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 2020  dicembre 01 Martedì calendario

Biografia di Carlo Verdone


Carlo Verdone, nato a Roma il 17 novembre 1950 (70 anni). Comico. Attore. Regista. Sceneggiatore • «Ha messo in piazza, anzi, sul grande schermo, i tic, le manie, l’assoluta mancanza di senso del ridicolo degli italiani» (Gaspare Baglio, Rolling Stones, 26/11/2018) • «Se ne faccia carico personalmente o li affidi ad altri attori, i personaggi dei suoi film sono i ritratti di un’unica, infinita galleria, dove il tipo si confonde con il personaggio e viceversa» (Paolo Mereghetti) • «Ha battuto due strade parallele, quella delle sceneggiature a tutto tondo, delle storie in realtà più dolci che amare […] e spesso fiacche e timorate, e quella del periodico ritorno ai personaggi che gli dettero il successo: il coatto […], il moralista per di più intellettuale, il boyscout tra bigotto e coglione che anche lui ha messo su famiglia ed è invecchiato senza cambiar di carattere e di valori» (Goffredo Fofi) • Tra i suoi film: Un sacco bello (1980), Bianco, Rosso e Verdone (1980), Borotalco (1982, David di Donatello come miglior protagonista), Acqua e sapone (1983), Troppo forte (1986), Io e mia sorella (1987, David sceneggiatura), Compagni di scuola (1988), Stasera a casa di Alice (1990), Maledetto il giorno che t’ho incontrato (1992, David protagonista e sceneggiatura), Perdiamoci di vista (1994, David regia), Viaggi di nozze (1995), Gallo cedrone (1998), C’era un cinese in coma (2000), L’amore è eterno finché dura (2004), Il mio miglior nemico (2006, con Silvio Muccino), Grande, grosso e… Verdone (2008), Io, loro e Lara (2010), Sotto una buona stella (2014) e Benedetta follia (2018), Si vive una volta sola (previsto per il 2020, rimandato a causa dell’epidemia di coronavirus) • Ha lavorato per il cinema, il teatro, la radio e la televisione. Visto anche, tra le altre cose, in: La luna (Bernardo Bertolucci, 1979), Grand Hotel Excelsior (Castellano e Pipolo, 1982), In viaggio con papà (Alberto Sordi, 1982), 7 chili in 7 giorni (Luca Verdone, 1986), Zora la vampira (Manetti Bros., 2000), Manuale d’amore (Giovanni Veronesi, 2005) e La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013) • Ha doppiato il gatto Zorba in La gabbianella e il gatto (Enzo D’Alò, 1998) • «Quando, nei primi Ottanta, irruppe sulla scena ridando brio alla sfiorita commedia italiana, le affibbiarono il patentino di “erede di Alberto Sordi”. Era un complimento. Ma poi non ha finito per diventare un cappio, per costringerla a rifare sempre Verdone? “Il pericolo c’era. Ma credo di aver sempre cercato di cambiare toni, registri, personaggi”. E c’è riuscito? “Continuo a provarci”» (Marco Cicala, il venerdì, 13/11/2020) • Ha detto: «Diversi anni fa, all’una di notte, sul ponte di Regina Coeli, un energumeno in motocicletta mi urlò: “A Ca’, grazie pe’ avemme dato er soriso a ’n’adolescenza de mmerda!”.  Sulle prime rimasi spaventato. Ma poi mi dissi che quella frase valeva più di un Oscar».
