26 febbraio 2021
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Biografia di Luigi Chiatti (già Antonio Luigi Cristiano Rossi)
Luigi Chiatti (già Antonio Luigi Cristiano Rossi), meglio noto come «il Mostro di Foligno», nato a Narni (Terni) il 27 febbraio 1968 (53 anni). Geometra. Pedofilo. Pluriomicida. «Pedofilo solitario, che avvicina i piccoli per incapacità di stabilire un rapporto con gli adulti. “Uccide per odio verso il mondo accumulato in lunghi anni di umiliazioni”, dissero i giudici» (Sabina Minardi). «Se mi mettete fuori lo rifarò, e sarà di nuovo colpa vostra» (Luigi Chiatti, nel corso del processo) • Figlio naturale di Marisa Rossi, all’epoca domestica ventiquattrenne, e di padre ignoto. Così la donna, intervistata da Dino Martirano per il Corriere della Sera, nel 1994: «Facevo la cameriera a Roma. Lavoravo in casa di un rappresentante di commercio: andavo spesso al cinema, e una sera, prima di entrare in sala, incontrai un bellissimo ragazzo con gli occhi azzurri. Si chiamava Francesco, veniva da Firenze, era una persona importante [in altre occasioni lo definì un ricco studente aristocratico – ndr]: a me sono sempre piaciute le persone importanti. Lui era bello, e io non ci ho capito più niente. Però lui è sparito: ci ho provato, ma non sono mai riuscita a rintracciarlo. Magari non sa neanche che Luigi è figlio suo». Riconosciuto dalla madre come proprio figlio e da lei fatto battezzare Antonio Luigi Cristiano, il bambino crebbe per sei anni nel brefotrofio Beata Lucia di Narni, presso il quale la Rossi lavorò nei mesi precedenti e successivi il parto, come donna delle pulizie e balia: «Le suore di Narni erano gelide: potevi parlare solo con loro perché gli psicologi venivano di tanto in tanto. Io volevo rimanere accanto a mio figlio, ma loro hanno accettato solo che io facessi da balia ad altri ragazzini». La Rossi, a un certo punto, «riesce […] a portarlo con sé a Roma, in casa di una famiglia dove lavora a servizio. “Ma la figlia di questi signori e Antonio si litigavano i giocattoli, non andavano d’accordo. Allora dovetti riportarlo a Narni”» (Carlo Chianura). Ancora la madre naturale a Martirano: «Io lo portai all’orfanotrofio solo perché ero sola e senza soldi. Poi loro, contro la mia volontà, me lo hanno portato via»; «A un certo punto sono tornata a Narni e l’ho trovato cambiato: timida io, timido lui, non riuscivamo più a parlare. Non riuscivamo mai a rimanere da soli. Poi un giorno sono andata a Narni e non l’ho trovato: mi spiegarono che era fuori con un signore, un medico che lo veniva a prendere. Poi, alla fine, me lo hanno detto: “Guarda che Luigi ormai ha un’altra madre”». Il 24 marzo 1974, infatti, Antonio Rossi era stato affidato a una coppia borghese di Foligno, i coniugi Ernesto Chiatti, medico, e Giacoma Ponti, ex maestra elementare, i quali lo adottarono poi ufficialmente il 13 giugno 1975, cambiandogli legalmente il nome in «Luigi Chiatti». «Mio padre è stato un padre assente. Il suo era un mondo tutto legato al lavoro. La cosa che mi faceva più rabbia era che con i pazienti e gli amici scherzava ed era aperto; in casa, invece, il silenzio assoluto, da lui stesso imposto. […] Quindi mi salvavo solo con mia madre, con la quale, almeno agli inizi, potevo parlare. Ma poi è finita anche con lei. […] Da piccolo sono stato un bambino difficile, ribelle e capriccioso, anche aggressivo: ma è stata più che altro aggressività verso l’ambiente di casa, che poi si è trasformata in astio. […] Per il cattivo rapporto con i miei genitori mi sono sentito un bambino e poi un ragazzo senza via di uscita: quando accennavo a qualche mia questione o lanciavo messaggi, loro mi bloccavano sempre. Io sapevo che