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 2021  febbraio 16 Martedì calendario

Biografia di Leonardo Pieraccioni

Leonardo Pieraccioni, nato a Firenze il 17 febbraio 1965 (56 anni). Regista. Attore. Comico. Sceneggiatore. «Solo Tarantino può fare un film su una pizza che incontra una tarantola, e gli viene un capolavoro. Io no. Faccio commedie» • «Sono nato nella bambagia, figlio unico e amatissimo» (ad Alessandro Penna). «Ho capito di voler fare questo mestiere a sette, forse otto anni, quando mi sono reso conto che preferivo dire sciocchezze piuttosto che cose sensate, con l’unico obiettivo di far ridere chi mi ascoltava. A scuola, durante le interrogazioni, non riuscivo a trattenermi: se vedevo che l’attenzione del pubblico, ossia la classe, stava calando, dicevo qualcosa di buffo. Prendevo quattro, ma suscitavo grandi risate. Avevo, perfino, dei tormentoni. Quando parlavo dei Promessi sposi, in qualunque scena o contesto, introducevo i bravi. I miei compagni lo sapevano, e cominciavano a ridere non appena dicevo: “E poi arrivavano i…”». «Com’era il giovane Pieraccioni? “Uno studente ripetente all’Istituto di periti aziendali”» (Valerio Cappelli). «Nel 1982 andai alla prima del film del Nuti Madonna che silenzio c’è stasera al cinema Manzoni di Firenze (dove peraltro 13 anni dopo ho fatto la prima de I laureati). Ero con un amico cabarettista, che alla fine del film con aria di sufficienza disse: “Ma dove vuole andare questo?”. A me invece parve di capire che “questo” sapeva benissimo dov’era andato, e da quel giorno dove era lui volevo andare anch’io!». «Sviluppai una sorta di venerazione per Nuti: era il mio mito di adolescente e volevo essere come lui. Tra una serata di cabaret e uno spettacolo al circolino decisi che volevo fare cinema sul serio, ma avevo bisogno di qualcuno che me lo spiegasse per bene. Andai da Giovanni Veronesi: lui mi portò con la sua macchinina sul set di Caruso Pascoski. Lì conobbi Francesco: stringemmo amicizia, un’esperienza indimenticabile». La frequentazione con Nuti si fece assidua, tanto che il giovane Pieraccioni si recò persino «un pomeriggio di Natale a casa sua a Narnali a fargli leggere i soggettini che già a 18 anni mi portavo dietro. Lo andavo a trovare nel suo ufficio a Roma, s’andava a mangiare “al baretto” e spesso m’invitava anche a casa sua. Quando gli chiedevo di farmi fare qualche particina in un suo film, lui tutto serio e convinto mi diceva: “Te devi fare il protagonista, non devi accontentarti di un ruoletto”». Agli stessi anni risale la fraterna amicizia con altri due fiorentini di pochi anni più grandi: Carlo Conti e Giorgio Panariello. «Come vi siete conosciuti? Conti: “Leonardo, lo incrociai nel 1982, a uno spettacolino che si chiamava Un ciak per artisti domani”. Pieraccioni: “Avevo 17 anni, lui mi disse: ‘Hai un minuto di tempo per farci ridere’”. Conti: “Me lo rinfaccia sempre. Capii subito che era un fuoriclasse, faceva un Antognoni (ex capitano della Fiorentina, ndr) e un Grillo straordinari”. Panariello: “Io e Carlo ci conoscemmo qualche anno dopo, a Vibo Valentia. Lui presentava, io facevo le imitazioni”. Conti: “Ci scambiammo subito i telefoni. Quelli fissi, ovviamente: era il 1986. Partimmo con Succo d’arancia su Teleregione Toscana, e ora eccoci qui”. […] Pieraccioni: “Carlo […] veniva a prendermi con la Renault 5 a casa, in via della Mattonaia 27. I miei si affacciavano alla finestra: si andava a far le serate in discoteca, volevano sapere chi fosse. La nostra è nata proprio come un’amicizia: poi, d’inciampo, si è fatto delle cose di lavoro insieme. […] Carlo […] è il mio fratello maggiore. Da ragazzo ho sempre avuto un tribolo sentimentale che Beautiful, in confronto, ’un l’era nulla. Quando finiva una storia, lo chiamavo tutto agitato e lui (imita Conti, assume un tono tra il prete e lo psicologo, ndr): ‘Stai calmo, stai bono, ’un l’ammazzare, e ’un si butta dalla finestra la fidanzata’”. Conti: “Ho sventato decine di