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 2021  gennaio 29 Venerdì calendario

Biografia di Uto Ughi


Uto Ughi, nato a Busto Arsizio (Varese) il 21 gennaio 1944 (77 anni). Violinista. «Il piacere di un bel suono, di una nota, di una scala fatta bene è fisico, sensuale». «Il silenzio forse è il momento più suggestivo e più musicale» • «La mia famiglia è di origine istriana. […] Alla fine della Seconda guerra mondiale, quando l’Istria venne occupata dalle forze militari del maresciallo Tito, […] gli italiani dell’Istria dovettero fuggire per sottrarsi a un destino di morte nelle foibe, mentre il mondo politico taceva. Anche la mia famiglia - che risiedeva a Pirano d’Istria, in una bella casa di proprietà dei miei nonni, nella piazza dove c’era la statua di Giuseppe Tartini - dovette fuggire dal luogo di origine. Abbandonò e perse tutto: gli averi, le proprietà, la casa, gli affetti… E si rifugiò a Trieste, dove mia nonna aveva una casa. Mio nonno, Celso Ughi, medico chirurgo, aveva studiato a Vienna. Sebbene si fosse formato in ambienti sociali e culturali asburgici, sentiva di appartenere profondamente al mondo latino. Era un appassionato cultore della civiltà romana: amava la classicità, il mondo antico. E all’epoca era un irredentista fervente, desiderava l’Istria italiana. Quanto a mia nonna, Pia Rupnik, di origini sloveno-austriache, era legata alle tradizioni culturali asburgiche. Era una donna raffinata e colta: suonava molto bene il pianoforte e volle che i suoi figli s’impegnassero anche negli studi musicali. Nella migliore tradizione della buona società mitteleuropea, assegnò uno strumento a ciascuno: a chi il pianoforte, a chi il violino, a chi la viola, a chi il violoncello… In casa si suonava insieme: le serate erano occasioni d’incontro tra persone di varia estrazione, tutte animate dalla passione per la musica» • «Dopo la guerra mio padre Bruno, che faceva l’avvocato, si trasferì a Busto Arsizio, dove esercitava la professione. Spesso si recava a Milano, sede di un suo altro studio. […] Mio padre sposò una donna molto più giovane di lui, Maria, che in casa veniva chiamata affettuosamente Mimma, […] molto bella, di grande sensibilità e nobiltà d’animo, volutamente sottomessa a lui. […] Apparteneva a una famiglia di umili origini: suo padre, a poco più di dieci anni, era emigrato in Francia per cercare lavoro, ed era rimasto in quel Paese per molti anni. Erano tempi durissimi, di grande miseria: al suo ritorno in Italia era ormai un uomo. E suo padre, che lo aspettava, non lo riconobbe, tanto era cambiato» • «Sono nato il 21 gennaio 1944 a Busto Arsizio, primo di quattro figli: Paolo, Maria Giovanna e Marco. Il mio nome è Uto. Mio padre volle chiamarmi così per ricordare suo fratello, Bruto, morto in Africa, combattendo nella battaglia di El Alamein, nel 1942» • «Mia madre era un’appassionata di canto, lo aveva anche studiato. Ricordo che aveva una voce piccola, ma molto dolce, melodiosa, musicale. La ascoltavo mentre cantava le arie di Vincenzo Bellini, di Gaetano Donizetti, e così mi appassionai alla lirica. Le prime opere che ascoltai da bambino furono quelle di Giuseppe Verdi, che amai e amerò per tutta la vita. […] In gioventù mio padre aveva studiato anche il violino. Suonava da buon dilettante, e aveva il gusto per il bel suono» • «Mio padre […] era amico del maestro Coggi [Ariodante Coggi (1875-1958) – ndr], il primo violino della Scala sotto Toscanini. Venivano in tanti a casa nostra un paio di volte alla settimana, secondo l’uso austriaco della Hausmusik. E sentivo suonare, cantare» (a