19 febbraio 2021
Tags : Riccardo Cocciante
Biografia di Riccardo Cocciante
Riccardo Cocciante, nato a Saigon (allora Indocina francese, oggi Vietnam) il 20 febbraio 1946 (75 anni). Cantante. Compositore. «Non sono mai stato di moda, il mio stile non è mai stato prepotentemente nuovo. È un difetto perché non creo una moda, è un pregio perché riesco a superare i tempi» • Figlio di un italiano originario di Rocca di Mezzo (L’Aquila) e di una francese, trascorse l’infanzia nella natia Saigon. «Eravamo quattro figli e io ero il secondo, Mai stata facile la vita per il secondo figlio» (a Laura Putti). «Ricordi del Vietnam? “Penso a un’infanzia serena, piena di musica e di colori. In famiglia si ascoltava soprattutto l’opera: Verdi, Puccini, Donizetti, il bel canto italiano. Ma erano di casa anche i grandi chansonniers francesi: Jacques Brel, Georges Brassens, Gilbert Bécaud. Crescevo solitario e curioso. Saigon era un’esplosione meravigliosa di percezioni, odori, sapori”» (Paolo Baldini). All’età di undici anni il trasferimento in Italia. «Il mio primo viaggio per Roma fu lunghissimo, alla fine degli anni Cinquanta. Ero bambino e presi l’aereo con i miei genitori: da Saigon (dove sono nato) per Marsiglia. Affittammo una macchina, che si guastò in Liguria: due giorni di sosta. E poi ancora chilometri per arrivare a Rocca di Mezzo, in Abruzzo, dove i miei avevano deciso di stabilirsi. Ma dopo due mesi ci trasferimmo a Roma: che impatto, per un bambino che era vissuto in Estremo Oriente!». «Venivo da un mondo in technicolor, e tutto mi sembrava grigio, spento. Un film in bianco e nero». «Ho vissuto qui tutta la mia adolescenza, dagli 11 anni in poi, appena arrivato dal Vietnam. Questa Roma così lontana da tutto, dal Paese d’Oriente dove ci si vestiva in modo diverso, dove non era mai freddo. A me sembrò una città nordica. Solo col tempo ho imparato a capire che in fondo il romano è ‘n pezzo de pane» (a Giuseppe Videtti). «Quando sono arrivato in Italia […] non conoscevo una parola di italiano, e a Roma mi hanno iscritto in una scuola francese, lo Chateaubriand, dove dominava lo “chateaubriandese”, un miscuglio di francese e italiano con un pizzico di romano» (ad Alessandro Ferrucci). «Studiavo con profitto al Lycée Chateaubriand. Mi esprimevo in francese. I miei compagni pensavano solo al pallone, e io ero negato. Mi chiusi in casa: grazie alla tv imparai la lingua e mi avvicinai alla musica italiana. C’era una trasmissione bellissima, Quattro passi tra le note: gli autori erano Scarnicci e Tarabusi, conducevano Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello. E poi i Sanremo d’antan: imperdibili, anche per un potenziale ribelle come me. Mi affascinava la melodia del Festival di Napoli. Iniziai a comporre, ma non pensavo di diventare un musicista». «Da bambino ama cantare, ma i primi passi nella musica li muove solo alla fine degli anni ’60, quando, appassionato di rhythm’n’blues, suona l’organo e occasionalmente canta in un locale per studenti stranieri di Roma, l’Approdo» (Francesco Casale). «Cantavo nelle cantine, la musica era tutto per me, ma pensavo di non essere all’altezza. Vedevo gli altri, alti, belli, carismatici. Io sono timido, piccolino, la platea m’incuteva terrore. Così accantonai l’idea. Per sbarcare il lunario facevo il segretario d’albergo. […] Poi ci fu un fatto scatenante che mi convinse a rassegnare le dimissioni. […] Fu una questione di capelli. Allora portarli lunghi era un simbolo, un segno d’appartenenza. Io cercavo di tenerli quanto più schiacciati possibile nelle ore di lavoro. Ma un bel giorno il capo ricevimento mi chiamò e mi disse: “Riccardo, devi scegliere: sei bravissimo, apprezziamo il tuo lavoro, ma non puoi restare da noi con quei capelli”. Decisi d’istinto. Pensai: “Mi prendo la liquidazione, e per un anno provo a fare il cantante. Se poi non ce la faccio, taglio i capelli e torno in albergo”». «Con un gruppo di studenti stranieri fondai