soffrivano anche loro, perché io li facevo soffrire; però non mi sono mai ritenuto cattivo». «Io da piccolo la chiusura (verso gli altri) non l’avevo, poi è iniziata: prima verso i genitori, poi verso tutto l’ambiente». «Chiatti fu […] un bambino difficile, a casa e a scuola: i genitori, quando aveva dieci anni, lo inviarono da una psicologa, Beatrice Lidonnici, che lo seguì per qualche tempo. Riguardo a questo, il “Mostro di Foligno” afferma: “Con lei l’apertura è sempre stata limitata, per la paura che poi riferisse ai miei genitori. Per questo motivo non mi sono mai aperto con lei; lei conosce solo una parte dei miei problemi, ma non conosce quello vero, che è molto più vasto”. […] La terapia, quindi, non sembrò sortire alcun effetto, e Luigi rimase chiuso in un mondo tutto suo. […] La psichiatra che lo aveva in analisi formulò una diagnosi di “marginalità e di iposocializzazione”. Rilevava un Io debole, una certa anaffettività, uno scarso controllo degli impulsi e dispersione dell’identità. Tuttavia, poiché le analisi a quell’età risultano particolarmente mobili e dinamiche, si orientò verso un disturbo di personalità borderline. […] Acquisito il diploma da geometra nel 1987, ha svolto il praticantato obbligatorio di due anni per potersi iscrivere all’ordine dei geometri, e questa fu la sua unica esperienza lavorativa. […] Il 13 dicembre 1989 partì per il servizio militare, dove ebbe le prime esperienze omosessuali» (Gianluca Massaro). Col tempo il suo comportamento divenne sempre più inquietante. «Chiatti mi raccontò che spendeva i propri soldi per comperare oggetti da bambini, e durante le indagini, nella sua casa, venne rinvenuta una cassa piena di biancheria intima per bambini, perché lui immaginava la propria vita con un bambino» (Vittorino Andreoli). «Ritengo di avere tutte le capacità mentali e materiali per compiere tutte le operazioni necessarie a convivere con i bambini che avrei rapito. Credo, in altri termini, che avrei saputo provvedere alla loro alimentazione e alla loro pulizia, e anche alla loro educazione. L’unica cosa che non avrei potuto fare è punirli, perché ritengo che i bambini debbano solo giocare, ed essere educati attraverso il gioco». «Il 4 ottobre del 1992 Simone Allegretti, un bimbo di quattro anni e mezzo di Casale, un paesino vicino a Foligno, scomparve da casa. Venne ricercato per giorni, ma senza risultato. […] Si andò […] facendo strada il terribile dubbio che il piccolo fosse rimasto vittima di qualche maniaco: tutti i giornali parlarono dell’esistenza di un mostro. […] Venne trovato in una cabina telefonica di Foligno un messaggio anonimo senza data, scritto in stampatello col normografo su un foglio di carta quadrettata: “Aiuto! Aiutatemi per favore. Il 4 ottobre ho commesso un omicidio. Sono pentito ora, anche se non mi fermerò qui. Il corpo di Simone si trova vicino la strada che collega Casale (fraz. di Foligno) e Scopoli. È nudo e non ha l’orologio col cinturino nero e quadrante bianco. […] Saluti, al prossimo omicidio. Il Mostro”. Nel luogo indicato, in fondo a un pendio fiancheggiante quella strada, nascosto in mezzo a dei rifiuti, venne, in effetti, ritrovato il cadavere del bambino: era morto per strozzamento, aveva una ferita da coltello al collo, contusioni in più parti del corpo, ma senza segni di violenza carnale. Gli abiti erano sparsi attorno. […] Qualche giorno dopo […] venne trovato nella stessa cabina telefonica un altro messaggio, scritto con gli stessi caratteri, e con un tenore di compiaciuto scherno nei confronti di coloro che svolgevano le indagini: “Aiuto! Non riesco a fermarmi. L’omicidio di Simone è stato un omicidio perfetto. […] Vi consiglio si sbrigarvi, evitando altre