia, nella sua testa. Realizzavo le sue visioni, mi mettevo sulla sua stessa lunghezza d’onda e aggiungevo qualcosa di mio. Federico cambiava spesso idea. ‘In questa stanza – mi diceva – servono solo tre pareti’. Poi si metteva davanti alla macchina da presa […] e intanto prendeva tempo. […] All’inizio mi sorprendeva: ‘Dantino, rivoluzione, ho bisogno della quarta parete e di una porta’. Poi, capita l’antifona, anticipavo le sue mosse. E, quando iniziava con la storia della parete e della porta, ero già un passo avanti: ‘Federico, eccole’. ‘Come eccole?’, ‘Le avevo già preparate’, ‘Dantino, sei proprio un gran figlio di una mignotta’. […] Nella vita era molto simpatico, ma sul set urlava spesso ed era anche capace di trasformarsi e incazzarsi”. Anche con lei? “Una sola volta, sul set di Ginger e Fred. C’erano molte comparse. Lui era nervoso e si alterò: ‘Te l’avevo detto, che non voglio questa situazione, e tu me l’hai imposta di forza: perché?’. Fu l’unica volta che mi trattò bruscamente davanti agli altri, ma ci rimasi molto male. Facemmo pace, ma per qualche tempo i rapporti si raffreddarono. Lui […] preparava il nuovo film. Ci salutavamo, ma non mi diceva mai una parola di più. Un giorno, settimane dopo, mi avvicinò il produttore esecutivo: ‘Federico ti vorrebbe parlare del film’. ‘Gli devi dire che purtroppo non posso farlo perché ne ho accettato un altro’. ‘Dici no a Federico?’. ‘Ci siamo incontrati spesso e non mi ha mai detto nulla, mi sono ritenuto libero’. Il giorno prima un mio amico mi aveva fatto leggere su Variety un’intervista in cui Terry Gilliam annunciava il desiderio di portare al cinema Il barone di Münchhausen. Un produttore con cui avevo lavorato ne Il nome della rosa fece il mio nome a Gilliam, e in pochi giorni il film che avevo inventato di aver accettato con l’emissario di Fellini si materializzò. Ho sempre pensato a un segno del destino”» (Pagani). «Perché Gilliam, in un documentario su di lei, ha detto che spara un sacco di bugie? “Perché su quel set erano finiti i soldi e il produttore voleva fermare la produzione e cacciare Gilliam, che secondo loro spendeva tanto, mentre secondo me erano loro che avevano preventivato troppo poco. Stavamo girando a Cinecittà, che è come se fosse casa mia, e mi metto di mezzo, dico: parlo io coi fornitori, ci penso io. Insomma, feci un sacco di magheggi, furono cambiati vari produttori, ma Gilliam rimase e io tenni tutto in piedi. È stata la mia prima nomination di dieci agli Oscar”» (Morvillo). «Ricorda il primo incontro con Scorsese? “Fu sul set di La città delle donne, nel ’79. Martin venne a trovare Fellini: era con Isabella Rossellini, si erano appena sposati. Fellini e Scorsese avevano grande ammirazione l’uno per l’altro. Fellini si rese conto che ci trovavamo in un bordello, era la sequenza che stavamo girando, e gli disse: ‘Martin, non mi sembra il posto ideale per due in luna di miele’. Lui si guardò intorno e sorrise imbarazzato: ho scoperto così la sua timidezza”» (Fusco). «Con Scorsese è idillio da anni.  “Mi chiamò una prima volta e dovetti dire di no, accadde una seconda e rinunciai per un impegno precedente. Alla terza ho mollato tutto e mi sono precipitato a New York per L’età dell’innocenza. ‘Altrimenti – mi sono detto – non mi chiama mai più’. Ne è valsa la pena”» (Pagani). «Con Scorsese lavoro da sempre benissimo. Parliamo non più di due o tre ore dopo che ho letto la sceneggiatura. Quando comincio a preparare il film, vado nel suo ufficio con sala di proiezione e mi fa vedere tanti film secondo una sua scaletta. Non suoi, ma della storia del cinema: vedi, mi