29 gennaio 2021
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Biografia di José Mourinho
José Mourinho, nato a Setúbal il 26 gennaio 1963 (58 anni). Allenatore di calcio. Dal 20 novembre 2019 al Tottenham. Dal 2001 al 2004 ha allenato il Porto, con cui ha vinto tra l’altro due campionati portoghesi (2002-2003 e 2003-2004), una coppa Uefa (2003) e una Champions League. Dal 2004 al 2007 e dal 2013 al 2015 al Chelsea, con cui ha vinto tre Premier League (2004-2005, 2005-2006, 2014-2015), tre Carabao Cup (2005, 2007 e 2015), una Community Shield (2005) e una Fa Cup (2007). Dal 2008 al 2010 all’Inter, con cui ha conquistato uno Scudetto nella stagione 2008-2009, seguito nel 2009-2010 dal triplete (Scudetto, Champions e Coppa Italia) Dal 2010 al 2013 al Real Madrid con cui ha vinto una Liga (2010-11), una Coppa di Spagna (2011). Dal 2016 al 2018 al Manchester United che ha portato alla conquista di un’Europa League (2017), di una Community Shield (2016) e di una Carabao Cup (2017).
Titoli di testa «Vi prego di non chiamarmi arrogante, ma sono campione d’Europa e credo di essere speciale. Se avessi voluto un lavoro facile sarei rimasto al Porto: una bella sedia blu, una Champions League, Dio, e dopo Dio, io» (alla conferenza di presentazione al Chelsea, 10 luglio 2004)
Vita Figlio di Félix Mourinho (1938-2017), portiere del Vitória Setubal e poi allenatore, tenta anche lui la carriera da giocatore, come difensore. Visti gli scarsi risultati, lascia il calcio agonistico a 24 anni e si laurea all’Università Tecnica di Lisbona. «Finita l’università, dopo due anni da insegnante di Educazione fisica nelle scuole, Mourinho fa il corso Uefa e nel 1989 diventa allenatore delle giovanili del Vitoria Setúbal, club di seconda divisione. Fernandes, l’allenatore, lo vuole con sé anche all’Amadora, in prima divisione. Retrocedono. Rimane all’Amadora con il nuovo allenatore a cui serve un fitness coach. Nel 1992 Bobby Robson arriva allo Sporting Lisbona dal PSV, serve un interprete. “Il presidente portò con sé un giovane in gamba di nome José Mourinho, che disse di essere il mio interprete. Bel ragazzo. Gli dissi di non farsi vedere troppo spesso accanto a me! Sapevo che aveva ambizione e sapevo che un giorno mi avrebbe lasciato”. Diventano amici. Mourinho gli compila un elenco di frasi portoghesi di calcio. Viene coinvolto nei lavori e diventa allenatore dei portieri, membro aggiunto per gli esercizi con la palla, e ovviamente parlava con la stampa e i giocatori, infiorettando o per meglio dire integrando. Dopo un’eliminazione dalla Uefa contro il Salisburgo, Robson viene licenziato sul volo di ritorno con un messaggio all’interfono da parte del presidente. Robson offre a Mourinho di seguirlo al Porto. Poi viene chiamato dal Barcellona nella primavera del 1996 in sostituzione di Johann Cruijff. Porta con sé il traduttore: all’inizio lo pagano diecimila pesetas al mese e dorme nella stanza d’albergo del Mister: la società si rifiuta di pagare per un interprete aggiunto oltre a quello fornito dalla società» (Francesco Pacifico, Ultimouomo) • «Secondo alcuni giocatori che capivano l’inglese, le istruzioni di José dopo la traduzione di quello che aveva detto Robson risultavano sempre un po’ più acute di quelle del tecnico, con l’aggiunta a volte di qualche “extra”. I suoi video, in cui esponeva e sottolineava le debolezze e i punti di forza degli avversari, erano ben costruiti e il suo rapporto con Ronaldo lo aiutava a guadagnarsi qualche apprezzamento nel gruppo. Divenne presto la spalla su cui piangere quando si veniva lasciati fuori squadra, visto che Robson manteneva di proposito un distacco professionale dalla squadra. Astutamente, José superava quella linea costantemente e liberamente» (Luís Lourenço, Mourinho, Mondadori, 2008) • Rimane col