figuracce. Non poltrite. Muovetevi. […] Ho deciso di colpire di nuovo la prossima settimana. […] Tocca a voi evitare che succeda. Il Mostro”. L’impegno di uccidere ancora nell’arco di una settimana non venne mantenuto. Le indagini di mesi non approdarono a nulla. […] Si giunse così al 7 agosto 1993, quando scomparve da casa, sempre da quelle parti, Lorenzo Paolucci, un ragazzo di tredici anni. Fu Marcella Sebastiani che, verso le 14 e 20 di quel giorno, segnalò al 113 che il proprio nipote tredicenne mancava da casa da tre ore circa. La polizia si mise subito in movimento, e tutto il paese, ovviamente in allarme per l’assassinio di un anno prima, partì alla ricerca del bambino. Vennero organizzate delle squadre di volontari per esplorare i dintorni, e a esse partecipò anche Luigi Chiatti, un geometra di ventitré anni al momento disoccupato, che si trovava in quei giorni nel paese, dove i suoi genitori adottivi avevano una seconda casa per il fine settimana: egli vi si trovava da solo, perché padre e madre erano rimasti a Foligno, dove risiedevano. Chiatti accompagnò il nonno della vittima, Feliciano Sebastiani, alla ricerca dello scomparso, e si diressero verso il laghetto, dove il geometra gli disse di voler controllare se ci fossero tracce di Lorenzo. […] Il cadavere venne in breve ritrovato, dal nonno della vittima, vicino al ciglio di una strada, da dove evidenti scie di sangue fresco e tracce di trascinamento del corpo conducevano proprio a una finestra dell’abitazione di Chiatti. La polizia fece subito irruzione nella casa. […] Chiatti venne invitato a seguire gli agenti. […] Il pubblico ministero, con un provvedimento immediatamente notificato all’interessato, avvisò il geometra che si sarebbe proceduto a suo carico per i reati di omicidio a danno di Lorenzo Paolucci e di Simone Allegretti. L’8 agosto 1993, il giorno successivo al ritrovamento del corpo di Lorenzo, Chiatti confessò al magistrato che lo interrogava di essere l’omicida» (Massaro). «Mi ero fermato da qualche giorno nella casa di campagna; i miei erano rimasti a Foligno. Avevo conosciuto, fra altri ragazzi, anche Lorenzo. È arrivato a casa mia senza che neppure l’aspettassi: l’ho fatto entrare. Ci siamo messi seduti e ci siamo messi a parlare di varie cose. Mi disse anche che era timido e mi parlò di una ragazza che gli piaceva. Fin lì non c’erano problemi, poi ci siamo messi a giocare a carte. Abbiamo fatto due partite a briscola, e lui le ha vinte tutte e due. Poi abbiamo giocato alle due carte, io ho vinto due mani su tre, lui una su due; rimaneva da fare l’ultima mano. Poi è scattato qualche cosa che non so, forse un sentimento di invidia che già altre volte avevo provato, perché sentivo Lorenzo in qualche modo simile a me, ma al tempo stesso migliore e più fortunato. Lorenzo era un po’ timido, ma lui, gli amici, li aveva comunque. In più, non mi ha detto che aveva un fratellino piccolo: io lo immaginavo solo, non l’avrei mai ucciso. Così per Simone, poi si è scoperto che aveva una sorellina: ecco, io non l’avrei mai ucciso. Avrei pensato che non era simile a me, solo come me, quindi non l’avrei mai ucciso. Sotto la spinta di questo sentimento, in un lampo ho preso la decisione di colpirlo. Ho preso un forchettone che avevo vicino e l’ho colpito al tronco. C’è stata una specie di lotta; io non vedevo Lorenzo, era come se fossi accecato, era come se non avessi pensieri. Io stavo sopra di lui e lui cercava di impedirmi di colpirlo; poi lui mi ha detto: ‘Perché mi vuoi uccidere?’