dice, questo è un film bellissimo però non c’entra niente con noi, ma spesso indica un’atmosfera, un’inquadratura, questo sì, quello no. E poi “benvenuto a bordo”, e io comincio a disegnare, con tanto di costruzione di modellini perché si renda conto della tridimensionalità: “Great, great, great”, mi dice. Viene a vedere il costruito una volta, al massimo due». «È vero che l’ha convinto a girare a Roma grazie alla cucina italiana? “L’ho portato al ristorante a Roma. Avevo chiamato personalmente il cuoco per raccomandarmi che il pranzo fosse qualcosa d’indimenticabile. Mentre mangiavamo continuavo a ripetergli: ‘Senti che buono, ma dove puoi trovare qualcosa di simile?’. Mi ha dato retta”» (Piano). Negli ultimi anni, parallelamente alla sua attività di scenografo cinematografico (Il settimo figlio di Sergej Bodrov, 2014; Cenerentola di Kenneth Branagh, 2015; Silence di Martin Scorsese, 2016), ha curato numerosi altri progetti, tra cui l’allestimento scenografico del Cardo e del Decumano di Expo 2015 a Milano, il riallestimento dello statuario del Museo Egizio di Torino e l’ideazione del primo modulo di Cinecittà World a Castel Romano (Roma). Nel 2020 la pandemia da Covid-19 l’ha sorpreso in Oklahoma, mentre stava preparando le scene del prossimo film di Martin Scorsese, The Killers of the Flower Moon, inducendolo a rimpatriare. «In questi mesi italiani cosa ha fatto? “Ho disegnato soprattutto il film: ho fatto i bozzetti. Ho disegnato anche delle opere, tra cui la Bohème che dovevo fare a Tokyo, ma che è stata spostata di un anno. Inoltre ho lavorato alla celebrazione dei 100 anni di Fellini e ho ricostruito il Cinema Fulgor, a Rimini e poi a Cinecittà. Ho ricostruito anche il bordello del film La città delle donne”. […] Quali altri progetti? “Mi hanno chiamato a Macerata, perché vogliono fare un museo sul mio lavoro. Mi hanno anche chiesto di illuminare una parte della città, dove tra l’altro è nato Matteo Ricci: sono nato non lontano da lì. Del resto, mi avevano chiamato in Cina per ricostruire un pezzo del monastero dove ha vissuto il celebre gesuita, che, come si sa, in Cina era diventato molto importante. Ma la cosa è sospesa. Vorrei anche ricordare che a Gent, in Belgio, ho rifatto L’ultima cena di Leonardo, con la fotografia di Storaro e i costumi di mia moglie, Francesca Lo Schiavo. È un film che dura 10 minuti, con la regia di Acosta”» (Alain Elkann) • Tra i principali riconoscimenti ricevuti al di fuori dell’ambito cinematografico, la nomina a Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana (2012), la dedica della grande esposizione «Dante Ferretti. Design and construction for the cinema» presso il Museum of Modern Art di New York (2013/2014) e la laurea honoris causa in Architettura da parte dell’Università di Roma «La Sapienza» (2016) • «Il rapporto con il teatro […] è discontinuo: “Da ragazzo mi piaceva andare a vedere spettacoli comici e, quando dovevo andare ad assistere ai classici, che palle! Da professionista, invece, ho firmato le scenografie di molte opere liriche, e qualche anno fa anche la regia di una Carmen”» (Emilia Costantini). «Il regista, l’ho fatto solo a teatro per la Carmen: una scena vuota, tre tende, ambientazione anni ’30, e, siccome non mi piace il flamenco, c’ho messo il tango. Grandissimo successo. Regia al cinema? No, no, non mi va di aspettare quando mettono le luci, immaginarmi tutto prima… Mi piacerebbe solo per far fare le scene a un altro e poi contestarlo, così per una volta sono io che rompo le scatole. Sto scherzando…» • Due figli, Melissa (1971) ed Edoardo (1977) – rispettivamente dirigente d’azienda