Silvana Mazzocchi) • «Io avevo tre anni: quando a sera arrivavano gli ospiti con i loro strumenti, m’infilavo sotto il pianoforte. Non c’era verso di togliermi da quella specie di tana per mandarmi a dormire: volevo sentire a tutti i costi le musiche che eseguivano. E, quando mi accorgevo che qualcuno stonava o sbagliava le note, protestavo a modo mio, fischiando sonoramente. Avevo una gran voglia di suonare, di partecipare anch’io ai concerti. Avevo trovato due piccoli pezzi di legno, uno un po’ piatto che mettevo tra il mento e la spalla, e un altro con cui… suonavo! Giravo per casa felice: avevo il mio violino» • Ben presto, comunque, «Coggi diede a Ughi il suo primo, piccolissimo e vero violino, ma per timore che lo strumento gli cadesse preferì legarglielo al collo con un cordino. Iniziò tutto così» (Susanna Franchi) • «Con la nonna, Pia Rupnik, bravissima pianista, ho fatto il primo duo e ho dato il mio primo concerto pubblico: una Sonata di Mozart. Avevo cinque anni». Un paio d’anni dopo, il debutto al Teatro Lirico di Milano: «A soli 7 anni affrontava il pubblico eseguendo la Ciaccona di Bach e alcuni Capricci di Paganini, cioè a dire già le pagine più difficili e immaginifiche che siano state scritte per arco» (Nicoletta Sguben) • «Io ho avuto la fortuna di studiare anche all’Accademia Chigiana di Siena, con il mio maestro George Enescu. Con lui c’erano Pablo Casals e Andrés Segovia: era come l’Atene di Pericle» (a Sandro Cappelletto) • A dieci anni il trasferimento a Parigi al seguito di Enescu, «uno dei più grandi compositori dell’epoca, […] un romeno, violinista, pianista, direttore d’orchestra che in Francia aveva cambiato il nome in Enesco. Un personaggio straordinario, un musicista globale, come allora ce ne erano tanti in Europa, con un’immensa immaginazione. Peccato che fossi così giovane e immaturo da non poterlo apprezzare fino in fondo. Ma conservo emozioni profonde, sensazioni e istinti che non ho mai perduto. Quando lui morì avevo dodici anni. Allora sono andato a studiare Ginevra, poi a Vienna» • «Di lui, appena dodicenne, scrivono: “Deve considerarsi un concertista artisticamente e tecnicamente maturo”. Da allora la sua carriera sarà sempre in ascesa. Le corde del violino vibrano in tutto il mondo, e Uto Ughi acquista una fama internazionale» (Gabriella De Matteis) • «Una carriera di successi conseguiti da subito, nonostante qualche mossa sbagliata, come quando rinuncia a seguire David Ojstrach in Russia per prepararsi al più prestigioso e difficile premio violinistico, il Čajkovskij: “Quello è un super-rimpianto, mi è rimasta la sensazione di aver perso un treno. Un’esperienza con un grande come lui sarebbe stata molto importante; avevo sedici anni, non ebbi il coraggio di partire per la Russia. Ed è strano, perché di natura sono avventuroso, mi piacciono le esplorazioni, ma in quel caso mi mancò lo slancio”. Il talento di Ughi è però sufficiente perché il suo violino lo porti a risultati straordinari, anche non previsti: “Ho iniziato a fare musica molto presto ed era il mio maestro che mi spingeva a fare qualche concerto per prendere familiarità col pubblico. Le cose sono venute da sole, non ho mai deciso di fare il concertista. Mi sono accorto che avevo delle possibilità dagli inviti che ricevevo, dalle personalità che mi avvicinavano. E poi perché avevo la gioia di suonare: senza di quella non si va avanti”» (Federico Capitoni) • «Una carriera che lo ha portato in tutto il mondo a lavorare con musicisti come Celibidache, Sawallisch, Mehta, Maazel» (Franchi). All’impegno artistico ai più alti