Barcellona anche quando arriva Luis van Gaal, di cui è l’assistente ufficiale. Ricorda van Gaal: «José era un giovane arrogante che non rispettava l’autorità. Non era sottomesso e mi contraddiceva quando pensava mi sbagliassi. Ho finito con l’ascoltarlo più di quanto ascoltassi gli altri assistenti. Se dovevo fare una sessione di allenamento e non avevo le idee chiare, chiedevo a lui» (Ciaran Kelly The Rise of the Translator Bennion Kearny Limited, 2013) • «Il suo primo lavoro da allenatore è al Benfica, che rileva da Jupp Heynckes nell’autunno del 2000 dopo quattro giornate di campionato. Lascia il Benfica dopo otto partite perché non va d’accordo con il nuovo presidente eletto. Lo assumono all’Uniao de Leiria. Appena arrivato, abolisce la tradizionale partita amichevole con la squadra di giornalisti locali. Per motivare i giocatori - non potendo promettere trofei come in futuro farà sempre ovunque andrà - dichiara: “State sicuri che prima o poi andrò in un grande club. E quando ci andrò, alcuni di voi verranno con me”. Ai giornalisti chiosa: “Con quattro giocatori della Uniao de Leiria renderei campione il Benfica”, dando a intendere che potrebbe tornare nella squadra dell’anno prima. Porterà l’Uniao per la prima volta al quinto posto del campionato portoghese. L’anno dopo va al Porto e si porta dietro Maniche, Nuno Valente e Derlei. Al Porto introduce la “bibbia”, un powerpoint motivazionale: “Il concetto di club è superiore a qualsiasi giocatore”. “Ogni allenamento, ogni partita e ogni minuto della vostra vita sociale deve ruotare intorno all’obiettivo di essere campioni”. “Motivazione + Ambizione + Squadra + Spirito = SUCCESSO”. “Titolare non sarà la parola corretta. Ho bisogno di ciascuno di voi. Voi avete bisogno ciascuno degli altri. Siamo una SQUADRA”. Convince il presidente Pinto da Costa a non ribattezzare il nuovo stadio “Stadio da Costa” Ma “Stadio del Drago”, che è il simbolo della squadra. Vince la Champions» (Pacifico, cit.) • «Prese un Porto in crisi, nel 2002, e lo condusse a vincere due titoli di campionato consecutivi, più la Coppa Uefa il primo anno e la Champions League il secondo. Quindi finì al Chelsea, dove Paperone Abramovich spendeva milioni come fossero penny ma, con Claudio Ranieri in panchina, non riusciva ad andare oltre quello che in inglese si chiama “second best”, il migliore a parte chi è arrivato primo. E anche lì Mourinho ha dimostrato di possedere una bacchetta magica, vincendo la Premier League nella prima stagione, facendo il bis la successiva e nel suo terzo anno, in cui è arrivato secondo in campionato, ha comunque consolato il suo proprietario vincendo la Coppa d’Inghilterra e la Coppa di Lega (che aveva già vinto pure nella sua prima stagione londinese). Poi, all’inizio del quarto anno, è stato licenziato: la squadra era partita male in campionato e in Champions, il gioco non brillava, i rapporti con Abramovich sembravano essersi guastati, in parte a causa di Shevchenko, il centroattacco comprato a peso d’oro dal Milan, adorato dal petroliere russo, ma rivelatosi inconsistente a Londra, per cui José non lo faceva giocare» (Enrico Franceschini, Rep 22/5/2008) • «Il suo arrivo al Chelsea fu choccante: si dichiarò (“ma senza arroganza, sia chiaro”) un “tipo speciale”, The Special One. Ha fama di spendaccione che prosciuga le casse del presidente. Ma non è vero che pretenda giocatori affermati: arrivando a Londra fece prendere Drogba, Tiago, Ricardo Carvalho, Riccardo Ferreira, gente che non era ancora al top. Pagata cara ma intuizione tecnica di lungo periodo, come Essien, strappato al Lione per più di 30 milioni di euro, poi centrocampista tra i massimi al mondo. È vero piuttosto che ci sono stati giocatori che gli sono stati imposti e che lui non voleva, come Ballack ma, soprattutto, Shevchenko. Non