e aiuto regista –, dalla moglie Francesca Lo Schiavo (1948), arredatrice cinematografica con cui collabora con successo da molti anni, e insieme alla quale, tra l’altro, ha vinto i tre premi Oscar alla migliore scenografia. «Si conobbero in Sardegna, una sera d’estate a cena da un amico comune, Fabrizio De André. “Chiacchierando scoprimmo che a Roma abitavamo a due strade di distanza e che usavamo lo stesso garage. Cominciammo a lasciarci bigliettini sulla macchina: la nostra storia è nata così”, […] racconta Ferretti. Che ai tempi era già uno scenografo affermato. Lei lavorava in uno studio di design. “Ci siamo sposati dopo un anno e mezzo, è arrivato subito il primo figlio. Io ero molto occupato, e stavo spesso fuori, e Francesca mi chiese di lavorare con me. All’inizio ero contrario, non mi piaceva l’idea di moglie e marito sempre insieme, a casa e al lavoro: potevamo stancarci l’uno dell’altra. Il nostro primo film insieme è stato La pelle di Liliana Cavani. Poi, Fellini: è stato lui che ha preso Francesca al laccio e che l’ha promossa”. È nata così una collaborazione da Oscar, […] tre statuette vinte da entrambi, […] che si confondono tra decine di altre statuette e premi internazionali che affollano uno scaffale della loro bella casa romana. Se per lei “è l’Oscar per The Aviator quello che più mi tocca il cuore, il primo: ricordo che cercavo di contenere le emozioni, non riuscivo ad essere contenta, solo dopo mi sono resa conto…”, per lui è “particolarmente caro il primo David per Il mondo nuovo, l’unico film con Scola… ma mi emoziona anche la prima nomination, che fu per Le avventure del barone di Münchhausen, anche perché un critico americano scrisse che era la più bella scenografia della storia del cinema”. […] Negli anni la collaborazione tra scenografo e arredatrice è diventata sempre più facile. “Ci parliamo sempre meno. Lo facciamo all’inizio di un film, poi lei vede i miei bozzetti e va avanti per conto suo: non ho bisogno di dire niente, so quello che fa, è brava, amatissima da Martin (Scorsese, ndr), lui dice che lei ha il mestiere nel Dna. Con Francesca mi sento tranquillo, soprattutto lavorando in America. Quando lei salta un film per me è un lavoro in più, devo controllare tutto. Molti stranieri sono bravi, ma spesso ignorano l’arte italiana, i maestri della pittura, la cultura europea”» (Fusco). «Come si fa a mantenere un sodalizio sentimentale e professionale così a lungo? “Facile: io mi chiamo Dante Ferretti Lo Schiavo, e ho detto tutto”» (Bogani) • «È vero che lei è ansioso? “Sono ansiosissimo e molto insicuro. Sono sicuro di essere insicuro”» (Elkann) • «Ho girato il mondo intero, vissuto nelle grandi metropoli di ogni continente, ma la mia città del cuore rimane Roma: dal punto di vista architettonico è una miniera inesauribile, e mi basta camminare a naso in su osservando i palazzi per trovare l’ispirazione» • «Dipingere è diventato per lei un nuovo mestiere? “No, ma mi è sempre piaciuto dipingere. Ho sempre fatto bozzetti, ma se ho due ore di tempo faccio un quadro – grande o piccolo, lo finisco in due ore –, e anche in vacanza parto con delle tele e mi metto a dipingere quando gli altri sono al mare. Mi piace moltissimo”» (Elkann). «Sto facendo dei quadri grandi. In un certo senso sono figurativi: sono come una serie di reliquie di navi. Per esempio ho dipinto un’ancora e una nave affondata. Achille Bonito Oliva mi aveva proposto di fare una mostra”» • «Lei come si considera? Un pittore, uno scenografo? “Io mi considero un lavoratore, e sono gli altri che devono definirmi: io faccio il mio lavoro al meglio