Titoli di testa «L’intervista a Carlo Verdone è uno dei generi più difficili del giornalismo italiano. È com’era l’intervista a Dino Risi quando il regista era vivo: ne esistono migliaia, è un rito di passaggio, episodi sentiti centinaia di volte, carriera sottoposta a milioni di carotaggi. Così Verdone: i rapporti con Sordi (argh), con Sergio Leone (aiuto), con Roma (oddio). Passo quindi due giorni alla ricerca dell’Aneddoto Perduto, e con un po’ di timore busso all’attico che domina Roma dal Gianicolo. Sarà per l’apprensione – Verdone è un mio mito d’infanzia; è cortesissimo, impaziente, ha risposto subito alla richiesta d’intervista, manda messaggi dopo tre minuti, “sì però leggetele, le mail”, “presto che devo partire”, “troppo tardi”, “allora domani alle 3”, “però al telefono”, poi non parte più, richiama, dice che non ha più voce, d’andare a casa sua. Insomma sale l’ansia, l’indirizzo è complicato, ci sono civici e codici, suono, apre un cancello, prendi la tal scala, il tal ascensore, salgo infine su. Ecco Verdone. “Hai preso il montacarichi di servizio, ma come si fa”, dice lui, tutto in blu, dolcevita e pantaloni di velluto a coste, costernato per me. In effetti pareva un po’ stretto, l’ascensore. Dentro, pareti chiare, foto con Fellini, col papà, con Sordi, un telescopio, uno di quei friggizanzare che ogni tanto frigge. Mi dice “abbiamo cambiato la terra nelle piante, così siamo pieni di insetti, ma non metterlo, non metterla questa cosa del friggi insetti nel pezzo”. Verdone si preoccupa di tutto. Che adorabile ansioso. Intanto si sente: fzz! fzz! “Che me volevi chiede? Son stato un’ora e mezza adesso con Vanity Fair”. Sospira, si accascia in poltrona» (Michele Masneri, Il Foglio, 27/1/2020).
Vita Primo dei tre figli di Mario e Rossana Verdone. Un fratello e una sorella più piccoli, Luca (n. 1953) e Silvia (n. 1958) • Suo padre, Mario Verdone, di origini toscane, è storico del cinema. «Un colpo di mortaio, nella prima guerra mondiale, disintegrò il nonno sulla collina di San Michele. Mio padre aveva due anni. E da allora, con pochissimi mezzi, si è fatto da solo». Dopo gli studi in legge e scienze politiche, è diventato assistente di Norberto Bobbio all’università di Siena, studioso delle avanguardie novecentesche, poi dirigente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. È un socialista, vicino al comunismo. «Non ha mai avuto la tessera del Pci, ma spesso andava a Praga, a Mosca, a Berlino Est. Faceva frequenti viaggi nell’Europa di Oltrecortina. Una volta gli dissi: papà, ma non è che sei una spia? Si mise a ridere» • Carlo nasce di venerdì 17. Per scacciare la malasorte, visto che a Roma, per dire «una grossa fortuna», si dice «un gran Gregorio», come secondo nome lo chiamano proprio «Gregorio» • Casa Verdone è frequentata da grandi registi e grandi medici. «Il comò di mia madre era un sagrato di farmaci. C’erano vitamine, molti ansiolitici, stabilizzatori dell’umore. E poi c’era mio zio, che viveva con noi ed era nato col mal di testa: un giorno stava bene e sei no». Un giorno, da bambino, attratto da tutte quelle pillole, Carlo ne prova una a caso: «Quasi ce restavo» • Scuole elementari dalle monache di Nevers, lungotevere Cenci. Quando arriva la bella stagione, le suore portavano i bambini a Ostia. Verdone, senza dirlo a nessuno, spera che sia cattivo tempo per non tuffarsi • «Io nella vita ho esorcizzato tutte le cose che mi spaventavano. Da ragazzino con i Lupetti andai in gita nelle catacombe, fu un dramma, un attacco di claustrofobia come non ne ho mai avuti in tutta