The Nations: in due mesi divenni il leader. Facemmo un’audizione per la Rca. Dissero: il cantante va bene, la band no. Arrivò la prima incisione, ma non diventò mai un disco. Mi arrivò una lettera: spiacenti, Cocciante, lei non ci interessa più. Ricacciai in gola il magone e tirai dritto. Divenni amico di Marco Luberti e Amerigo Paolo Cassella. Iniziavo a esistere». «Nasce un gruppo, i GL6, con Paolo Cassella e Marco Luberti (che saranno i parolieri dei suoi primi dischi) e tre brani in inglese che entrano nella colonna sonora del film Roma bene di Carlo Lizzani; Down Memory Lane e Rhythm compaiono anche su un 45 giri a nome Richard Cocciante. Con il nome francese esce nel 1972 anche il primo album, composto a Parigi e registrato a Roma in quindici notti, Mu. È un’opera rock piuttosto farraginosa, pubblicata in Francia con il titolo di Atlantì, che dà a Cocciante una prima popolarità» (Casale). «Nei primi anni Settanta, ero innamorato di Otis Redding. […] Da Otis sono passato poi a Jimi Hendrix. In fondo anche il mio primo album – Mu, che è del 1972 – suona come un rock melodico tutto mio. Dopo, ho lasciato il rock per una forma più classica di canzone» (a Giacomo Pellicciotti) [Rep 27/3/1991]. «La personalità di Cocciante si delinea meglio nel 1973 con Poesia, che ottiene in Italia i primi riscontri di pubblico con il brano omonimo, cantato anche da Patty Pravo» (Casale). «La sua prima apparizione in pubblico come “cantautore”: inverno 1973, Roma, Teatro dei Satiri. Sul palco Carlo Massarini presenta tre giovani musicisti: Francesco De Gregori, Antonello Venditti e Riccardo Cocciante. Un battesimo. Nessuno era uguale all’altro, ma tutti e tre, nello stesso momento storico, rivendicavano una canzone fatta di ribellione, poesia, libertà. De Gregori bellissimo principe, già colto e distante; Venditti più sanguigno, infagottato nell’eskimo, con la sua anima popolare già in evidenza; Cocciante accuratamente nascosto da una massa di riccioli scuri, ma con una rabbia da scuotere i muri. “Avevo bisogno di esprimermi, avevo bisogno di cantare. Non ho mai parlato molto, neanche da bambino. La musica era l’unico modo che avevo per farmi capire”» (Putti). «“Antonello usciva dal locale per controllare quanta gente c’era, poi tornava da noi affranto: ‘Ma perché non viene nessuno?’. Non funzionavamo. Eppure Antonello aveva già Roma capoccia e Francesco una hit come Alice…”. E lei? “Solo Poesia, ma non era un grande successo. Solo dopo sarei uscito con Bella senz’anima e Quando finisce un amore. Nonostante questo, quel teatro è stato importante per la mia autostima, con il pubblico che scopriva un ufo. Quell’ufo ero io”. Loro due erano musicisti politicamente attivi. “Perfettamente inseriti nel sistema sociale, cantavano spesso ai Festival dell’Unità; io mi rifiutavo, per questo è stato più difficile. Poi tutto è cambiato con Bella senz’anima, un pezzo che mi ha inserito nello stesso filone di Venditti e De Gregori, nonostante non fosse un brano esplicitamente politico”. E invece? “Si è tramutato in un inno di protesta, specialmente in Spagna e Sudamerica ha provocato un movimento di rivolta, di consapevolezza e coraggio contro le dittature del tempo, tanto che in Argentina i colonnelli la proibirono. Eppure in origine non aveva alcuna velleità del genere”» (Ferrucci). «La vera affermazione arriva con Bella senz’anima, testata e lanciata in un tour con De Gregori e Venditti (Racconto), ai quali Cocciante viene da alcuni accostato in un’ipotetica “scuola romana” pur avendo caratteristiche assai diverse, a partire dalle tematiche principali, che riguardano i rapporti sentimentali, per giungere alla musica, una sorta di rock dalla matrice fortemente melodica (di gusto più francese che italiano) che contraddistinguerà tutta la sua carriera, insieme alla voce roca e possente. Bella senz’anima, inserita in Anima (così come Quando finisce un amore), colpisce proprio per la caratteristica