possibile”. Qual è la sua vocazione, allora? “È fare lo scenografo: volevo farlo da quando avevo 13 anni. Mi piace inventare periodi storici, cambiarli, raccontare le storie costruendo le scene”» (Elkann). «Che cos’è la scenografia? “La prima risposta che mi viene in mente è: materializzare i sogni e le visioni dei registi”» (Piano). «Quali qualità irrinunciabili deve avere uno scenografo? “La fantasia che ti possa spingere a vedere le cose in maniera diversa da come appaiono. Per quel che mi riguarda, poi, la capacità di immedesimarsi in un determinato periodo. Cerco di calarmi in quella fase storica, mi immagino come vivevano”» (Piera Anna Franini). «Per ogni film, mi calo nei panni di un architetto dell’epoca come un attore che applica il metodo Stanislavskij. Non copio, non mi ispiro, ma proprio vivo calato nello spirito del tempo e immagino con lo stupore e l’ambizione di un uomo di allora. Ho un periodo preferito, però: gli anni ’40, l’architettura fascista, sebbene io non sia fascista» • «Nell’èra del computer che a colpi di clic crea situazioni, personaggi e magie mentre gli attori spesso sono costretti a recitare davanti a uno schermo verde che verrà poi riempito digitalmente, Ferretti è l’ultimo artigiano a lavorare dal vero. “Disegno ancora a mano i bozzetti dei miei progetti”, racconta, “e mi servo della tecnologia solo come braccio operativo della mia fantasia”» (Gloria Satta). «“La prima idea si materializza con uno schizzo su qualsiasi materiale mi trovi davanti. Uso con più facilità il carboncino e la matita. Per ogni ambiente butto giù svariati schizzi. Il passo successivo è il bozzetto. È il mondo dei colori: mi piace la ricercatezza, la perfezione del segno, la cura del particolare. Spesso faccio bozzetti enormi, paradossalmente perché sono un pigro: quando il regista mi chiede qualcosa, invece di parlare c’è il bozzetto che risponde per me”. Sono poi gli assistenti – pochissimi o una squadra, dipende dal budget – a elaborare i disegni tecnici e i modellini: “Sono particolarmente importanti per le scene complesse, impossibili da definire sul disegno. Lavorare sui modellini consente sempre di aggiungere qualcosa di nuovo sulla costruzione. Costruire, seppure in miniatura, vuol dire confrontarsi con i problemi tecnici ed estetici di una sequenza: emergono con più precisione le esigenze di altri professionisti, il direttore della fotografia per esempio. Ma soprattutto il regista ha la possibilità di verificare se gli effetti drammatici si sposano con la costruzione che fa da sfondo alla scena”» (Fusco). «Lei dice di avere una “megalomania maximalista”… “Mi piace fare le cose grandi e le grandi cose: nel lavoro sono più che megalomane. Quando disegnai i bozzetti per le scenografie di Gangs of New York, erano talmente grandi che Scorsese dovette liberare due uffici per farceli stare. Ma nella vita direi che sono una persona molto ‘basso profilo’”» (Piano) • «Perché ricostruisce tutto daccapo, invece di girare in location? “Perché è più bello, perché posso farlo come voglio. Anche se ai produttori racconto che mandare il cast in giro, pagare le diarie, costerebbe di più. Quando uscì Il nome della rosa, mi chiamarono da una rivista di viaggi: cercavano l’abbazia con il labirinto verticale e non la trovavano. Dissi: è a Roma, vicino a Prima Porta, accanto a una cava di tufo, ma sbrigatevi, perché domani la buttano giù”» (Morvillo). «Non ha mai la tentazione di fare l’architetto e costruire una casa? “L’ho già fatto, ma non è il mio lavoro. Fare l’architetto civile lega troppo le mani, nel cinema si può spaziare: se il film è brutto si distrugge