la vita» (Alessandra Vitali, Robinson, 22/2/2020) • «Iniziai a leggermi tutta l’Enciclopedia medica della Curcio Editore. Ero convinto che avrei scelto medicina all’università. A un certo punto però arrivai alla definizione di ‘tracoma’, un disturbo oculare serio. In quel periodo soffrivo con gli occhi e mi ero quasi convinto di averne uno. Capii di essere troppo emotivo e di non poter fare il medico» • «“Ho respirato ansia per anni, come fosse ossigeno. A 18 anni soffrivo d’insonnia. Mia madre preoccupata chiamò il professor D’Agostino, un luminare della psiche. Quando entrava in casa nostra era come se fosse arrivato Gesù di Nazareth. Capacità diagnostiche straordinarie e poche parole. Poteva camminare sull’acqua tanto la nostra fede in lui era assoluta”. La visita e che succede? “A un certo punto mi chiese: ma che fai la notte quando non dormi? ‘Scrivo poesie’. ‘Se scrivi poesie, fammele leggere’. Mi vergognai. Insistette. Gli portai un quaderno. C’era dentro tutto il mio mondo crepuscolare. Poesie meste, dal titolo eloquente: Autunno, La sedia vuota, Il pianto del nonno, Sulle dune di Sabaudia. D’Agostino mi guardò come disgustato: ‘Serpax da 15 mmg’, sentenziò. ‘Per quanto tempo?’, chiesi. ‘Tutta la vita’, rispose. E poi aggiunse: ringrazia di essere una persona ansiosa, sei fortunato. ‘Perché?’, domandai. Altrimenti saresti una comunissima testa di cazzo. Tu con questa ansia ci devi convivere. Poi, un giorno forse si sfilaccerà e non ce la farà più a starti dietro e la tua vita diventerà più vuota”» (Antonio Gnoli, la Repubblica, 20/5/2018) • «Sono cresciuto in una famiglia in cui c’era passione per la musica classica e in cui circolavano, che so, i dischi di Gilbert Bécaud. Poi un giorno, me lo ricordo come fosse ieri, è arrivato mio fratello con un altro disco: Twist and shout dei Beatles. E allora è cambiato tutto. Ma il primo lp comprato è stato di Bob Dylan» • Nel 1968 Verdone è al teatro Brancaccio per ascoltare Jimi Hendrix. «“Una quantità impressionante di giovani si radunò per ascoltarlo. Io sembravo sotto effetto di ipnosi. Non ascoltavo la sua musica. Ero attratto dai due ciuffi biondi che Jimi aveva lasciato crescere e tinto ai lati della testa. Mi dava l’idea di un bizzarro sciamano alle prese con una tribù di scalmanati. Decisi di iscrivermi a quella religione fondando una band”. Suonava cosa? “Non la chitarra, che avrebbe richiesto uno studio più profondo, ma la batteria. Alla prima band ne seguì una seconda. Tra i 17 e i 21 anni sembrò quello il mio destino. Poi mollai di botto”. Perché? “Forse per timore di non emergere, forse per l’università cui mi ero iscritto o forse perché gli altri componenti del gruppo avevano preso una piega che non mi piaceva. Convinti che per suonare fosse indispensabile drogarsi”» (Gnoli) • Si iscrive a Lettere. Si laurea con una tesi dal titolo L’influenza della letteratura italiana nel cinema muto. A un certo punto si ritrova il padre come professore. «Mi dava del lei. Tutti ridevano alle mie spalle. Sapeva che ero preparato su Bergman, mi chiese tutto su Pabst. Feci scena muta. “Si ripresenti alla prossima occasione” mi fece. Una figura di merda. Era un uomo sorprendente, mio padre» • «Per anni ha avuto l’autista, poi in famiglia lo convincemmo a prendere l’auto, anche per le gite. Ma lui, che teneva grandi conferenze, è stato bocciato sette volte all’esame per la patente. Finalmente un giorno torna dalla Motorizzazione, “ce l’ho fatta”, è stata una festa. Un mese dopo, troviamo davanti ai portici sotto casa una 1100 nera con le gomme fasciate di bianco. Ci batteva il cuore, entrammo come fosse San Pietro. Un giorno papà mi dice “accompagnami in un posto”. Parte in prima e resta con quella marcia, andiamo a venti all’ora, finalmente mette in terza, arriviamo in Piazza Venezia, gira per una stradina e mi fa “che bella la nostra macchina”, non raddrizza l’auto e andiamo dritti contro un muro, lui gli occhiali spaccati, io una ferita in testa. La folla, mia madre arriva in taxi: “Fregnone, tu non devi guidare più!”