vocalità irruente, ma anche per il crescendo finale con i famosi versi (“E adesso spogliati/ come sai fare tu”), che gli procurano polemiche con il femminismo dell’epoca e la censura televisiva. Diventerà un classico. […] Mentre arrivano consensi anche dalla Francia e dal Sudamerica, nel ’75 esce l’interlocutorio L’alba (con Era già tutto previsto) con i testi del solo Marco Luberti. Il 1976 è invece l’anno dell’esplosione con Margherita, altro evergreen, che trascina anche l’album Concerto per Margherita in cima alle classifiche» (Casale). «Margherita uscì nel momento di maggiore impegno: eppure s’impose. E pensare che ha rischiato di finire cestinata. La feci ascoltare a Vangelis, leader degli Aphrodite’s Child e futuro premio Oscar. Non era convinto. Neanch’io lo ero, fino in fondo. Raccontai tutto al direttore della Rca, Ennio Melis. Non ebbe dubbi. Mi consigliò di farne il brano guida dell’ellepì. Nacque Concerto per Margherita». «Mi sono trovato in un periodo in cui esisteva solo la canzone politica. A perseguire il filone apolitico eravamo solo io e Baglioni. La stampa accettava Margherita, ma mi riteneva un “cantante romantico”. Io odio la parola “romantico”, perché oggi il romanticismo non è più rosso come nell’Ottocento, ma rosa». «Torniamo agli anni Settanta a Roma. “Periodo veramente complicato: se non cantavi come volevano loro, alcuni soggetti diventavano aggressivi; un giorno entro al bar di piazza Euclide (quartiere Parioli), e un tizio mi aggredisce: ‘Tu canti per la destra!’. ‘Io? Non mi sembra’. Per fortuna poi arriva un poliziotto e lo allontana; pure durante i concerti non era semplice: venivi accusato di parteggiare per l’una o l’altra parte politica”. Sempre? “Ricordo una tournée con Rino Gaetano: trovavamo gli estremisti a insultarci”» (Ferrucci). «Chi lo amava, negli anni Settanta, era convinto che d’amore si può morire. Riccardo Cocciante, di quelle canzoni che spezzavano il cuore, era solo l’autore delle musiche (i testi erano di Luberti, poi di Mogol), ma cantava Quando finisce un amore e Bella senz’anima con una veemenza e una convinzione che il pubblico faceva fatica a distinguere il musicista dal paroliere» (Videtti). «Gli album […] Riccardo Cocciante del 1977 (con A mano a mano) e … e io canto (con Il treno) del 1979 confermano in buona parte le linee stilistiche e i riscontri commerciali. Una svolta avviene negli anni ’80 con l’avvicendamento fra Luberti e Mogol, che firma i testi di Cervo a primavera, sostituendo in qualche modo Cocciante a Battisti, con il quale ha interrotto la collaborazione. Il 45 giri omonimo segna un altro successo. Mogol apporta registri meno mesti e introversi nelle tematiche, che corrispondono a una vena musicale meno impetuosa, una sorta di serenità espressiva che trova la massima rappresentazione nel successivo Cocciante, long seller che contiene vari brani graditi al pubblico. Intanto c’è stato, nel 1981, un tour con Rino Gaetano e i New Perigeo, documentato nel mini Q Concert, e i successi in Francia degli album Au clair de tes silences (1980) e Vieille (1982), che non hanno però versioni italiane. Da noi andrà meno bene nel 1983 Sincerità, inciso in America con membri dei Toto e con le parole di Étienne Roda-Gil e dello stesso Cocciante. Nel 1985 Il mare dei papaveri (prodotto da Paul Buckmaster) tornerà in cima alle classifiche grazie anche a un duetto con Mina in Questione di feeling, che diventa un tormentone radiofonico. […] Dopo La grande avventura del 1987 (arrangiato da Geoff Westley con una certa dose di elettronica), che affianca a quelli di Mogol un testo di Lucio Dalla e due di Ruggeri, Cocciante si trasferisce in Florida e si prende una pausa discografica di alcuni anni, […] durante la quale inizia a lavorare a un’opera musicale che vedrà la luce solo molti anni più tardi» (Casale). «La routine mi stava schiacciando: un disco, poi un altro, poi un altro ancora, a un certo punto mi sono sentito