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 2021  gennaio 29 Venerdì calendario

Biografia di Pablo Echaurren


Pablo Echaurren (Pablo Miguel Papageno Matta Echaurren), nato a Roma il 22 gennaio 1951 (70 anni). Artista. Fumettista. Saggista. Scrittore. «Considerato dal­la critica interna­zionale uno dei pochi artisti in grado di espri­mersi a pari livel­lo in numerosi campi creativi, dalla pittura alla scultura, dalla grafica al fumetto, dal cinema alla letteratura» (Lauretta Colonnelli). «Non mi annoio mai, perché quando arriva la noia mi sposto altrove» • Figlio del celebre pittore cileno Roberto Matta (Roberto Sebastián Antonio Matta Echaurren) e della terza delle sue cinque mogli, l’attrice siciliana Angela Faranda (Angiola Maria Faranda). «Pablo come Neruda per volere del papà, […] e Papageno come il protagonista del Flauto magico di Mozart per desiderio della mamma» (Carlo Vulpio). «Mio padre […] se n’è andato nel ‘54 e mia madre si è sbrigata un figlio in solitudine: allora non era usuale. […] Lui giocando con Duchamp diceva che era un padre trasparente, si nobilitava un po’. Diciamo che era abbastanza assente: da bambino lo vedevo le poche volte che passava per Roma. Alloggiava al Plaza o all’Hassler, pranzavamo in un ristorante pomposo, tipo Ranieri, faceva il suo riposino pomeridiano, poi andavamo al cinema o a una mostra e tornavo a casa. Da lui ho avuto un po’ di dirozzamento, però non mi ha mai parlato molto d’arte o del suo lavoro» • «Matta lasciò la famiglia quando il figlio era ancora piccolo e Pablo crebbe introverso, ansioso e ribelle. Da bambino restava chiuso nella sua camera, circondato da libri e figurine di dinosauri. “Volevo fare lo zoologo, l’entomologo, il paleontologo. Avrei voluto specializzarmi nei coleotteri. Leggevo Jean-Henri Fabre piuttosto che Salgari”. Nasce da lì la mania di catalogare, espressa nei primi disegni inscritti in una serie di quadratini, e l’immaginario di mostri che oggi riempiono i suoi grandi quadri. Poi arrivarono i Beatles. “Una rivoluzione per la musica e per l’immagine che un maschietto aveva di sé: quella di un uomo non più macho, ma con movenze gentili, l’inchino, le scarpe coi tacchi”. A sedici anni frequentava il Piper. “Mi facevano entrare gratis perché avevo un aspetto un po’ esagerato: capelli lunghi e stivaletti a tacchi alti, che a Roma era difficile trovare. Me li facevo fare da un calzolaio compiacente, che però mi guardava con aria compassionevole pensando che fossi gay”. Abbandona i coleotteri e decide che da grande farà il bassista. “All’epoca in Italia il rock era considerato roba sospetta, ammantata dal più fitto mistero, come ogni divinità che si rispetti. I dischi più tosti venivano introdotti nel nostro Paese da indomiti borsari neri che facevano la spola con i Paesi sopra-sviluppati. E sulle copertine noi ricamavamo. Quando mi capitava tra le mani una foto degli Stones, non mi soffermavo tanto su Mick, Keith, Brian o Charlie, ma mi incantavo su Bill il bassista, il meno bersagliato dalle attenzioni delle fan. Il più sfigato, ma non per me, che lo vedevo come il più forte dei cavalieri, di quelli che senza troppe manfrine reggono i destini della propria gente. Impassibile, imperscrutabile, emaciato, concentrato sul giro di basso e distaccato dalla baraonda che circondava la band, mi riconciliava con la mia umbratile condizione di isolato”. Pablo acquista il suo primo basso, un Framus usato, lo stesso tipo usato da Bill, e comincia a suonare in un complessino. “Ma ero una schiappa. Sperando che dipendesse dallo strumento e non dalla mancanza di talento musicale, svendo la mia robusta collezione di francobolli dello Stato Pontificio e compro un signor Precision. Credevo che un Fender avrebbe fatto di me uno