e si dimentica, invece se uno fa una brutta casa purtroppo quella rimane. Basta girarsi intorno: siamo circondati anche da case molto imbarazzanti. Preferisco il cinema”» (Elkann) • «L’attore ti è grato quando fai una bella scena dove lui si sente bene. Gli attori americani entrano nel personaggio e devono sentirsi al posto giusto. Bellissima la lettera che mi ha scritto Daniel Day-Lewis: mi ringraziava di aver saputo ricostruire interi quartieri di Broadway e Downtown di New York, e un pezzo di porto con le navi come erano all’epoca. Il tutto a Cinecittà, a Roma. Gli attori americani hanno il problema di dover entrare totalmente nel film che stanno girando» • «Gli autori che più mi hanno fatto amare il cinema restano Pasolini e Fellini. Con Fellini ho scoperto il cinema dei sogni e della visionarietà, Pasolini è stato il primo a farmi lavorare come scenografo: prima ero un aiuto. Da lui ho imparato il cinema della poesia. Eravamo molto legati, ho curato la sua casa a Sabaudia, con quella di Moravia, ma ci siamo sempre dati del lei». «Con Pasolini ho girato otto film. Le sue inquadrature cominciano sempre con un grandangolo. Era come un Chaplin pittore: per Il Vangelo secondo Matteo, Mantegna; per I racconti di Canterbury, la pittura inglese e francese e Paolo Uccello; per Le mille e una notte, i miniaturisti arabi e persiani. Non amava gli interni, non gli piaceva lavorare in teatro. Ricostruivo fuori e facevo molti interventi per riportare l’ambiente all’epoca scelta. Girava con una raffinatissima semplicità, eliminando tutti gli orpelli». «Scorsese è il più grande regista vivente. È un costruttore di immagini ineguagliabile, sembra abbia l’anima nel cinema» (ad Antonio Monda) • «Il più emblematico e rappresentativo scenografo della sua epoca. Forse il migliore di tutti i tempi» (Brad Pitt) • «C’è un regista italiano con cui le piacerebbe lavorare? “Non conosco molto la nuova generazione. Mi ha chiamato Matteo Garrone, ma non ero libero. Con Giuseppe Tornatore siamo amici, mi piacerebbe”. Immagino che per gli italiani lei costi troppo. “Non sono io che costo, ma faccio cose che per loro costano troppo. Qui, affittano un appartamento e ci girano dentro tutto il film”» (Morvillo). «Ha lavorato con il meglio della regia internazionale. Chi le manca? Con chi vorrebbe lavorare? “Con Ridley Scott”. […] Quale film le ha regalato la più grande soddisfazione?L’età dell’innocenza e Le avventure del barone di Münchhausen: qui, mi permetto di dire, la scenografia riuscì proprio bene. […] Anche Cinderella non è riuscito male…”» (Franini) • «Un rimpianto, ce l’ha? “Mi piacerebbe avere 30 anni di meno, ma forse anche 40. Su questioni così fondamentali è triste essere ipocriti”» (Pagani). «Le pesa l’età? “Ogni tanto, mi chiedo perché gli anni passano. E dove vanno”. E che si risponde? “Che non lo so, ma che purtroppo tanti registi con cui vorrei fare ancora tanti bei film non ci sono più”» (Morvillo) • «Sempre innamorato del cinema? “Sempre di più”» (Franini). «Il cinema è la mia unica passione. Un giorno mi hanno chiesto: lei che sogni fa? E ho risposto: non sogno mai, sogno quando mi sveglio». «Da quando lavoro nel cinema vivo immerso in una favola». «Per me lavorare è un po’ come una vacanza: del resto, dopo una o due settimane di riposo, mi annoio». «Si emoziona ancora, maestro Ferretti? “Sempre. A ogni film. Per questo ringrazio il cinema, un mondo spesso imperfetto e pieno di errori. Ma quanto sarebbe triste e intollerabile la realtà, se fosse perfetta! Apparirebbe finta. Perciò si chiama realtà, che è come il cinema. O magari è il cinema…”» (Conti).