crimini passionali. E dico sul serio”» (Penna). «Ho iniziato andando in giro con Ceccherini, Panariello e Conti: facevamo spettacoli di piazza che erano delle vere e proprie battaglie. A Figline Valdarno c’era un proprietario di discoteca che si divertiva a vedere quanto tempo riuscivamo a restare in scena. Il pubblico era tremendo: ricordo ancora la voce di uno spettatore che, appena iniziavo a dire qualcosa, mi gridava “la tu’ sorella”. La cosa più terribile erano le “convention” per le ditte. Ti mettono su un trespolo e devi far ridere. Una volta capitò che il pubblico restasse immobile. Mi spiegarono poi che erano tedeschi. Alla fine gli ho fatto le ombre cinesi, sennò non ci pagavano» (a Fulvia Caprara). «Ha mai avuto dubbi sul suo percorso artistico? “All’inizio della carriera: grazie al babbo ero entrato alla Siette (azienda di fibre ottiche); dopo un po’ di tempo decido di prendere un anno sabbatico, nonostante lo sconforto in casa: ‘Ma sei impazzito? Cosa hai in testa?’, la litania quotidiana dei miei genitori. […] Alla fine dell’anno […] mi sono licenziato, e dentro avevo qualche dubbio sulla mia reale lucidità mentale. Insomma, temevo la cazzata, avevo perso un po’ della mia leggerezza”» (Alessandro Ferrucci). «Ho fatto corsi da caldaista e da steno-dattilografo. Poi impiegato in una società di telefonia, fino a che Claudio Cecchetto mi chiamò con Carlo Conti a DeeJay Television dopo avermi visto in Succo d’arancia, una sorta di Zelig che facevo in coppia con Panariello su una tv locale. Avevo 24 anni». Dopo alcune fortunate esperienze televisive e teatrali e qualche piccolo ruolo al cinema, maturò la decisione di darsi alla regia cinematografica. «“Dopo tante vhs il mio sogno, come i cineasti di allora, era un film in pellicola. Debuttai con leggerezza, mentre gli altri si curavano solo di ‘cosa ne penserà Nanni’, cioè Moretti. Gli altri volevano le stellette critiche, io le prime tre file piene in sala”. Ma mostrò un suo film a Moretti. “Il mio co-regista a un incontro pubblico lo invitò a vedere il nostro corto, lui si presentò a casa. La donna che scompare era una boiata, Nanni lo vide, accese la luce ed educato disse: ‘Beh insomma, la strada è lunga’”» (Arianna Finos). Nel 1995 il folgorante debutto, con I laureati. «È stato il parto più difficile. Partivo da Firenze con il mio zainetto blu, il copione ancora con il titolo Amici fuori corso. Facendomi forte del fatto che Giovanni Veronesi lo avrebbe scritto con me se avessimo avuto un produttore. Non ero sicuro di me come protagonista: mi misi accanto Papaleo, Tognazzi e Ceccherini». «In questo mestiere il problema è iniziare, trovare la persona che ti dà fiducia. Le mie “madonnine” furono Rita e Vittorio Cecchi Gori. Venivo dal cabaret di piazza o in discoteca, che sono dei match di Fight Club dove la musica improvvisamente tace e tu devi avere lo stesso ritmo». «Avevo una paura tremenda di dirigere: la prima inquadratura della mia vita, me la sono fatta dare da Giovanni Veronesi. Da allora ho capito quanto è vera quella cosa che una volta ha detto Truffaut: “Il regista è uno che deve trovare le risposte anche quando non ne ha affatto”». «Il terzo giorno di riprese del mio primo film, I laureati, Nuti mi venne a trovare a sorpresa sul set. Per me fu come quando al parroco di campagna arriva il vescovo durante la messa. Mi sembrò davvero una “benedizione”! Prima di andare via, guardò la macchina da presa e mi disse in un orecchio: “Alzala di 20 centimetri”. Io lo salutai, poi misi l’occhio nella cinepresa, dopodiché la feci alzare di 20 centimetri, e mi accorsi che l’inquadratura in effetti era più bella». «Perché la storia dei quattro fuori corso? “Per me la commedia perfetta sono i primi due Amici miei, capolavoro assoluto di sceneggiatura, di regia e interpretazione: li vedo ogni sei mesi e godo; loro erano dei cinquantenni-sessantenni con la paura di morire, e io pensai ai trentenni con la paura di crescere”. A partire da lei. “Avevo 