scafato musicista. Restavo una sega totale. Così appesi il basso al chiodo, e amen”. A diciott’anni, ancora sui banchi del liceo, incontra Gianfranco Baruchello, che lo inizia alla pittura. Il basso lo dimentica a casa della madre, che dopo un po’ lo regala a un ragazzetto di passaggio. “Oggi varrebbe una bella cifra”» (Colonnelli) • «“Non ho mai parlato di nulla con mio padre, lui non è mai venuto a una mia mostra. Il mio vero padre è stato Gianfranco Baruchello, che ho cominciato a frequentare nel 1967. Baruchello mi ha spiegato e fatto conoscere tutto. Senza di lui non avrei mai intrapreso questa strada”. Ma evidentemente c’era nel tuo Dna il gene dell’arte, insomma avevi un talento naturale. “Non credo di avere un gran talento. Ammetto però che da ragazzino facevo t-shirt per gli amici disegnandoci sopra con i pennarelli, ma semmai il segno e il disegno mi derivavano più dalla passione per la musica, dalle copertine dei dischi, che non dall’ammirazione dei quadri che erano in casa”» (Bruno Di Marino) • «Baruchello, l’ho conosciuto a una festicciola a casa sua: lì ho scoperto il primo libro futurista e i suoi quadri fatti di figurine minute, fumettistiche. Ci siamo incuriositi a vicenda, all’inizio l’ho copiato proprio. […] Anche il mio amore per Duchamp, evidente nei miei “quadratini”, nasce da lui. Malgrado mio padre fosse uno dei pittori più amati da Duchamp, da lui non è venuto nulla che me lo facesse amare, immettere nel mio lavoro. […] Nei miei quadratini ci sono sassi che si muovono, smottamenti: lì pensavo al Grande vetro di Duchamp, a un quadro che raccontasse un mutamento. Erano visti come paesaggi, figurazioni, ma erano anti-pittura, tavole di concentrazione, un po’ come le immaginette sacre. Queste prime prove, più che immature, Baruchello le ha portate dal suo gallerista, Arturo Schwarz, e quello ha comprato tutto, a due lire. Al liceo andavo male in tutte le materie, e mi sono detto: due soldi così li guadagno, la finisco qui. Infatti feci pochi anni all’università. Insomma, è stato un incontro iniziatico, fondamentale: senza di lui non avrei fatto questo lavoro. Forse sarebbe stato un sollievo». «“Così a 19 anni me ne andai via da casa e, tra il ‘69 e il ‘76, ho fatto l’artista con i soldi di Schwarz, che mi organizzò mostre a Zurigo, Basilea, Berlino, New York, Filadelfia”. […] Oltre a Baruchello quali altri artisti hai frequentato negli anni ‘70? “Ero un ragazzino e diventai amico di persone più grandi di me, tra cui Angeli, Scialoja, Mambor, Kounellis, Twombly”. Schifano? “No, era troppo egocentrico. Ricordo che una sera mi trovai a cena con Gianfranco e Schifano, che, con le mani sporche di colore, disse a Baruchello: ‘Tu vuoi fare l’intellettuale, io voglio fare il pittore’. Ecco, in quel momento ho compreso di non essere un pittore”. […] Poi però hai scelto di allontanarti dal sistema artistico, iniziando la tua attività militante. “I miei quadretti erano pieni di bandiere rosse: incontrai Adriano Sofri, che mi chiese di collaborare a Lotta continua. Poi nel 1976 ho iniziato a disegnare copertine per l’editore Savelli, la più celebre delle quali resta Porci con le ali. Al di là dell’exploit del libro, anche la mia copertina ottenne un certo successo, tanto che alcuni collezionisti e curatori con cui stavo lavorando all’epoca, con un certo disappunto, mi chiesero: ‘Ma io ho in mano dei quadri o delle illustrazioni?’. Questa cosa mi diede da pensare, poiché ero convinto che fosse giusto diffondere l’arte a quante più persone possibile. Quel momento coincise infine con l’esplosione del ‘77 e con la scelta di chiudere lì la mia ‘carriera’ di artista”. Ti sei mai pentito di quella scelta così radicale? “No, affatto. Ricordo che Vincino disegnò una vignetta in cui mi sfotteva, scrivendo: ‘Dai Pablo, non rompere le palle e chiama un gallerista!’