far giocare il cocco del boss è comunque una prova ammirevole di carattere o di puntiglio. Il suo mito ha nascosto i numeri dei suoi successi: in 185 partite con il Chelsea ha vinto 131 volte, il 71%» (Andrea Sorrentino, Rep 28/5/2008) • Viene annunciato come nuovo allenatore dell’Inter il 5 giugno 2008. «La prima mossa dopo la firma del contratto con l’Inter è chiedere alla nostra ambasciata a Lisbona il miglior insegnante di italiano su piazza, e per tre mesi studia con lui dal mattino alla sera. L’ultima lezione, il giorno prima della presentazione alla stampa, si chiude con una richiesta mirata: una parola che, usata nel giusto contesto, renda l’idea di che razza di personaggio sia arrivato in Italia. Il giorno dopo ad Appiano, a un giornalista che cerca di fargli confessare un interesse per Lampard, José ribatte il famoso “io non sono pirla”, e la Milano nerazzurra è conquistata prima che la squadra abbia messo piede in campo» (Paolo Condò, La storia del calcio in 50 ritratti, Centauria 2019) • Alla prima stagione all’Inter domina il campionato, vincendo con dieci punti di distacco dal Milan e undici dalla Juventus. In Champions League si ferma agli ottavi di finale, eliminato dal Manchester United. Nella stagione successiva rivoluziona la squadra: l’Inter cede Ibrahimovic al Barcellona in cambio di Eto’o e un ricco conguaglio economico. Con Figo ritirato e Crespo e Cruz partiti, arrivano Lúcio dal Bayern Monaco, Sneijder dal Real Madrid, Thiago Motta e Milito dal Genoa. È la stagione in cui l’Inter conquista il triplete (Campionato, Champions e Coppa Italia), prima squadra in Italia a riuscirci, e riporta la Coppa Campioni ad Appiano Gentile a 45 anni dall’ultima volta. «Mourinho vinse quel triplete giocando come giocava Rocco cinquant’anni prima, gestendo i giocatori secondo l’avversario, avendo cura prima di tutto di difendersi e usando la propria modernità in un’esasperata attenzione dei dettagli, nella costruzione eterna del nemico. Credo che il triplete sia stato soprattutto merito suo. Anche l’Inter di Herrera, a cui indubbiamente Mourinho assomiglia, aveva molti più punti fermi, la sua formazione era una poesia, la scandivi a memoria come il verso di un sonetto. Quella di Mourinho è sempre stata piena di sorprese. Più che all’Inter del vecchio Moratti, questa del figlio mi ha ricordato alcuni esempi del Manchester di Ferguson, per l’ampiezza del gioco, la semplicità e l’aggressività. Mourinho non aveva quell’anno una squadra formidabile, era un’Inter di tutti campioni ma forse di nessun fuoriclasse. La parte migliore era la difesa, quella linea con Maicon-Lucio-Samuel-Zanetti. La squadra subì mezzo gol a partita e ne segnò in media appena 1,30. Gli unici a giocare per intera la Champions furono appunto i difensori, più Julio Cesar ed Eto’o. Gli altri furono mescolati con grande abilità da Mourinho. Era più forte forse la sua Inter dell’anno prima che infatti vinse il campionato con dieci punti di distacco» (Mario Sconcerti, CdS 18/5/2020) • Lascia l’Inter il giorno stesso in cui conquista la Champions League, in finale contro il Bayern Monaco, il 22 maggio 2010, al Santiago Bernabeu di Madrid. Non torna nemmeno a Milano in pullman con la squadra ma si ferma a Madrid, perché ha già un accordo per allenare il Real. La prima stagione in Spagna è un flop: secondo nella Liga dietro al Barcellona di Guardiola e Messi, ed eliminato in semifinale in Champions dallo stesso Barcellona. Nella stagione successiva conquista la Liga con il record di punti (100) e gol segnati (121). A Marca, ricorderà così quell’annata: «È molto difficile per me dire se quello sia stato o meno il punto più alto della mia carriera, ovviamente è stato un momento molto importante perché si è verificato in un periodo in cui il Barcellona