. Le sue parole mi hanno momentaneamente bloccato, ma non sono state sufficienti per fermarmi, è prevalsa la considerazione che ormai non potevo tornare indietro. In quel momento ho cominciato a riflettere su quello che stava accadendo. Vedevo la disperazione dipinta sul volto del bambino. Mi vergognavo del suo sguardo. Avevo fatto del male a un bambino, era la prima volta. Mi è parso che mi rimanesse un’unica strada, quella di ucciderlo, e ritenevo seriamente che questa fosse la migliore soluzione anche per lui. Non era morto, e allora l’ho colpito con una coltellata al collo. Dopo che l’ho colpito è iniziato il panico, il terrore, come se incominciassi a svegliarmi. Cercai di mettere il corpo in un sacco per trasportarlo da qualche parte e nasconderlo, ma era troppo pesante. Allora l’ho trascinato giù dalla finestra, e quindi per pochi metri fino al margine della strada, dove l’ho lasciato. Ho cercato poi di mettere in ordine e di pulire, ma a un certo punto mi sono reso conto che non ce la facevo a pulire tutto, e allora mi sono arreso». «Dirà al processo che, ucciso Lorenzo, si masturbò sul suo cadavere. Venne contestato a Chiatti anche l’omicidio del piccolo Simone dell’anno prima, ed egli confessò senza reticenze. Disse che da tempo aveva accarezzato il progetto di andarsene da casa, di vivere lontano dai suoi con la sola compagnia di un bimbo piccolo: per questo motivo andò girovagando in auto, cercando un bambino da rapire, che avrebbe tenuto con sé solo qualche giorno, come per fare una sorta di piano generale di quella ventilata fuga. Incontrò per caso Simone: era solo nei pressi della sua casa, se ne stava seduto ai piedi di un albero a giocare» (Massaro). «Luigi Chiatti incontrò la prima vittima, di 4 anni, il 4 ottobre. Me lo disse lui, e quella data rappresentò un elemento importante, perché, aggiunse, lui era un devoto di san Francesco, che viene onorato quel giorno. Chiatti lesse quella coincidenza come una specie di dono, perché sosteneva di amare i bambini» (Andreoli). «Il bambino mi piaceva, mi interessava, oltre che per rapirlo, anche sessualmente. Non lo forzai a salire con me in auto, non fece resistenza; mi diressi verso casa mia a Foligno, sapevo che i miei genitori erano assenti, lo portai nella mia camera e, senza fargli violenza, lo aiutai a togliersi i pantaloni e gli slip: volevo fargli dei giochi sessuali. […] Il suo pianto mi bloccò l’eccitazione, temevo che i vicini udissero il pianto. Avrei voluto riportarlo a casa sua, ma temevo che la polizia mi avrebbe scoperto, e poi il bambino piangeva, soffriva, e così gli misi una mano sul collo. Non volevo ucciderlo, avevo il timore di essere scoperto, ma volevo solo far cessare la sua sofferenza, togliergli il dolore, non la vita. Fu così che gli strinsi con le mani il collo il più possibile, senza pensare che lo stavo uccidendo: stava accadendo un fatto che non mi aspettavo. Avevo voglia di troncare tutto, come se non fosse accaduto niente». «Narrò che era in preda al panico, ma ciononostante mise in atto tutto quanto servisse a occultare il delitto. […] Nell’interrogatorio parlò molto anche della sua vita, improntata […] alla solitudine e alla carenza di rapporti affettivi. “È da molto che non ho amici stabili e vivo prevalentemente in solitudine. Non esco la sera, non ho ragazze, non vado a ballare, mi limito a guardare i film in televisione e, talvolta, a uscire da Foligno per un giro in macchina. Il mio problema è che non ho compagnia. […] Spesso mi prendevano in giro, ma non ho mai reagito. Tutti o quasi approfittavano del fatto che ero un tipo tranquillo e che, sicuramente, non avrei reagito. […] Quando ho ucciso Simone vivevo ormai da un pezzo in solitudine, e questo aveva fatto crescere dentro di me la necessità di una compagnia. Anche il bisogno di un contatto fisico”. […] “Lorenzo, lo avevo conosciuto un anno prima a Casale. Con lui è