. Ma io ormai ero uscito dal giro, campavo grazie a Savelli e alle 5.000 lire al giorno del giornale. Ero anche un indiano metropolitano: con gli Indiani ho realizzato il sogno di uccidere l’arte per realizzarla nella vita”» (Di Marino) • «“Uno dei capi del Movimento fece un volantino contro di me e lo diffuse all’università: ‘Tu credi di aver con te Tzara e Breton, ma da te spira puzzolente l’alito di Marinetti e di Giannini’. Fascismo e qualunquismo, per loro”. E dunque, scrive Pablo, […] “a me, indiano, mi prese di petto un autorevole reduce del Sessantotto, nella speranza che alle sue argomentate contumelie io mi cagassi sotto. Viceversa, invece di indignarmi, presi a intignarmi…”» (Stefano Di Michele) • «“All’epoca un mio carissimo amico, Roberto Palazzi, anche lui all’interno del Movimento, mi disse: ‘Andiamo a cercare Marinetti sulle bancarelle’. Da quel momento sono diventato il massimo collezionista di pubblicazioni futuriste”» (Di Marino) • «Da lì mi sono appassionato, e ho capito che in realtà tutte le avanguardie - dadaismo, surrealismo, tutto quello che è venuto dopo - discendono appunto da quell’“alito puzzolente” di Marinetti, che invece per me profuma di rose». «Sentivo anche una sorta di orgoglio italiano: mi stavano spacciando per figlioletto del dadaismo, mentre io mi sentivo figlioletto del futurismo». «Finisce tutto nei giorni tragici di Moro. “La violenza non m’è mai piaciuta, il rapimento di Moro fu un autentico choc. Mi rifiutai di aderire all’operazione del giornale satirico con cui collaboravo [Il Male – ndr]: la foto di Moro prigioniero delle Br, in camicia, con sotto la scritta ‘Scusate, abitualmente vesto Marzotto’. Io pensavo che la satira dovesse avere dei limiti: mi rispondevano che la satira non doveva avere dei limiti. Io dicevo che già cinque uomini della scorta di Moro erano stati uccisi perché lui potesse vestire Marzotto, se lo voleva. E poi c’era la condanna a morte sulla sua testa… Pensieri che mi portarono alle dimissioni. Fu un periodo di grande depressione, molto grave. E cominciò la mia discesa al futurismo”» (Di Michele) • «“Il futurismo, l’ho davvero compreso con la fine del Movimento, quando mi sono trovato completamente spiazzato, poiché avevo rifiutato la mia precedente condizione scegliendo di non fare più l’artista bensì l’attivista. Ho rivissuto il medesimo clima di disillusione di cui parla in alcuni scritti Boccioni durante la Prima guerra mondiale. Con i futuristi ho riscoperto che si può ricostruire l’universo anche senza distruggerlo”. […] Negli anni ‘80 è arrivato il fumetto, e hai inaugurato una nuova fase della tua ricerca estetica. “Sì, diciamo che con il collezionismo dei materiali futuristi mi sono riavvicinato all’arte e alla mia anima da ricercatore. Con la fine del Movimento mi sentivo disorientato, perché crollava la convinzione di poter operare collettivamente e fuori dalla cornice delle gallerie. Accadde però che Vincenzo Mollica mi invitò a partecipare a una mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma. La mostra si chiamava Nuvole à gogo ed esponevamo io, Altan e Andrea Pazienza. Mollica mi chiese di provare a disegnare un fumetto e io mi inventai ‘Sto Picasso, in cui facevo incontrare il signor Bonaventura di Sergio Tofano (in arte ‘Sto’, appunto) con Les demoiselles d’Avignon. Ne venne fuori una dichiarazione d’intenti: fumetti e pittura possono andare a braccetto”. […] Che tipo di modelli hai avuto nel campo del fumetto? “Mi considero disneyano, anche perché non mi è mai piaciuto il fumetto antropomorfo, alla Tex Willer. A casa da bambino avevo grandi riproduzioni di Miró e ci vedevo dentro una sorta di Mickey Mouse scomposto. Mi sono