livelli internazionali Ughi ha da molti anni affiancato una serie di importanti iniziative culturali. «In certi periodi della mia carriera mi sono dedicato a progetti organizzativi, come “Omaggio a Venezia” e relativo premio “Una vita per la musica”. Cambiando residenza è arrivato “Omaggio a Roma”. Col primo si valorizzava una città unica al mondo, il secondo mira a preservare un patrimonio altrettanto unico» (a Claudio Gherbitz). «Tali ideali sono stati ripresi nel 2003 e a tutt’oggi portati avanti dal festival “Uto Ughi per Roma”, di cui il violinista, insignito del titolo di Cavaliere di Gran croce per meriti artistici (per nominare solo una delle tante onorificenze che gli sono state tributate in carriera), è ideatore, fondatore e direttore artistico» (Sarah Zambon) • «“Io non ho mai pensato alla carriera: è una cosa che viene o non viene. Allo stesso modo spero di accorgermi in tempo se non sarà più il caso di continuare. Se non sarò più in grado di fare delle esecuzioni decorose, sarò il primo a dirmi di smettere, per dedicarmi magari all’insegnamento. È difficile come artista valutarsi per ciò che si è, ma bisogna avere la forza e il coraggio di guardarsi allo specchio. La musica è una sfida infinita, è una battaglia continua ingaggiata con la materia, e la materia è la tecnica: ciò che sembra perfetto oggi domani non lo è più. C’è sempre qualcuno che, proprio quando pensi di aver raggiunto il massimo in un’interpretazione, fa meglio di te”. […] Intanto a un libro ha affidato alcuni dei più rilevanti ricordi della sua vita anche di musicista: le vicende raccontate in Quel diavolo di un trillo, pubblicato da Einaudi, vanno dall’infanzia a Busto Arsizio alla carriera internazionale in tutto il pianeta. “Accettando di scrivere ho tenuto a mente Cicerone quando scrive che un uomo che raggiungesse il cielo e le stelle sarebbe triste di non poter comunicare quello spettacolo. Ecco, l’arte, a un livello spirituale, come pura astrazione, non serve. Deve incontrare la materialità terrena ed essere comunicata agli uomini”» (Capitoni) • «Ughi ha conosciuto le maggiori personalità musicali della seconda metà del secolo scorso. […] “Qualsiasi incontro con un grande artista o con la sua musica è una trasfusione di sangue nuovo, sono arricchimenti di cui non si può fare a meno”» (Capitoni). «Il partner al pianoforte è determinante per un violinista. Talvolta ne ho avuti di occasionali: Sawallisch, Argerich, Magaloff, Buchbinder. […] Fra gli stabili ricordo con immutato affetto e nostalgia un pianista che ho avuto al mio fianco per decenni, Eugenio Bagnoli, veneziano doc» • «Gli incontri sono fondamentali per la vita di chiunque: ci vuole la mente aperta, lo spirito pronto a captare le sollecitazioni. Sennò si rischia di perdere occasioni importanti. A me è successo tante volte. Rostropovič mi voleva per un disco, ma ci fu un malinteso e non si fece più. Comencini mi chiese di interpretare il violinista di La sonata a Kreutzer di Tolstoj, ma ero paralizzato dalla timidezza. Così come mi è mancato il coraggio di partire per la Russia, a 16 anni, a studiare con Ojstrach» (a Elena Masuelli) • «Non è affatto vero che l’arte non si impara. Naturalmente il genio ha qualcosa di innato, ma il talento va coltivato attraverso la disciplina, l’informazione e i grandi maestri. Io ho avuto la fortuna di stare a contatto con luminari che mi hanno aperto il cuore e l’anima all’interpretazione. Ma imparo tuttora ascoltando i dischi. Sono vere trasfusioni di sangue per me». «Quali violinisti hanno contato di più per lei? “Ci sono dei grandi che continuo