28 anni, affrontavo gli interrogativi sul futuro e avevo capito che, a volte, l’università era una forma di rifugio dalle responsabilità”. […] “Per I laureati ho girato un film lungo tre ore e 25: per questo ho tagliato tanti personaggi e cammei, come la presenza di Giancarlo Antognoni, per me un totem”. Trattò sul compenso? “Ho ancora incorniciato il foglietto con la cifra”. Una conquista. “Non avevo l’agente, e mi affidai ai suggerimenti di Veronesi: ‘Fai così: se ti offrono 40 milioni, rilancia a 50; se sono 50, punta a 60’. Bene. Vado all’appuntamento con l’avvocato di Cecchi Gori, e dopo i convenevoli esordisce: ‘Noi abbiamo pensato a 70’. E io: ‘Benissimo!’. Risposta: ‘È stata la trattativa più veloce della mia storia’”. […] Quando ha detto “È un successo”? “A quel tempo si telefonava ai cinema o si andava a verificare di persona; io chiamai un amico: ‘Mi accompagni?’. Ci presentammo al Manzoni di Firenze, e appena arrivati iniziai a urlare di gioia, e non è metafora, è realtà: c’era la coda al botteghino”. Festa anche per i produttori: 15 miliardi d’incasso. […] “Dopo l’uscita, le critiche giornalistiche me le leggeva il Ceccherini, assediato dalle lacrime agli occhi per le risate: peste e corna, mentre il botteghino andava benissimo”. Non si offendeva? “Mai, e il massimo lo raggiunse Michele Anselmi (storico critico, ndr), con giudizi pesanti, compresa l’accusa di scarsa genuinità; (cambia tono, sornione, ndr) negli anni, con Veronesi, ci siamo divertiti ad assegnare nei film i nomi dei detrattori a personaggi che magari inciampavano. E Michele Anselmi c’è in Ti amo in tutte le lingue del mondo mentre è carponi, frustato sul sedere”» (Ferrucci). «I laureati 2 non c’è stato. “Cecchi Gori fece una brochure in cui annunciava I laureati 2 con me e Maria Grazia Cucinotta. Io non ero convinto, gli parlai del nuovo film, e lui: ‘I laureati 2 sarebbe stato meglio, ma facciamo questo Ciclone’”» (Finos). «Il successo del Ciclone è nato da una congiunzione astrale che capita una sola volta ogni dieci anni. È stato come vincere una partita di calcio facendo 12 gol di testa. In quel periodo i Cecchi Gori vivevano lo pseudo-dramma che incassasse meno de I laureati. Insomma, la vera regola del cinema è che non ci sono regole». «“Il ciclone nel 1996 arrivò a 78 miliardi di lire e 11 milioni di spettatori. In vhs vendette 1 milione 700 mila copie. Il produttore mi chiese: ‘Dimmi cosa vuoi: una Ferrari, qualunque cosa’. Risposi che per un credente il massimo era incontrare Padre Pio; per me, Alberto Sordi”. Come andò? “Fu paterno. ‘Quanti anni hai?’, chiese. ‘Trenta’. ‘Io alla tua età facevo sette film l’anno’. Come dice il Marchese del Grillo, ‘Io so’ io, e tu…’. Disse che, quando De Laurentiis gli offrì cinque contratti insieme, le sue sorelle a casa commentarono così: ‘Stasera vuoi la minestra o i cappelletti in brodo?’. Si mangia sempre con le posate. Piedi per terra, e via”» (Cappelli). «Con il successo, l’invidia? “Il top fu dopo Il ciclone: venni invitato a una festa di cinematografari, e nonostante l’invito credevo di essere invisibile: nessuno si è avvicinato, nessuno mi ha salutato, nessuno mi ha guardato, ed è uno dei motivi per cui non ho mai abitato a Roma”. Via dalla capitale. “Inizialmente dormivo in un residence nel quartiere Prati, poi ho iniziato l’avanti e indietro con Firenze, con i miei amici storici che quando mi vedevano ogni volta sottolineavano ‘Uh, è arrivato il regista’, con chiaro tono canzonatorio”. Un rimpianto? “Con Ceccherini desideravamo vincere un David, legarlo al cofano della macchina e tornare così a Firenze”» (Ferrucci). «Nel Pesce innamorato raccontavo me stesso in fuga dal successo: la gente non l’ha capito, si scappa da Equitalia o dalla suocera, non dalla popolarità. Ma io, ex magazziniere, ero stato travolto dal Ciclone e, da pigro, ero stato preso dal panico di lavorare sul serio. Un giorno ho accostato la macchina in un’area di servizio, e ho pensato di scappare nel