nutrito di una cultura visiva ‘alta’. […] Sul mio letto avevo l’immagine di Guernica, che per me era un po’ come un fumetto. Detto questo, ho attinto dai paesaggi di Tin Tin, ho utilizzato quella che Hergé definisce ‘la linea chiara’ coniugandola col segno di Baruchello”. Da quel momento cosa è cambiato per te? “Ho cominciato a pubblicare su Linus, Alter alter, Frigidaire. Mi sono sentito liberato in quanto ‘fumettaro’. Mi piaceva il rapporto diretto con il pubblico, senza il filtro delle gallerie, affrancato dalle piccole guerre del mondo dell’arte. Eppure, anche in questo caso, sono rimasto un outsider: gli addetti ai lavori non mi consideravano del club. Malgrado il mio primo libretto avesse la prefazione di Hugo Pratt. In seguito qualcuno ha scritto che, con il mio Marinetti a fumetti (uscito nel 1985 su Linus), sono stato un anticipatore della odierna graphic novel, termine che a me non piace perché sembra che ci si vergogni di usare il termine ‘fumetto’”» (Di Marino) • «In seguito Pablo incontra sulla sua strada i graffitisti, e in parte li affianca (anni Ottanta e Novanta), dando vita a ballate multiformi come scosse elettriche di teschietti seriali e colorati: una sorta di sfida allegra alla morte e all’essere, al tempo stesso, ancora una volta impegnato in ambiti sociali» (Claudia Colasanti) • «Nel 1997 viene nominato accademico di San Luca. Ma, accademico sui generis, fonda il Partito del Tubo, una sorta di comunità mediatica, che, all’interno del Progetto Oreste, è invitato alla Biennale di Venezia nel 1999. […] Il suo lavoro ha sempre mantenuto un intenso rapporto con i movimenti e il sociale. Dall’esperienza di un laboratorio artistico nel carcere romano di Rebibbia è nato il film Piccoli ergastoli, presentato alla Mostra internazionale del cinema di Venezia nel 1997. […] Contemporaneamente all’attività di artista visivo Echaurren coltiva un legame profondo con la scrittura, cimentandosi come corsivista su numerose testate sia over che underground. […] Autore di saggi (Controcultura in Italia, 1999; Il suicidio dell’arte, 2001; Nel paese dei bibliofagi, 2010), romanzi e racconti (Compagni, 1998; Delitto d’autore, 2002), ha pubblicato anche una serie di biografie illustrate, dedicate a F.T. Marinetti, Tristan Tzara, Picasso, Dino Campana, Ezra Pound, Vladimir Majakovskij ecc. […] Mostre sulle sue opere si sono tenute in varie parti del mondo. Per i 150 dell’Italia unita le sue quattordici tavole dedicate ad altrettanti articoli della Costituzione sono andate in mostra al Palazzo del Quirinale con la benedizione del presidente Giorgio Napolitano e la presenza di oltre tremila studenti il giorno di apertura dell’anno scolastico 2011/2012» (Davide Fent) • «Sta lavorando a qualcosa di nuovo? “Preferisco sempre di più il ‘non fare’ all’idea di dover sfornare incessantemente sempre nuove cose. Io ho una visione nera del futuro. Lavoro a delle scatole e ragiono sul destino dell’uomo. Rifletto su come l’homo sapiens si sia evoluto sulla Terra, distruggendo gli animali, ma nel fare ciò ha piantato le basi per distruggere se stesso. Anche la pandemia è una distorsione dell’homo sapiens. Mi chiedo come sarebbe stato il mondo se al posto della specie dell’homo sapiens fosse sopravvissuta quella dell’uomo di Neanderthal. Sarebbe andata diversamente?”» (Angela Marina Strano) • «Le varie fasi della sua carriera: dalle magnifiche sculture maiolicate ispirate a Faenza ai collage fatti con frammenti di pubblicazioni futuriste, dalle illustrazioni delle favole di Esopo ai libri, dai dipinti in cui si celebra il basso elettrico a quelli dove si canta la Natura come esplosione di spore» (Colonnelli) • «Dopo tanta saturazione e bulimia visiva, oggi Pablo realizza poco, e le sue opere sono all’insegna della “sottrazione”. Così come Duchamp si era celato dietro lo pseudonimo di Rrose Sélavy, Paino (soprannome con cui lo chiamavano gli amici) si è inventato un alter ego, Llaboté Danlaru, poiché, anche col passare degli anni, continua a cercare la bellezza nella strada e non nei salotti dei collezionisti» (Di Marino) • Sposato con la storica dell’arte Claudia Salaris, grande esperta di avanguardie e in particolare di futurismo. «Claudia e io stiamo sempre insieme, appiccicati, pappagallini inseparabili, inossidabili fin dal lontano 1977, anno terribile per molti, anno mirabile per noi piccioncini peynettini che da allora condividiamo ogni istante della vita, ogni forchettata, ogni libata» • «Per anni non ho votato. Il Pci poche volte, e mai negli anni Settanta. Ho votato i radicali, i Ds, aspetta, come si chiama adesso quella roba lì, il Pd, ecco… In sostanza, della politica non m’importa un granché». «La vera rivoluzione non è stato il Sessantotto, ma l’apertura del Piper. Un ragazzo sentiva per la prima volta quei suoni, vedeva quei colori. Mi facevano entrare gratis, facevo fauna: avevo gli anelli alle dita, i capelli lunghi, gli stivali con i tacchi. […] Per me il Sessantotto sono le barbe lunghe, gli scarponi, l’eskimo, l’ingrigimento totale. Un mondo regressivo rispetto ai colori, ai fiori, ai suoni, alle minigonne, alle chitarre elettriche. Tutto viene bloccato: devi ingaggiare, manifestare, leggere Lotta continua. Arriva la musica colta, politicizzata, noiosa…». «Le dottrine mi danno angoscia e fastidio: cerco di spezzare il collare. Nei movimenti ci sono stato da cane sciolto, sgradito alla parte più ortodossa e leaderistica. Proprio l’essere stato in quella realtà omologante mi ha portato a fare cose considerate tabù: leggere Céline, Pound, Marinetti, i futuristi, visti allora come cascami del fascismo. La mia voglia di uscire dagli schemi mi ha portato a conoscere altri mondi: non ritengo che buoni e cattivi si possano separare con l’accetta. Da un desiderio di positività può nascere la peggiore negatività, come da questa momenti di positività. La vita è un casino, uno strano insieme di vasi comunicanti. Bisogna smettere di cercare di mettere ordine, ma cogliere qua e là: chi rimane fermo rischia di non capire nulla del mondo che sta vivendo. Io mi lascio andare» • «Ha gli occhi quasi lucidi quando ricorda il suo amico Giano Accame, l’ex direttore del Secolo, l’intellettuale di destra, il repubblichino non pentito e non grottescamente nostalgico. “Mi cerca per un’intervista al Secolo. Io collaboravo a Rinascita, il settimanale del Pci. Chiesi al direttore Franco Ottolenghi cosa fare. Mi rispose: ‘Accame? Fai subito con lui l’intervista, è una bravissima persona’… Successivamente lo invito a cena, e da allora, non so per quanti anni, ci siamo sentiti e visti per tutti i giorni che sono venuti. È stata la persona per cui mi sono sentito peggio quando è morto. Mi diceva: ‘Mi incuriosiscono quelli di sinistra, mi piacciono. Ma non faccio in tempo a conoscerli che passano a destra’. L’unica persona con cui stavo completamente a mio agio, senza dover mettere la maschera…”. E la collaborazione da artista con Renato Curcio prima, e Giusva Fioravanti poi? “Non c’è nessuna simpatia verso i loro gesti, il terrorismo è una cosa orribile, ma non mi sono avvicinato a questi ex per una sorta di friccico da guardone post bellico: è stata solo la riscoperta di due persone”» (Di Michele) • «Possiede l’altalenante fervore dei timidi e lo stato di grazia, senza rancore, di chi si sente un solitario. “Tendono sempre a rimuovermi, sono un pesce fuor d’acqua”, dice. […] “Io passo sempre per un bastian contrario”» (Marco Di Capua). «Il branco non mi ha mai attirato: non gioco a pallone, non ho mai visto una