nata una relazione un po’ diversa; da lui ero attratto sessualmente, e poi il suo carattere era molto simile al mio: silenzioso, riservato e timido. Io, vedendolo, vedevo un po’ me stesso. Però lui, pur essendo timido, riusciva in qualche maniera ad avere amici, io no. Per questo lo invidiavo. Volevo stringere amicizia con lui, ma non riuscivo, perché avevo paura che poi lui, scoprendo i miei problemi di omosessualità, mi avrebbe abbandonato, avevo paura di non piacergli per i miei problemi”. Alla luce di queste dichiarazioni, corroborate dagli elementi di prova raccolti dagli inquirenti, il 28 giugno 1994 il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Perugia chiede il rinvio a giudizio per Luigi Chiatti» (Massaro). Dapprima condannato dalla Corte d’assise di Perugia a due ergastoli (28 dicembre 1994), Chiatti si vide poi riconoscere la semi-infermità mentale dalla Corte d’assise d’appello di Perugia, che riformò quindi la sentenza di primo grado, condannandolo a 30 anni di reclusione (11 aprile 1996). «A ridurre la pena a 30 anni era intervenuta la decisione del giudice, che ne dichiarava la semi-infermità mentale, causata da un periodo di violenze subite in orfanotrofio. Una scelta che aveva creato polemiche e molte perplessità. Nella perizia presentata dal pm, infatti, lo psichiatra Vittorino Andreoli aveva riportato alcune frasi del mostro che ne dimostravano la lucida violenza. Il perito lo considerava una persona “normale”, non infermo di mente» (Claudio Cartaldo). La sentenza di secondo grado fu infine confermata dalla Corte suprema di cassazione (4 marzo 1997), «sottolineando che la decisione dei giudici d’appello si basava su “fatti specifici riguardanti la vita dell’imputato, caratterizzata sin dalla più tenera infanzia da carenze affettive e da molteplici frustrazioni”» (Elsa Vinci). Rinchiuso nel carcere di Prato, grazie all’indulto e ai benefici di legge ne uscì dopo soli 21 anni, il 3 settembre 2015: essendo però stato giudicato ancora socialmente pericoloso dai periti incaricati dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, anziché essere rimesso in libertà fu assegnato per tre anni (periodo ulteriormente prorogabile a cadenza biennale, previa nuova perizia) alla Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) – tipo di struttura sanitaria subentrata ai soppressi ospedali psichiatrici giudiziari – di Capoterra (Cagliari). «“Nonostante il trascorrere del tempo, si rileva ancora un forte rischio di recidiva”, scrivono i medici. “In Chiatti di recente è emerso uno stato di frustrazione e di solitudine che potrebbe gestire in modo imprevedibile. Nei vari incontri che si sono succeduti non è stato riscontrato in lui mai nessun cenno di rimorso o un minimo dolore per i fatti commessi”. “Si tratta”, sostengono nella loro relazione inviata al Tribunale di sorveglianza di Firenze, “di un disturbo delirante” con “una quota di aggressività repressa e la totale mancanza di un contatto con il proprio mondo interiore”» (Giuseppe Caporale). Le successive perizie del 2018 e del 2020 hanno confermato la necessità di trattenere Chiatti nella Rems di Capoterra, dove pertanto egli tuttora risiede • Nell’ottobre 2018, poco dopo essere stato riconosciuto ancora socialmente pericoloso, inviò una lettera aperta a L’Unione Sarda, in cui si professò per la prima volta pentito dei propri delitti, scrivendo, tra l’altro: «Ritengo doveroso rivolgermi ai familiari delle povere giovani vittime: Simone Allegretti e Lorenzo Paolucci, prematuramente private a causa mia della loro vita. Ciò che vorrei trasmettere è che, ancor oggi, nel loro ricordo, provo una forte sensazione di immenso dolore personale. […] Mi dispiace, vi chiedo