ad ascoltare e riascoltare in disco. Ojstrach, Stern, Grumiaux, Menuhin non deludono mai. Ognuno era un mondo. Quando ne sentivi uno, dicevi: è lui il più grande. Poi ne arrivava un altro, e cambiavi idea. Erano figure anche personalmente straordinarie. Ricordo che una volta ero a colazione con Rostropovič a Roma. Aveva un concerto a Santa Cecilia alle 16 e uscì dal ristorante dopo essersi scolato una bottiglia intera di vodka. E io: chissà come farà. Bene: non ho mai sentito le Variazioni su un tema rococò di Čajkovskij suonate così bene”» (Alberto Mattioli) • «Ho una cultura mitteleuropea e la musica che suono è mitteleuropea. […] Per me è stata determinante la cultura austriaca, e questo è scontato per un musicista. La grande musica strumentale si è sviluppata nei Paesi tedeschi, da Bach a Beethoven, a Mozart, a Schumann. […] Per me la grandissima musica sta a cavallo tra Settecento, Ottocento e Novecento. In seguito c’è stata quella frattura tra musica dodecafonica e musica tonale che pure ha prodotto grandissimi autori come Stravinskij, Bartók, Šostakovič, Schönberg, Alban Berg, la Scuola viennese del Novecento» • «Il violino è uno strumento prevalentemente lirico, melodico; la musica di oggi non sempre lo è. Per quanto mi riguarda il grande repertorio violinistico si esaurisce nella prima metà del Novecento. Però ci sono compositori […] come Penderecki, Gubajdulina, Pärt, Dutilleux che sono riusciti a continuare la tradizione in un campo nuovo di ricerca» • «Volgendo lo sguardo all’indietro mi accorgo di essere stato molto esigente. Per decenni ho inseguito un unico sogno, quello di poter disporre di due strumenti che mi potessero appagare. Ce l’ho fatta: oggi posso scegliere fra due preziosi, uno Stradivari e un Guarneri del Gesù». «Ho un violino Guarneri del 1744 e uno Stradivari del 1701, il Kreutzer, dal nome del musicista a cui Beethoven aveva dedicato la celebre Sonata. Sono diversi tra loro: il primo possiede un tono caldo, dal timbro scuro, sensuale, più vicino al romanticismo… è come una pittura fiamminga; il secondo invece ha una voce apollinnea, evoca un quadro rinascimentale italiano, o addirittura il Beato Angelico». «Oltre al violino, quale strumento suona o le piacerebbe suonare? “Beh, ho studiato dieci anni anche pianoforte al Conservatorio di Milano! Il piano racchiude in sé tutta l’armonia dell’orchestra, completa ed è completo, mentre il violino è più limitato, ma di contro anche molto più sensibile”» (Zambon) • Un matrimonio alle spalle, contratto quando era giovanissimo e durato solo due anni: «Mia moglie desiderava stabilità, equilibrio. Voleva, come è giusto, una famiglia tradizionale. Ma io ero troppo fanatico del mio violino… Oggi, comunque, siamo rimasti grandi amici» (ad Angelica Amodei). Da qualche anno è legato a Natascia Chiarlo, «soprano, pianista, nata a Savigliano in una famiglia di musicisti: il padre Sergio ha fondato e dirige il Coro Milanollo, il fratello Ivan, pianista, insegna e progetta eventi musicali. Discrezione, rispetto assoluto dei reciproci impegni e una grande passione per la musica sono i pilastri dell’intesa della coppia. Un legame che ha mosso i primi passi con la collaborazione artistica che il Maestro ha offerto a Natascia e a Ivan per il festival “La santità sconosciuta”. Racconta Natascia: “Guardando indietro mi sembra di vivere un sogno. Quand’ero bambina, mio padre, musicista e grande appassionato di classica e di violino, mi portava ad ascoltare i concerti di Uto Ughi. Ne ero affascinata”. Dopo essere stata una fan, l’incontro, questa volta professionale. “Era