bosco che avevo davanti, costruirmi una casetta e sparire. Un minuto dopo ho capito che, quella casetta, ce l’avevo già: era Firenze» (a Sara Faillaci). «Il momento più difficile? “Dopo i 78 miliardi di Il ciclone e i 75 di Fuochi d’artificio abbiamo girato Il mio West, regia di Veronesi, con Harvey Keitel e David Bowie: non è andato bene. Girammo in inglese perché pensavamo di poter prendere l’Oscar e forse il Nobel. Quando a letto nel silenzio sento un fischio, so che oltre all’acufene è ancora il pernacchione che ci fecero all’epoca: la volemmo fare troppo grossa”» (Finos). In seguito Pieraccioni ha continuato a portare in sala un nuovo film solitamente ogni due anni (Il principe e il pirata, 2001; Il paradiso all’improvviso, 2003; Ti amo in tutte le lingue del mondo, 2005; Una moglie bellissima, 2007; Io & Marilyn, 2009; Finalmente la felicità, 2011; Un fantastico viavai, 2013; Il professor Cenerentolo, 2015; Se son rose, 2018), nel periodo natalizio, riscuotendo in genere un discreto successo, sia pur non paragonabile a quello dei primi titoli. «Leonardo Pieraccioni è beato tra le donne, nella sua ultima commedia, Se son rose, in cui racconta – in chiave quasi autobiografica – gli amori della sua vita, con la consueta leggera malinconia. Il personaggio, infatti, che si chiama Leonardo, incapace di costruire una storia sentimentale duratura, ripercorre i rapporti passati, nel tentativo di costruire un nuovo futuro. […] “Questo film è il primo della seconda serie: la prima serie è partita coi Laureati, quei trentenni che conoscevo bene, poi negli anni ho raccontato altri passaggi della vita, compresi i dubbi delle storie, il cui epilogo è ‘vissero felici e contenti’”, confida Pieraccioni. […] “Oggi, alla veneranda età dei 50 anni, ho voluto raccontare coloro che prendono coscienza, che non ce la fanno, a fare questa maratona dell’amore, che hanno tirato i remi in barca. L’amore infinito, secondo me, è uno solo, quello per i figli”» (Paolo Travisi). «Anche se mi sento un ventisettenne, non lo sono. Perciò, d’ora in poi, al posto delle belle ragazze che ti sconvolgono la vita, racconterò sempre di più i figli. Mi piace raccontare l’età che ho». «Ha fatto tanti film. Il prossimo? “Le dico solo che saremo io e Marcello Fonte: mi ha folgorato in Dogman. Ci sarà anche Massimo Ceccherini”. […] Come ha vissuto la clausura? “In campagna tra i cinghiali. Ma sono preoccupato per il mondo dello spettacolo. Il flashmob con i bauli a Milano è stato un tuffo al cuore”» (Finos) • Molto fortunato – prima che la pandemia da Covid-19 imponesse la chiusura dei teatri – lo spettacolo portato in giro per l’Italia a partire dal 2016 con i suoi due storici sodali, Panariello Conti Pieraccioni – Lo Show, approdato anche in prima serata su Rai 1. «Non c’era un titolo meno “telefonato” di Lo Show? Conti: “C’era, ed era Fratelli d’Italia, il nome del nostro trio e degli spettacoli che facevamo 20 anni fa. Ma nel frattempo è diventato un partito politico”. Pieraccioni: “La Meloni, per tenerci buoni, ha promesso che il su’ figliolo lo chiamerà Carlo Giorgio Leonardo”. Quando avete deciso di riunirvi? Pieraccioni: […] “Durante le prove per una serata che facemmo in occasione del compleanno di Francesco Nuti”. Conti: “Eravamo a San Gimignano: l’odore del teatrino di paese fece scattare la nostalgia delle nostre origini, della gavetta”. […] Panariello: “Solo che dovevamo aspettare di essere tutti e tre liberi. Carlo, siamo dovuti andarlo a prendere dentro il televisore”» (Penna). «La tournée che abbiamo fatto io, Carlo Conti e Giorgio Panariello è stato un trionfo: a Firenze abbiamo battuto il record delle repliche, che era di Roberto Benigni. Mi piacerebbe fare altre cose insieme a loro, ma sono troppo impegnati» (a Ilaria Ravarino) • «Per altri ha recitato di rado. “Le battute, me le scrivo addosso: sono piccoli cappotti. Conosco i miei limiti. La prima prova da protagonista, Miracolo italiano con Anna Falchi, mi fece paura. Mi