umilmente scusa con il cuore in mano. Non vi chiedo di perdonarmi, so che è difficilissimo, ma per lo meno di concedermi di dare “un senso” al sacrificio delle due vittime. […] Oggi, sono una persona molto diversa, […] grazie all’opera di tutti gli operatori che hanno avuto modo di lavorare su di me, sull’elaborazione dei fatti e sulla strutturazione della mia persona. In questi anni di restrizione ho cercato di trasformare tutto il male fatto in gesti di aiuto nei confronti di chi, come me ristretto, si trovava in difficoltà. […] Nella vita non c’è miglior cosa che agire per il bene, i ricordi delle persone aiutate rimangono per sempre ed illuminano la vita. […] Vorrei rassicurare, per quanto mi è possibile, le famiglie delle povere vittime. Oggi c’è una persona diversa ristretta, una luce non riconosciuta che vuole essere accolta semplicemente perché è luce, non è più negativa ma positiva, e che vuole tanto dare agli altri, trasmettere se stessa e dare un senso a tutto ciò che è avvenuto e che non doveva avvenire. Se potessi tornare indietro non rifarei mai quello che ho fatto, perché ciò che ho fatto è distruzione della vita e disprezzo del creato. Scusatemi» • «“Sono sul corridoio di sezione con mia madre e altri detenuti e ho con me le forbicine piccole della Chicco. Ci sono nel corridoio dei capi di bestiame (mucche, credo). Con meticolosità le dobbiamo fare a pezzi piccoli (privati di carne e grasso), non c’è spargimento di sangue”: è solo uno dei tanti incubi che, a distanza di vent’anni dai delitti di Simone Allegretti e Lorenzo Paolucci [articolo pubblicato nel 2014 – ndr], affollano la mente di Luigi Chiatti, conosciuto anche come il Mostro di Foligno. Incubi che Chiatti scrive regolarmente al suo unico confidente, Sergio, un […] livornese che tanto tempo ha trascorso con lui nel carcere di Prato. […] “Sono in una stanza, ci sono due ripiani rialzati pieni di materiale granuloso drenante marroncino, con me ci sono altre 2-3 persone. A un certo punto da sotto il letto vedo uscire due insetti dalla forma di bastoncino con sopra una specie di ala marroncina (tipo ala di farfalla). Ho timore, uno dei due è più piccolo. Mi avvicino, quello più grande scatta, quasi a volermi attaccare per difendere il più piccolo. Io indietreggio e lui si ferma, riprovo ad avvicinarmi, vorrei ucciderlo, ma non so come fare…”, scrive ancora Chiatti a Sergio. Che racconta: “Sogna spesso animali”. Come […] quando dice, in una lettera, di vedere “un coniglio scuoiato. Sembra già cotto, come lessato, tagliato per lungo a metà. Lo faccio a pezzi con le mani e lo metto in un contenitore di media grandezza, di plastica”» (Giulio Bucchi) • «Su incarico della magistratura, studiai la personalità di Luigi Chiatti e lo ritenni capace di intendere e di volere al momento dell’omicidio di due bambini, che aveva prima sottoposto ad abuso sessuale. Per questo in primo grado fu condannato a due ergastoli. […] Confessò, anche quand’era in carcere, che, se fosse uscito, avrebbe subito ricominciato a farlo» (Andreoli). «Lo stesso Chiatti, a una guardia carceraria, confermò le sue intenzioni, dicendo: “Una volta che avrò scontato la mia pena, forse saranno vent’anni, studierò quello che ho scritto sul floppy-disk a proposito dell’omicidio di Simone. Così almeno questa volta ucciderò con più intelligenza…”» (Cartaldo) • «Ho già perdonato Luigi Chiatti, ma non lo perdonerei più se accettasse di tornare libero. Ho perdonato Chiatti per le violenze che ha subìto da piccolo. Ma non perdonerei, invece, chi lo dovesse far tornare libero. E non perdonerei Chiatti se accettasse di esserlo» (Luciano Paolucci, padre del piccolo Lorenzo, la seconda vittima di Chiatti, nel 2015).