arido. Sono fuggito a Miami per tre anni, mi sono invento un’altra carriera. […] Non sapevo bene cosa sarebbe stato, ma avevo già composto diverse arie per creare un’alternativa al Cocciante che ero e che di canzoni sarebbe morto. Mi sono detto: o prendo in mano il mio futuro o mi ci addormento sopra» (Videtti). «Il rientro, nel 1991, è al Festival di Sanremo, con la vittoria – peraltro annunciata – di Se stiamo insieme. Il brano sanremese apre la strada a Cocciante. […] Il disco segna un approccio più rock e il ritorno ai vertici delle classifiche» (Casale). A proposito di Sanremo: «Dopo averlo vinto, […] ho dichiarato subito, in sala stampa, che non l’avrei più fatto, urtando un po’ i giornalisti. Se faccio un’esperienza non amo ripeterla, per non entrare in un sistema. Il sistema mi corrode» (a Gaspare Baglio). «Andranno meno bene gli album successivi Eventi e mutamenti del 1993 (con testi perlopiù di Gaio Chiocchio, che firma un brano come La nostra lingua italiana, e di Marco Luberti) e Un uomo felice (in cui ogni brano ha un diverso paroliere e una diversa cantante che duetta con Cocciante, fra cui Mina in Amore), che mostrano una lenta trasformazione e saranno inframmezzati dalla raccolta con inediti Il mio nome è Riccardo (1994). In compenso è la Francia a tributare grandi consensi a Cocciante» (Casale). «Detestavo essere considerato una star. Tanto che a un certo punto ho avuto bisogno di tornare a vivere normalmente. Il divismo uccide. Io non sono caduto nella trappola. Me ne sono andato dall’Italia. Sono francese a metà – mia madre era francese –, e mia moglie è francese. Ho scelto Parigi. E lì, senza più problemi di popolarità; lì, quasi alla fine di una carriera – almeno così mi sentivo –, ho scoperto che potevo fare altro, e che questo “altro” mi piaceva moltissimo». «Io sono rinato quando, tornato a Parigi, ho cominciato a mettere in piedi Notre-Dame, che all’epoca sembrava assurda a tutti. Perché il musical, fuori da Broadway e dal West End londinese, non ha mai funzionato. Volevo tornare indietro, recuperare la nostra maniera di fare l’opera, ma in un contesto moderno, mescolando il nostro impeto melodico alle chitarre elettriche. Notre-Dame mi ha dato l’opportunità di continuare a essere musicista in modo più saggio». «Quando mi sono messo a scrivere Notre-Dame […] tutti mi dicevano che assomigliava troppo a me. Ma sono io, non posso mentire. Dentro c’era la mia storia, le cose con cui sono cresciuto, la classica e l’opera che ascoltavo in casa, il rock a cui mi sono avvicinato da adolescente, Otis Redding e la canzone pop. È vero, l’ho scritta a mia immagine. Era una cosa inaspettata all’epoca, e nessuno voleva ascoltarla o produrla. Una delle prerogative delle idee di successo è proprio fare qualcosa che stupisce, fuori dai canoni. Ha colpito tutti per le melodie e i testi, perché somigliava a un’opera rock ma non lo era, aveva elementi del musical, richiamava l’opera senza essere operistica. […] Notre-Dame ha tante arie con una loro forza. Molte sono nate prima, ma le avevo accantonate: quando è arrivato il momento, tutto è andato al posto giusto. C’è un po’ di fortuna, ma la gran parte è frutto del lavoro. Tutto quello che fai nella vita ti serve» (a Ernesto Assante). «Per carità, non chiamiamola commedia musicale. “Opera popolare” mi piace di più». «Gli inizi non furono facili. “Nessuno voleva sentirne parlare – ricorda Cocciante –. L’unico a concedermi del tempo fu Charles Talar: gliela suonai e cantai tutta. Uscì lasciandomi un assegno e dicendo che andava a prenotare il Palais de Congrès per 4 mesi. Un eroe”. In Italia fu David Zard l’eroe che credette nella “nostra follia” (e, oggi che lui non c’è più, a produrre c’è il figlio Clemente): poiché allora a Roma non c’era un palcoscenico abbastanza grande per ospitarla, fece edificare lui il Gran Teatro, dove avrebbe debuttato» (Adriana Marmiroli). Rappresentata per la prima volta nell’originale francese