il 2006. L’anno prima era nato il progetto della Santità sconosciuta, con l’idea di portare grandi esecutori nella provincia cuneese, scegliendo spazi, come l’Abbazia di Staffarda, simbolo della spiritualità del Piemonte. Un altro elemento forte era promuovere i giovani talenti, organizzando masterclass gratuite con maestri. È stato mio fratello ad avere l’idea di invitare Uto Ughi a suonare nell’Abbazia di Staffarda: incredibilmente accettò”. Il maestro […] chiese a Natascia di diventare la sua assistente artistica. Negli anni l’intesa professionale si è trasformata in una condivisione personale e intima, fatta di concerti, viaggi e vacanze, dalle piste da sci alla Laguna di Venezia. Il segreto? “Ci siamo incontrati da adulti, ognuno con le proprie abitudini, impegni, manie. Per andare d’accordo bisogna condividere le passioni. La musica è un collante straordinario che ci fa camminare insieme, ovunque siamo”» (Vanna Pescatori). Ughi: «Non avrei mai pensato che andando a suonare in una località sperduta del Piemonte avrei trovato tanto. Scherzi del destino e dell’arte» • «Uto Ughi […] vive tra Roma e Venezia, va in vacanza all’Isola del Giglio e, per nove mesi l’anno, viaggia. Tiene concerti nelle capitali, ma appena può allunga i suoi soggiorni, abbandona gli alberghi a cinque stelle e raggiunge i luoghi più remoti, fra i templi della Birmania o negli sperduti villaggi della foresta amazzonica; ascolta le musiche etniche in Africa e in Sud America, scala le cime dell’Himalaya. È un personaggio senza luogo, che vive in tanti luoghi, Anche se ama Roma più di ogni altra città al mondo; anche se, dice, si sente profondamente italiano. […] “Io, se non fossi un musicista, vorrei fare l’antropologo. Cerco sempre di capire le ragioni per cui gli esseri umani vivono in modi diversi. E, per farlo, viaggio. In genere lascio il violino che ho portato per il concerto in albergo, al sicuro in cassaforte, e parto con un altro strumento più moderno, meno prezioso. Mi serve per studiare. Una giornata senza musica è una giornata stupida”» (Mazzocchi). «L’approccio con diverse culture rappresenta per me una boccata d’ossigeno, una trasfusione di sangue. La penso come Tiziano Terzani, che ha saputo cogliere l’essenza dei Paesi che ha visitato. Ho lasciato un registratore agli aborigeni dell’Amazzonia per ascoltare Mozart. Suonato con l’imperatrice del Giappone che mi accompagnava al pianoforte. Tenuto un concerto per i nativi sudafricani, che applaudivano in continuazione, fischiando per esprimere approvazione. La musica supera le barriere ideologiche, le incomprensioni del linguaggio» • «Quando non suono, leggo. E sottolineo le cose che mi somigliano di più. […] La lettura ha per me un posto primario». «Da ragazzino avevo insegnanti privati e nessun amico della mia età. I romanzi di Salgari mi hanno tenuto compagnia. Poi c’è stato Dostoevskij, Zweig, Buzzati… […] Sono un avido lettore, anche di giornali. In compenso guardo poca tv, so a malapena mandare un sms, internet la lascio agli altri. Saranno […] anni che non vado al cinema: sono antico, il mio preferito resta Ingmar Bergman: Il posto delle fragole, La fontana della vergine, Il settimo sigillo. Oggi mi piacciono i fratelli Taviani» • «Le platee lo amano perché Ughi non si risparmia mai, ci mette sempre passione: quella stessa passione che usa talvolta nelle polemiche ingaggiate sui giornali contro la falsa cultura, contro il degrado delle nostre istituzioni artistiche» (Roberto Iovino). «Don Chisciotte puro e passionale che da quarant’anni si batte contro i mulini a vento dello