partita di pallone, non vado al bar a far commenti sportivi» • Nel 2010 dichiarò che il suo scrittore preferito era Antonio Pennacchi, «il più grande scrittore italiano» • A proposito di Porci con le ali: «A me pareva un libro detestabilissimo: ti faceva sentire un voyeur, un signore bene che guarda dalla serratura per osservare cosa fanno i suoi figli, e intanto si eccita osservando la ragazzetta del figlio… Non volevo più fare quelle copertine, non mi piacevano. Mi richiamarono perché Veltroni, che pubblicava il suo primo libro con la Savelli, voleva che la copertina fosse disegnata da chi aveva fatto quella di Porci con le ali…» • «Il senso della musica, assicu­ra, è rimasto più forte di quello della pittura. Soprattutto il rit­mo. Così sua moglie […] gli regalò un basso si­mile a quello che aveva avuto da ragazzo. “Per prendermi in giro. Non si rendeva conto che disa­stro sarebbe stato per me. Mi tro­vavo di fronte al sogno incompiu­to della mia vita”. Da allora non può fare a meno di acquistare bassi. Ovunque li trovi. Nei negozi americani e so­prattutto su internet. Non suona più. “Ho pudore a usare la paro­la ‘suonare’. Strimpello, qualche volta, i due bassi più moderni della collezione. Da solo in casa, accompagnato dal giradischi”. Continua a pensare che la chitar­ra elettrica sia uno degli oggetti più simbolici della modernità, della giovinezza, della dinamici­tà» (Colonnelli) • Nell’arco di una ventina d’anni ha costituito una collezione di circa 80 bassi, che ha poi affidato in comodato d’uso al Museo nazionale degli strumenti musicali di Roma. «Di ogni pezzo Echaurren conosce tutti i segreti: chi l’ha progettato, dove è stato costruito, chi sono i musicisti più famosi che l’hanno suonato e in quali concerti. […] Echaurren spiega che la sua passione per questi strumenti nasce proprio dalla bellezza della loro forma: “Anche se sono costruiti con intenti puramente funzionali e non estetici, alla fine risultano opere d’arte”. […] Accumula bassi, […] ma non solo. Le chitarre elettriche invadono i grandi quadri e i piccoli collage. Il rock trasforma le tele realizzate dopo il Duemila, dove compare il dripping, ma non nella chiave informale usata da Pollock, bensì, dice Claudia Salaris, “guidato in forme a pettine che rimandano al basso continuo, o dilatato in raggiere circolari che richiamano le esplosioni della batteria, o soffiato come una voce nella vasta gamma che va dai sussurri alle grida”» (Colonnelli) • «Sono cresciuto con i Beatles e i Rolling Stones, mi sono svezzato nelle serate al Piper Club, poi – dopo la stagione del prog, che non ho mai amato, perché serioso e troppo articolato – ho scoperto l’amore per il punk, come arte totale. Del resto, io dico che Marinetti was a punk poet. Peccato che la politica degli anni ‘70 abbia un po’ interrotto questo tipo di espressività felice». Grande passione per i Ramones, «che ascolta a ritmo continuo, che tornano e ritornano e rimbombano – e i raffinati a dire che è musica cretina, e lui ad alzare l’asticella della provocazione: “Dovreste essere vaccinati, informati che l’idiozia è una forma superiore di conoscenza, una specie divina di trascendenza”. […] “Come è possibile che non siano ancora considerati la massima espressione dell’arte contemporanea? Sotto tutti i punti di vista: musica, letteratura, pittura, cartoon, humour noir, abbigliamento, pettinatura. L’umanità è davvero tanto scervellata, ciecata, assordata dal nulla, da non riuscire ad afferrare quale immane poesia si sprigioni dalla stupidità dei Veloci Quattro?”