di Luc Plamondon il 16 settembre 1998 al Palais des Congrès di Parigi e nell’adattamento italiano di Pasquale Panella il 14 marzo 2002 al Gran Teatro di Roma, in oltre vent’anni Notre-Dame de Paris «ha conquistato milioni di spettatori e il successo nel mondo. Merito delle musiche di Cocciante, che animano l’immortale storia scritta da Victor Hugo. “Non scrivo mai pensando al successo”, ci dice Cocciante, “scrivo solo ciò che amo e che sento. Quando io e gli autori abbiamo scritto Notre-Dame non ci aspettavamo il grande successo che ha avuto, e neanche che restasse nel tempo. Certo, ho fatto di tutto perché accadesse…”. In che modo? “A partire dagli arrangiamenti, che sono senza tempo, mescolano passato e presente. È così anche per i testi: c’è il Medioevo, ma si trovano allusioni a tutto. Questa atemporalità è forse una delle prerogative dell’opera. Notre-Dame è nata per amore, per un bisogno di scrivere: questo fa sì che sembri scritta ieri. L’altro elemento è la linearità: tutti i cantanti che hanno partecipato, li ho sempre fatti cantare in maniera lineare, senza variazioni che possano fare parte del nostro momento. Le vieto: voglio che resti lineare nella sua esposizione, perché questo aiuta a lasciare tutto in un tempo immaginario”» (Assante). «Notre-Dame de Paris è un’immagine in movimento che vive nel tempo e diventa ogni volta qualcosa di diverso, grazie alla forza attrattiva di una scrittura che ti porta dentro alla storia» (a Guido Andruetto). «“Notre-Dame non è un’opera politica, ma raccoglie molti significati sociali. In vent’anni è rimasta com’era, con minimi ritocchi. L’alchimia delle componenti è un traguardo difficile da raggiungere. Come un castello di carte: se lo sfiori, crolla. E la magia si spegne. Plamondon e io siamo opposti che si completano. Il regista, Gilles Maheu, viene dall’underground. Ai ballerini abbiamo aggiunto breakers e acrobati. Tante specificità che, forse, spiegano il successo”. Proviamo a calcolarlo, questo successo. “Rappresentazioni in 23 Paesi e 8 lingue. Milioni di spettatori”» (Baldini). Nel 2002 debuttò la sua nuova opera popolare Le petit prince, ispirata all’omonimo libro di Antoine de Saint-Exupéry con testi di Elisabeth Anaïs, che però, «per motivi legati ai diritti d’autore appartenenti agli eredi di Saint-Exupery, non abbiamo potuto esportare in altri Paesi come è successo per Notre-Dame. E mi dispiace, perché le ragioni sono futili». Al 2007 risale invece il debutto, all’Arena di Verona, della sua versione di Giulietta e Romeo, con testi di Pasquale Panella, anch’essa poi rappresentata in tutto il mondo («Ci siamo concessi solo una piccolissima licenza: niente pugnale, facciamo morire Giulietta di crepacuore sul corpo dell’amato»). Nel frattempo, nel 2005, era uscito un nuovo album di inediti, Songs, «un disco mai tentato prima, se non altro perché è cantato in quattro diverse lingue. Da questo punto di vista Songs […] provoca uno strano effetto: inizia con l’omonima canzone Songs, al cui interno si alternano strofe in inglese, francese, spagnolo e italiano, e poi segue col francese di Loin dans mon vertige, con l’italiano di Sulle labbra e nel pensiero, firmata da Pasquale Panella, e così via, in un vortice di lingue che sembra evocare una nozione ancora poco conosciuta di europop. Il progetto è molto ambizioso. […] Delle recenti esperienze gli è rimasto un certo gusto da melodramma, che pervade queste melodie e le rende talvolta non semplici da digerire. Ma questa volta osa nei testi, più del solito (“Sembra che io canti sempre canzoni d’amore, ma in questo disco ce ne sono davvero poche”), e tenta perfino, con la complicità di Panella, un discorso sull’Italia (Tu Italia). Come uscire dalla possibile retorica? Con un acquerello che descrive il paragone con una donna. Gira gira, sempre di amore si tratta» (Gino Castaldo). Nel 2013 Cocciante partecipò in veste di insegnante al programma televisivo The Voice of Italy (Rai 