stava dominando. Non abbiamo solo vinto il campionato. Lo abbiamo fatto scrivendo la storia». La terza stagione spagnola è un fallimento: secondo in Liga dietro al Barcellona ed eliminato per il terzo anno di fila in semifinale in Champions. Il club e l’allenatore trovano un accordo per separarsi. Nel giugno 2013 Mourinho torna al Chelsea. Nella seconda esperienza a Londra conquista una Premier League e una Coppa di Lega prima di essere esonerato a metà della terza stagione. Nel maggio 2016 prende il posto di Van Gaal al Manchester United e conquista subito una Community Shield. Nella stagione 2016-2017 vince l’Europa League, la prima nella storia del club. Viene esonerato nel dicembre 2018, con i giocatori che festeggiano l’addio del portoghese, detestato da molti, soprattutto da Pogba. Dopo 11 mesi di inattività, il 20 novembre 2019 torna ad allenare sempre in Inghilterra, al Tottenham, dove prende il posto di Mauricio Pochettino e chiude al sesto posto in Premier League.
Frasi «Non sono il migliore del mondo, ma penso che nessuno sia meglio di me» • «Come persona e come allenatore sono un tipo semplice: in fondo lavorare con me è facile, basta seguirmi» • «Se i giocatori mi dovessero descrivere con una parola? Per qualcuno “bastardo”» • «Nelle mie squadre quando si vince hanno vinto i giocatori, quando si perde ho perso io» • «Io a calcio gioco per perdere solo quando sfido i miei figli» • «Perdere la Champions è più facile che vincerla, per un fatto matematico: vogliono vincerla 7-8 squadre, dunque ci sono 15 possibilità su 100 di vincerla e 85 di perderla» • «Dio deve avere un’ottima opinione di me, altrimenti non mi avrebbe concesso tanto».
Critica «Alla guida del Porto o del Chelsea era l’ideologo di un calcio cerebrale, giocato con formule metafisiche. Arrivato all’Inter, ha capito subito di essere caduto nel cuore più nevrotico, sentimentale e fragile del calcio mondiale. Società, squadra e “popolo” nerazzurro, un rosario di vittorie intervallato da cicli di disgrazie. E quindi, dato che “non sono un pirla”, Mourinho ha deciso che la sua partita più seria non si giocava in campo, bensì nelle interviste del dopopartita. In questa politica giocata con altri mezzi, Mourinho ha scelto di essere un leader totale. Si fa presto, infatti, a dire che è un grande comunicatore. Ma bisognerebbe stabilire intanto che cosa comunica. Perché Mourinho è un guru, un santone, un filosofo. In quanto tale, è un manipolatore di concetti. Sembra in effetti la reincarnazione postcalcistica di Helenio Herrera, non a caso detto il Mago. Solo che “Acca Acca” arrivava al massimo al “taca la bala”, e ai cartelli motivazionali nello spogliatoio, “stile più forza uguale classe”; Mourinho guarda i giornalisti e si appella all’“onestà intellettuale”, e spara a zero sugli avversari. Nessun allenatore ha mai parlato così. E si capisce: in quanto leader filosofico, il tradizionalista Mourinho è in grado di agitare concetti e retoriche strappando le convenzioni. Anzi, crea una realtà parallela» (Edmondo Berselli, Rep 4/3/2009) • «Ha vinto con i club più diversi: il piccolo (a quei livelli) Porto, l’ambizioso Chelsea, la nobile decaduta Inter, il “ministero” Real Madrid, un Chelsea-bis molto più conservativo. Tatticamente, di tutte queste squadre verrà ricordato poco: ottime fasi difensive, pressing selettivo a centrocampo, campioni messi nelle migliori condizioni di esprimersi in attacco. Psicologicamente, invece, ciascuna di loro merita un posto nella hall of fame per l’unione dei suoi elementi, la determinazione a prevalere, l’implacabile abilità nello sfruttare i momenti giusti per colpire. José è il loro dominus, un generale da tempi di guerra amato dai suoi uomini e temuto dai rivali» (Paolo Condò, La storia del calcio in 50 ritratti, Centauria 2019).