spregio in cui è tenuta la grande musica nel sistema educativo e nei media in Italia» (Nicola Gallino). «L’Italia è uno dei Paesi più ricchi, in quanto a creatività artistica. Siamo al centro del patrimonio artistico del mondo, eppure non abbiamo cultura musicale. Ad ascoltare concerti vanno sempre di più gli anziani, mentre i giovani si interessano soltanto a una certa musica. E non abbiamo sale adeguate. Sì, certo, a Roma finalmente c’è l’Auditorium, ma in genere siamo relegati nei cinematografi. E, anche quando vengono restaurati i teatri, non si cura abbastanza l’acustica. Siamo ancora molto indietro». «Il problema dell’intrattenimento culturale è il grande assente dalla strategia politica italiana. […] La maggioranza dei sovrintendenti dei teatri non sono artisti, né sensibili alla musica. Sono dei burocrati, dei manager legati alla politica e terrorizzati dalle sue reazioni. Si raccoglie quello che si semina: noi siamo il Paese che ha invitato a suonare al Senato della Repubblica Giovanni Allevi. Ormai in Italia non esiste più un’opinione pubblica a favore della musica: tutto è iniziato con lo smantellamento di tre orchestre Rai, venti anni fa, che abbiamo subìto senza reagire in maniera adeguata» • «Anche l’Italia è piena di talenti promettenti, ma devono inevitabilmente cercare sbocchi all’estero, perché qui ci sono pochi soldi e destinati sempre agli stessi. E soprattutto siamo esterofili. I francesi sono sciovinisti, ma sostengono un’identità culturale nazionale. Noi invece sembra che ci vergogniamo di essere italiani. Vedo cartelloni di importanti teatri e mi sembra di essere in Finlandia, in Slovacchia o in Ungheria…» • «Se non avesse fatto il violinista? “Avrei fatto qualcosa di creativo, comunque. Avrei scritto libri: mi interessano l’antropologia e la storia. O magari mi sarei dedicato alla prosa e avrei fatto l’attore”» (Iovino) • «“L’arte è l’imitazione della natura, che la trasfigura e la rende ancora più bella. Per me l’arte è la natura sublimata. La natura comunica libertà”. Suonare la fa sentire libero? “Sì, l’emozione è libertà. Suonare la grande musica, i grandi classici e i grandi moderni mi dà questa sensazione, ma non è detto che io abbia sempre lo stato d’animo giusto al momento giusto. È necessaria anche la tecnica e c’è bisogno di studio e di disciplina, che è lavoro, rinuncia e sacrificio. Comunicare davvero emozione è però un’altra cosa. E io ci riesco soltanto quando, interpretando un grande musicista, riesco prima a emozionare me stesso”» (Mazzocchi). «Non esistono pubblici cattivi e pubblici buoni. Esistono interpreti comunicativi e interpreti freddi. Quando la platea si distrae, la colpa sta nel concertista che non sa comunicare e non sa conquistarla. Io ho un rapporto molto bello con gli ascoltatori, perché sanno che quando sono sul palcoscenico cerco di dare il massimo» • «Ha dei rimpianti artistici? “Tutto sommato, no”. E personali? “Sì: non aver potuto vivere una vita più piena. Sono sempre stato lo schiavo del mio strumento. Chi studia il violino deve saperlo: non avrà più tempo per altro. Come diceva Paganini: se non suono per un giorno, me ne accorgo io. Se non suono per due, se ne accorge il pubblico”» (Mattioli). «Non sono mai sceso a compromessi con la musica e ho provato, nel bene e nel male, a suonarla sempre con onestà. Il compromesso è nemico della vera arte» (a Rita Vecchio). «Quello che muove l’artista è l’amore. Tutti i grandi artisti che ho conosciuto erano grandi per questo. La mia passione per la musica è la stessa di quando ero ragazzo: spero non si esaurisca mai».