2), portando alla vittoria la sua allieva Elhaida Dani, cui avrebbe in seguito affidato il ruolo di Esmeralda in Notre-Dame de Paris. Cocciante decise però di abbandonare il programma dopo la prima edizione: «La cosa interessante di The Voice è scegliere i ragazzi senza vederli. Non ci si dovrebbe far influenzare dall’aspetto. Quello che non mi è piaciuto, però, è stato trovarmi a dover escludere delle persone. Non l’ho rifatto anche perché questi interpreti, una volta finito il talent, vengono completamente abbandonati. E rimangono bruciati da quello che hanno fatto» (a Simona Voglino Levy). Nel maggio 2020 avrebbe dovuto debuttare a Pechino la sua nuova versione di Turandot, il cui esordio è stato però rinviato sine die a causa della pandemia. «Sarà una rilettura alla mia maniera della fiaba, che continua il mio discorso musicale. E non avrà niente a che fare con quella di Puccini. Sarà una fusione tra passato e presente, tra Oriente e Occidente. Con l’attenzione all’incrociarsi di culture diverse». «La pandemia ha bloccato i suoi progetti. Cosa bolle in pentola? “Tante cose, scrivo sempre: opere, canzoni… Alcuni progetti come la Turandot in Cina si sono fermati, altri vanno avanti. Devo registrare il nuovo disco, prima c’è il compleanno di Notre-Dame poi i miei cinquant’anni di carriera. Ci saranno molte occasioni per fare grande festa e grande musica”» (Assante) • «Ha detto che non farà mai più tournée, ma non ha detto basta ai singoli concerti. Perché? “Non voglio più entrare in meccanismi ripetitivi. Qualche anno fa ho fatto Cocciante canta Cocciante: lì ho voluto cantare quello che sono, mescolando le mie canzoni personali e quelle popolari. È stato un piacere. Tournée vuol dire ripetere per mesi la stessa cosa, e avendo molte cose da fare non voglio abbandonare i miei momenti di composizione. Quindi: pochi concerti, buoni e interessanti, e poi torno a essere me stesso”» (Voglino Levy) • Un figlio, David (nato a Miami nel 1990), da Catherine Boutet, sua moglie dal 1983. Vista da lui: «Ci siamo conosciuti nel 1971 a Roma prima che firmassi il contratto d’esordio. Cathy era dinamica, intraprendente. Davanti a sé aveva un musicista timido. La nostra vita cambiò. Il marchio Cocciante da allora è una mela spaccata a metà: io sono la parte artistica, Cathy presiede al versante organizzativo, voilà!». Vista da lei: «Ero già la sua manager, sono stata io a sedurlo. Riccardo era molto chiuso, allora mi sono detta: “Rischio: ne vale la pena”. È nato un sodalizio al di sopra di qualsiasi banalità». «Mio figlio David […] si occupa di arte grafica a New York. David è un ragazzo di buoni princìpi. […] Sono orgoglioso di lui. Ha scelto una strada diversa. Non è rimasto nel mio cono d’ombra. Ci vediamo spesso: d’obbligo, a Natale e per i compleanni» • Da una ventina d’anni vive con la moglie a Dublino. «Com’è arrivato a Dublino? “Per gli arrangiamenti di Notre-Dame de Paris: dopo aver ascoltato Riverdance ho capito che avevo bisogno di quei suoni, quasi medievali”» (Ferrucci). «All’epoca rimasi molto colpito da uno spettacolo, Riverdance, che propone balli tradizionali e fa un uso davvero straordinario delle percussioni. La musica è di Bill Whelan. Presi appuntamento: in quel periodo aveva una nomination ai Grammy. Mi fece capire l’anima irish. Dissi a mia moglie Catherine, il mio angelo custode: wow, ecco il posto giusto per noi!». «L’Irlanda mi piace moltissimo. È in realtà un Paese del Sud: il calore della gente, l’energia delle sue musiche popolari. C’è in Irlanda un rispetto per tutta la musica, dal rock al folk, senza snobismi. Da Dublino non vorrei mai spostarmi. […] Quando sono lì mi concentro bene, passo intere giornate a immaginare». «Ho scelto da molti anni di non vivere in un Paese dove sono conosciuto. La popolarità può alterare l’autenticità di un compositore: ci si abitua a essere riconosciuti e adulati, e ci si trasforma. Si comincia a vivere più per gli altri che