Amori Sposato dal 1989 con Matilde, detta Tami. Hanno due figli che si chiamano come loro: José junior (2000) e Matilde junior (1996) • Nell’ottobre 2007 il Sunday Mirror svelò una relazione extraconiugale con la bionda Elsa Sousa. I due, secondo le rivelazioni di lei, si sarebbero frequentati per più di un anno, finché la moglie Matilde minacciò il divorzio imponendo al marito di scegliere • Quando, ai tempi di Barcellona, fu accusato di essere l’amante del tecnico di cui era traduttore, ripose: «Non sono gay, e se qualcuno lo pensa, mi porti sua sorella» • «Pare persino che, nove mesi dopo il Triplete, si sia registrato fra i tifosi nerazzurri un incremento delle nascite; li chiamano “i figli di Mourinho”» (Aldo Grasso, CdS 10/4/2014).
Fede Cattolico credente. «Sono cresciuto in una famiglia religiosa. Almeno una volta all’anno vado in pellegrinaggio a Fatima. Qualcuno mi aveva visto stringere un crocifisso durante una partita. Il crocifisso che porto con me è un regalo di mia moglie» (a Claudio Pollastri, Avvenire 30/9/2010).
Rivalità Odio mai nascosto nei confronti di Pep Guardiola, rivale ai tempi della Liga, quando lo spagnolo allenava il Barcellona, e poi della Premier, quand’è passato alla guida del Manchester City. Alla rivalità tra i due Paolo Condò ha dedicato il libro I duellanti (Baldini & Castoldi 2016). «Certo, quasi vent’anni fa tra Pep Guardiola e José Mourinho c’erano abbracci, pacche sulle spalle. Lo spagnolo era il vigile del centrocampo del Barcellona che doveva giocare in verticale per Ronaldo, il Fenomeno – poi il brasiliano sapeva cosa farne, di quella sfera – mentre Mou era tra gli assistenti del tecnico blaugrana Bobby Robson. Poi Pep si è piazzato in panchina e tutti hanno scoperto che era bravo, bello e carismatico almeno quanto il portoghese. Un vincente. E con un ego smisurato, come l’uomo da Setúbal. Il punto di rottura sarebbe dovuto a quella panchina del Barça senza dipendente nel 2008 che Mou voleva occupare, addirittura proponendo lui stesso Pep assistente e che invece finiva allo stesso Guardiola» (Beppe Di Corrado, Il Foglio 10/9/2016)
Vizi Vanitosissimo • Nel 2020 ha aperto un account Instagram, @josemourinho. «Al catalogo digitale non mancano foto di Mou in barca a vela (con tanto di delfino sullo sfondo); di Mourinho in conferenza-stampa (“Undici giorni senza conferenze, mi mancava”); dei suoi piedi che calzano scarpe nuovissime e sponsorizzate appoggiati allo schienale di un sedile del pullman. Di Mourinho che legge, che fa il tampone per il Covid, che fa la pubblicità della carta di credito. Che fa pure il gesto delle manette ai tempi dell’Inter. E ogni post è impastato con freddure, battute, litri di emoticon» (Benedetto Saccà, Mess 2/11/2020).
Titoli di coda «Mi sveglio presto e vado via tardi, pensando al calcio ogni minuto. Non importa in quali club sono stato. La mia giornata lavorativa è rimasta uguale. Un sacco di allenatori arrivano da me chiedendomi la ricetta del successo. Ma se vogliono una ricetta, dovrebbero andare da un dottore. Il calcio non è così».