avevano tagliato barba e capelli, sembravo un pinolo lesso”» (Finos). «Sono onorato di aver rifiutato il corteggiamento di grandi autori e molte cose che mi hanno offerto, come gli show in tv e le pubblicità» • Varie relazioni sentimentali, tra cui quella con la protagonista di Una moglie bellissima Laura Torrisi (classe 1979), durata dal 2007 al 2014, dalla quale è nata Martina (2010). «Ormai sono sicuro di appartenere alla categoria di uomo che non supera i tre anni di relazione. La maratona dell’amore è faticosissima, e io sono uno che, la maratona, la fa con le infradito, senza nemmeno le scarpe giuste». «Con Laura sono arrivato al venticinquesimo della maratona. E, se non sono arrivato in fondo con lei, vuol dire che per me è impossibile. Lei era perfetta, fisicamente, mentalmente: una ragazza di provincia come me, che ama parlare del pizzicagnolo e vivere in campagna. Una così non mi ricapita più». «Una delle mie più grandi fortune sai chi è? Laura! […] Un’ex compagna meravigliosa. Fortuna sotto tutti i punti di vista: sia perché Martina è un capolavoro, sia perché il rapporto tra me e lei è molto più bello ora rispetto a quando si stava insieme» (ad Alessandro Penna). «L’unico amore che dura è quello tra genitore e figlio. Martina è il senso della mia vita. Tra le mie canzoni più belle c’è la sua risata. Ho abbassato la prospettiva al metro suo, e attraverso il suo sguardo rivivo cose che mi ero dimenticato» • «Ma lei è mai stato molestato? “Lo confesso: mi sono sempre augurato che una bella donna mi si offrisse, magari in cambio di un lavoro. Ma nessuna mi è mai saltata addosso. Peccato”» (Gloria Satta) • Tifoso della Fiorentina • Scarsissimo interesse per la politica. «I politici mi annoiano, e sui social lo dico spesso. Se una persona ha un talento vero, non credo che gli verrebbe in mente di fare politica: farebbe altro. I politici mi fanno pensare ai matti che credono di essere Napoleone. Salvini? Renzi? Nessuna grande differenza. La politica è come un reality: vince l’ultimo che dice qualcosa che possa funzionare al televoto». «Il vostro amico Ceccherini ha detto che, quando Renzi era ragazzo e voi già ometti, gli facevate i gavettoni. Una volta l’avete pure frustato con le ortiche. Conti e Panariello: “Non è vero”. Pieraccioni: “Io ci aggiungerei un avverbio. Purtroppo non è vero”» (Penna) • Tra i passatempi preferiti, la chitarra e il canto. «Io sto al canto come Guccini sta al cinema. Francesco mi ha fatto l’onore di partecipare a tre dei miei film (Ti amo in tutte le lingue del mondo, Una moglie bellissima, Io & Marilyn, ndr), e, come lui è venuto a divertirsi con me, anche io mi diverto a scrivere canzoncine. Adesso però sono passato a canzoni più strutturate. […] Più avanti si va, più io canto e faccio gorgheggi. E faccio tutto io, musiche e testi. Sono una “one man band”, nel senso che io me la canto e io me la suono! Però, davvero, sono canzoncine cui non manca niente, se non il pudore di cantare dal vivo» (a Ornella Sgroi) • Grande passione per Francesco Guccini. «Io sto a Guccini come la Boschi sta a Renzi. Una devozione incredibile. Mia nonna per i miei dieci anni mi regalò un suo disco. Lo imparai a memoria. Io sono nato vecchio, diceva la mi’ mamma». «Primo concerto. “A 11 anni Francesco Guccini. Poi a 14 mi sono fatto portare a Bologna in via Paolo Fabbri 43: come un feticcio ho iniziato ad accarezzare la buchetta della posta, ho infilato un dito dentro, ho curiosato, e in primo piano ho visto un ombrello; lì mi sono fermato, e ho pensato: ‘Anche per uno come Guccini piove’”. Una proiezione celestiale. “Per me uno come Guccini non poteva essere così umano da venir toccato dagli agenti atmosferici”» (Ferrucci) • «Firenze è uno degli amori della mia vita, sempre presente e importante. Tant’è che sono uno dei pochi uomini di cinema che continua a vivere nella propria città, senza trasferirsi a Roma come vuole la tradizione» • «Non tirato, ma tiratissimo: ha i coccodrilli in tasca, e