per se stessi, più per farsi vedere che per restare nelle proprie problematiche, che poi sono fonte d’ispirazione per le nostre composizioni». «Ho la fortuna di avere veri amici che non mi conoscono come musicista famoso» (a Giusy La Piana) • «È mai più tornato in Vietnam? “No, mai. La prima ragione è che non potevamo, siamo stati cacciati dal Paese, c’era la guerra… La seconda è che non volevo distruggere i miei ricordi d’infanzia. Adesso però ci penso”» (Chiara Bruschi). «È figlio di madre francese e anche Oltralpe è molto conosciuto. Così, per gli italiani è italiano e per i francesi è francese. Come si sente? “Il più francese degli italiani e il più italiano dei francesi. I miei riferimenti artistici e culturali vengono da entrambi i Paesi: dalla Francia con Brel e Brassens, dall’Italia con Gino Paoli, Luigi Tenco e Sergio Endrigo”» (Voglino Levy). «La mia cultura è atipica: sono realmente metà francese e metà italiano, e con gli anni mi sono reso conto che non tutti i brani reggono entrambe le lingue. Alcuni funzionano, altri no, e ci sono dei successi in Francia sconosciuti in Italia e viceversa: Bella senz’anima non esiste in francese, così voi non conoscete Le coup de soleil (successo del 1980); oppure Il mio rifugio, hit in Francia, è desaparecida qui; il contrario con Cervo a primavera» • «Segue la musica internazionale? “Vedo un curioso disordine stilistico. Cose buone e meno buone. Un tempo c’erano le correnti musicali. Come delfini, nuotavamo tutti nella stessa direzione. […] Oggi il movimento più interessante e coraggioso è il rap, come ha dimostrato anche la vittoria di Mahmood a Sanremo. Il ritmo non è forse la prima forma di musica? Con il rap si torna all’essenziale, al tribale. Un veicolo ideale per esprimere protesta e disagio”» (Baldini). «Mi piace il rock progressivo, la musica elettronica, quella dodecafonica, mi interessa capire perché si è arrivati a un Berio che sconvolge le forme musicali. Ovvio che tutto questo riemerga nel mio mondo musicale» • «Sono diventato cantante in quanto era il mio destino, questo era previsto; eppure non ho mai studiato musica, non ho mai scritto niente. […] Non ho mai studiato il pianoforte: lo suono con dei codici personali, l’armonia me la sono inventata, e il canto è da impressionista. Non sono un vocalist che rispecchia il concetto assoluto di bellezza: con me conta cosa c’è dietro. Mi potrei paragonare a un pittore naïf, e non amo la perfezione: preferisco l’imperfezione che diventa espressione». «Mai presa una lezione di pianoforte. Ho seguito le mie sensazioni armoniche. Ho creato le mie leggi, ho tracciato percorsi che poi ho confrontato e adeguato. Ennio Morricone si è sempre detto ammirato: Cocciante è come un gatto che precipita dal quinto piano e cade sempre sulle zampe davanti» • «Non ho mai chiesto di diventare un cantante e di salire su un palco: non ero in grado, troppo timido, chiuso, anche complessato. Sono stati gli altri a coinvolgermi, dopo avermi ascoltato e visto: sono gli altri ad avermi portato ai provini, e mi hanno salvato la vita. Sì, la musica mi ha salvato». «Quasimodo c’est moi. La musica è il senso della mia esistenza, è l’aria che respiro. La mia salvezza. Sul palco posso diventare un perfetto showman. Ho fiducia in me stesso. So che posso osare. Fuori scena resto una persona timida, riservata» • «Cominciare è facile; difficile è continuare, soprattutto restando per anni allo stesso livello. Puoi avere un colpo di fortuna al momento giusto, puoi avere la faccia giusta. Hai il look, ma le mode passano. E ti dici: che faccio adesso? Io ho avuto la fortuna di non avere un look, né la faccia giusta. Aznavour aveva forse la faccia giusta? E la Piaf? Ce l’aveva, la Piaf? La mia ambizione non è mai stata quella di apparire in pubblico. Però volevo esprimermi». «Non ho mai programmato nulla. All’inizio ero un po’ un ribelle nella maniera di presentarmi, di cantare, di fare interviste. Oggi