. […] “Una volta che li avete sentiti siete fottuti, non ve li togliete più di dosso. Si incistano sotto pelle, vi afferrano per le palle e non vi mollano. Garantito”. Meglio dei Beatles, dice. Dei Rolling Stones, osa. Di Jimi Hendrix, assicura» (Di Michele) • «Dice di sé, a volte, Pablo Echaurren che è “una betoniera”, proprio di quelle da cantiere edile, “nel senso che ho macinato un po’ di tutto”, e altre volte dice che è “un artista criceto”, quel mite sorcetto che va e rivà sulla ruota in eterno, “ho il problema del dover fare, dell’horror vacui… mi terrorizzerebbe non produrre oggetti tangibili e accumulabili, come lo scoiattolo fa con ghiande, noci, nocciole”. […] E mischia e confonde e spiazza: “Ho confuso molto le acque. Le ho confuse io nella mia testa, le idee, e ho cercato di confonderle, le acque e le idee preconcette, anche agli altri”» (Di Michele) • «Lui che appare così leggero – […] a un’occhiata superficiale piene di leggerezza pure le sue opere – racconta il contrario: “Non sono uno leggero, ogni cosa che affronto non ce la faccio, ad affrontarla con leggerezza. Sono tendenzialmente un depresso, un pessimista. Diceva Marinetti che Leopardi era un maestro dell’ottimismo”. […] “Quello che sento è la morte, lo spazio che si restringe intorno a me, giorno per giorno”. E sorride, nella sua camicia a rigoni colorati. “Se tu osservi con attenzione i miei disegni, vedrai che ci sono teschi dappertutto…”. E infatti dappertutto sono, persino su una mucca grottesca che sembrava gioiosa: spuntano tra folle compatte, su un meraviglioso rinoceronte blu, vicino a un fungo rosso e di sicuro velenoso… Persino la neve, su certe piante, a forza di guardare non sembra più neve, ma lacrime. […] “Quindi, tutto quello che può sembrare giocoso non ha nulla di lieto; è, come diceva il poeta futurista russo Velimir Chlebnikov, un esorcismo con riso, cioè con la risata. Uno dipinge, usa i colori, perché prova a esorcizzare i propri dolori”» (Di Michele). «Anche da ragazzino andavo alla cappella dei cappuccini, m’inorridiva e affascinava tantissimo. Il teschio, la sensazione di essere mortale è costante. Questo mi dà un’ansia terribile, la spinta ad andare avanti» • «Da cosa trae ispirazione per le sue opere? “Sono occasioni. È come una ginnastica. Io come palestra faccio questo. È una capacità di mettere in pratica questa funzione, questa creatività. Vengo influenzato dalla vita, siamo come un setaccio: si depositano alcune particelle, altre scorrono, e con queste particelle uno lavora. Mai parlare d’ispirazione”» (Francesca Bonanni). «Sono un serial filler: amo riempire le caselle, per poi uscirne. Non ho mai giocato a pallone in un gruppo, andavo in un campo a vedere le cosettine che camminavano, leggevo manuali di scienze naturali. Forse è un modo di gestire la follia, di organizzare il caos, dare un ordine alle cose. Un mio vizio mentale. […] In linea di massima l’arte è una forma di sedazione, di esorcizzazione delle ansie, delle nevrosi che si hanno. Sostanzialmente l’uomo è un essere nato per fare, produrre con le proprie mani, seguire il corso delle stagioni: questa è la media del destino dell’uomo. Uno che non fa niente o non sa fare niente come l’artista, per definizione uno sfaticato sociale, per non impazzire deve darsi uno statuto, qualcosa da fare» • «Se mi chiede qual è la mia idea di bellezza, penso a Cy Twombly, anche se per molti i suoi non erano altro che scarabocchi, come per mio padre» (a Marco Di Capua) • «Non ho forse realizzato capolavori, ma penso di aver tracciato, all’interno dei vari linguaggi, un percorso umano e creativo con un suo senso. Per paradosso negli ultimi dieci anni ho fatto solo mostre in musei importanti, come la grande personale alla Gnam o al Museo Nacional de Bellas Artes di Santiago del Cile. Altre opere sono entrate nelle collezioni del Museo del Novecento a Milano, del Maxxi e del Macro. Diciamo che sto avendo dei riconoscimenti “postumi”, come se fossi morto».