non ti offre un caffè manco morto» (Giorgio Panariello) • «“Per me il cinema e il palco sono un divertimento non una professione; non sento mai la fatica”. […] “Non mi annoio a non fare niente”. Parole sue. “E lo ribadisco: per me l’optimum è avere una e sottolineo una cosa al giorno. Basta. Il resto del tempo punto a vagabondare per casa, suonacchio la chitarra, vedo la tv, mando messaggi vocali a raffica, a volte rompo anche le palle con questi messaggi, scrivo canzoni mai pubblicate”» (Ferrucci). «Il mio vero talento è di saper non fare niente da mattina a sera» • «Non le piacerebbe per una volta fare un film completamente diverso? “L’ho già fatto, con Il mio West, e non è andata benissimo. Comunque anche se dovessi spiazzare farei sempre un film comico, magari solo un po’ più amaro. Io ho la sindrome del cabarettista: mi piace sentire la sala che esplode in una risata ogni 50 secondi, altrimenti avrei accettato le proposte che mi hanno fatto altri registi. La commedia, da sempre, è il genere che piace di più al pubblico: in Italia abbiamo una grande tradizione fatta di attori come Gassman, Sordi, Manfredi e Tognazzi e di registi come Risi e Monicelli. Noi siamo i loro cugini poveri, ma, insomma, facciamo ridere. Per me la cosa più importante è che i miei film piacciano alla mia mamma, e non tornare a fare il magazziniere”» (Paternò). «Chi nasce saltimbanco rimane saltimbanco, so che può sembrare patetico ma io mi sento sempre lo stesso, anche perché non sono mai caduto nella trappola del cinema d’autore. Certo, tre o quattro David di Donatello sulla mensola di casa non guastano mai, ma io non avrei mai fatto niente senza almeno una risata, e poi non ho mai avuto fregole: mi continuo a considerare un cabarettista prestato al cinema». «Non ho la sindrome del David di Donatello, perché non c’entro nulla con quei premi. Quelli come me sono maschere, non interpreti. Maschere sempre uguali a se stesse» • «È la faccia buona del cinema italiano popolare: un bravo ragazzo di provincia che regala a un pubblico che non vuole pensare favole capaci di scorrere come acqua fresca» (Simonetta Robiony). «Cavalca con orgoglio le piccole (e grandi) cose che danno un senso alla vita di provincia – l’amicizia come solidarietà cameratesca, la vitalità del sesso e del cibo, la forza dei propri valori piccolo-borghesi –, e una buona parte del suo successo nasce proprio da qui» (Paolo Mereghetti) • «Penso di essere un “clown bianco”, cioè un comico di reazione, uno che ha bisogno di avere accanto il “clown rosso” che gli fa cadere il cappello dalla testa, e così parte la risata. Perché? Beh, mi sono guardato allo specchio e ho visto che ero troppo bello per essere nell’altro ruolo. Benvenuti e De Bernardi mi hanno spiegato che esistono due categorie fondamentali di comici, “trombanti” e “non trombanti”, e che io appartengo alla prima» • «A fare questo mestiere oggi ci si sente avvantaggiati. I grandi caporali come Sordi, Mastroianni e Gassman non ci sono più. Continuiamo a lavorare con altri linguaggi. Siamo solo dei piccoli Salieri: loro erano i Mozart» (a Valeria Arnaldi). «I suoi film che più ama?I laureati e Ti amo in tutte le lingue del mondo, perché ha una scansione di eventi che mi diverte sempre. Fece 25 milioni. Oggi, quando una commedia va bene, ne incassa 8, a parte Checco Zalone, che corre da solo. Per questo oggi è più difficile fare cinema”» (Cappelli) • «“Il bello potrebbe anche venire adesso…” Perché? “È finito il momento di grande clamore e incassi: ora sento meno responsabilità, meno pressione. Adesso ho maggiore libertà, e magari posso tornare a lavorare pure con Cecchi Gori. Chissà”» (Ferrucci). «Non sono nostalgico. Penso che il bello deve ancora venire, anche perché ho una figlia che dieci anni fa non avevo e mi si è spostato ancor più avanti il baricentro. Riguardo con tenerezza I laureati, ma alla domanda “Torneresti 29enne?” mi si accende nel cielo un “no” gigante come in un film di Woody Allen».