sono cambiato in quello, ma non ho mai amato essere inserito in un filone. Mi sono volutamente tenuto un po’ a parte rispetto agli altri». «Come viveva e vive le critiche? “Sono sempre stato un po’ snobbato, preferivano cantanti più ‘in’, più ancorati al momento sociale e politico; non sono mai stato inserito sotto la categoria ‘artista di concetto’, e sul momento ne soffrivo, poi con il tempo ho capito che non venir catalogato è il mio grande pregio”» (Ferrucci). «Sono passato attraverso varie epoche con discrezione. La critica era troppo intenta ad applaudire i cantautori apparentemente profondi» • «Non amo il termine “pop”. Non faccio musica pop: la mia è musica popolare, che appartiene alla maniera della musica di oggi, ma non pop». «Essere popolare vuol dire giungere al popolo, ma se ti riesce la critica storce il naso e osanna l’intellettuale di nicchia» • «Come cantante, pur non potendo fare affidamento su rilevanti doti vocali, sa essere ugualmente convincente con sensibili interpretazioni di grande partecipazione e intensità emotiva. Il successo ottenuto […] paradossalmente gli attira le critiche di chi gli rimprovera un’eccessiva facilità melodica e un totale ripiegamento sulla sfera privata in anni di diffuso impegno politico» (Augusto Pasquali). «Sincerità e passione […] a Cocciante non mancano di certo: proverbialmente le sue canzoni sembrano arrivare da una zona che confina con lo stomaco, sempre rabbiose e spinte ai limiti del grido» (Castaldo) • «In partenza una canzone è un fatto egoistico, un conto da regolare con se stessi. Poi si arriva a condividerla. I miei brani sono controcorrente, più allegorici che autobiografici». «Non ci sono riferimenti reali nelle mie canzoni, sono sempre allegoriche. Solo una canzone è stata scritta per una persona, Vivi la tua vita, composta per mio figlio appena nato». «A quale canzone è più affezionato? “Ho sempre amato moltissimo Quando finisce un amore, sono affezionato a questo brano più di tutti gli altri. Lo trovo sincero, diverso come tipologia, costruzione e fraseggio. Sento moltissimo anche l’argomento: la disperazione di un distacco”. […] Ci sarà qualche brano che, nella sua carriera, l’ha convinta meno rispetto agli altri… “Nonostante non entri facilmente nel sistema, l’unico errore è stato Io canto. Lì ho seguito la tendenza, che era della disco music, e forse non lo rifarei. Anche se la canzone era valida, bella, ma con l’errore di voler entrare in un sistema”» (Baglio). «C’è la canzone di un collega che avrebbe voluto scrivere lei? “Ce ne sono tante. Le dico la prima che mi viene in mente? Il cielo in una stanza. Ma vivo con serenità il successo degli altri, quando le canzoni sono belle. Quando non lo sono, meno”» (Voglino Levy) • «Ritengo che la nostra non sia una carriera, ma una vocazione. Non ci si inventa il fatto di essere dei cantanti. Non ci si può illudere che, chissà, forse, un giorno, si potrà tutt’a un tratto diventare tali. Lo si è o non lo si è, e basta. E si soffre e si gode di conseguenza. […] Metti la tua vita tutta a disposizione. Ti concentri esclusivamente sul messaggio che vuoi esternare. È questo che consiglio sempre ai ragazzi più giovani: “Non pensate al commercio. Ai soldi. Alla fama”. Queste devono essere le ultime motivazioni del mondo» (a Maurizio Di Fazio). «La vita di un artista è zeppa di arrivi e partenze. L’importante è che le partenze siano sempre più frequenti, perché il punto d’arrivo può trasformarsi in un vicolo cieco. Nel momento stesso in cui uno si sente arrivato, ha già inserito la marcia indietro». «“Ho bisogno di voltare pagina, ogni tanto. Mi fanno star male i colleghi, anche bravi, che a una certa età cominciano a copiare se stessi. Mio Dio, no, mi ripeto spesso: spero che questo non mi capiti mai! L’artista deve aggredire, deve tentare soluzioni impossibili”. […] Se si pensa in un futuro prossimo, come si vede? “In cammino, con la testa piena di musica”» (Baldini).