. Piero Sadun, pittore astrattista e amico di papà va a vedere il muro e ne fa un quadro bellissimo, si chiama Incidente. Papà non guidò per i successivi tre anni, poi riprese, anche perché dovemmo licenziare l’autista: mia madre trovò un profilattico e fece una scenata a papà. Ci avvertì la polizia che il tizio andava tutte le sere a Caracalla a prostitute» (Arianna Finos, la Repubblica, 2/5/2020) • «Le prime cose le ho fatte con mio fratello Luca nel teatro dell’Università. Poi, più o meno nel 1972, ho continuato in una cantina nei pressi di piazza Cavour dove faceva un freddo cane, c’erano al massimo cinque o sei gradi, così gli attori si ammalavano uno dopo l’altro, e a me toccava sostituirli, interpretando tutti i ruoli» • «L’Italia, Roma in particolare, era una prateria dove pascolavano personaggi incredibili. Li osservavo cercando di imitarli. E sentivo che funzionava. Gli amici ridevano» • Suo padre invece è molto scettico. «“Conosceva bene la realtà del cinema, le difficoltà per intraprendere e restare in questo mondo: per lui era un mestiere complicato, pericoloso, pieno di fragilità. Diceva: ‘O sei da primo in classifica, o meglio lasciar perdere. E non so se puoi riuscirci. Studia e pensa a un posto sicuro’”. Sua madre? “L’opposto: ‘Carlè, tu hai un occhio particolare su ciò che ti circonda. È una dote’. Però a quel tempo la laurea aveva un valore spendibile…”» (Alessandro Ferrucci, Il Fatto Quotidiano, 22/11/2018) • È proprio la madre a spingerlo a fare sul serio. A un certo punto, lei arriva ad affitare per una settimana il teatro Alberichino apposta per lui. Carlo, all’inizio è preso da un attacco di panico. Lei: «Carlo, non fare il fregnone! Vai a recitare! Se non sali sul palco ti prendo a calci in culo». Poi aggiunge: «Un giorno mi ringrazierai» • Carlo porta in scena i suoi primi dodici personaggi. È il 1977. Pochi mesi dopo va in onda su Rai Uno, nella serie Non stop. È un grandissimo successo, ma lui, per almeno un anno, soffre di violenti attacchi di panico. «All’origine c’era la mia nuova vita, il successo, la riconoscibilità. Un problema, per uno timido come me. Facevo ridere ma ero una persona riservata, vivevo nel mio mondo tranquillo. Mio padre mi portava con sé alle conferenze, ero sbalordito perché parlava davanti a duecento persone, io non avrei mai avuto il coraggio. A un certo punto tutti cominciarono a riconoscermi, fermarmi, mi sentivo violentato. Avevo le parestesie sul labbro, la narice, sull’orecchio, mi formicolava tutto, andavo in iperventilazione, non guidavo, non camminavo”» (alla Vitali) • L’uomo che lo scopre, istruisce e lancia nel cinema è Sergio Leone: «Aveva visto le mie macchiette Non stop. “M’hai fatto rìde” mi disse in puro romanesco. Andai a trovarlo a casa sua all’Eur, gli sottoposi un soggettino che avevo scritto assieme a Marco Risi. Lo lesse: “Ma che cazzo hai scritto?” fu il suo commento. E cominciò a telefonare a tutti gli sceneggiatori italiani combinando, lì su due piedi, un film fatto su misura per me. Il risultato fu Un sacco bello. Io avevo visto Per qualche dollaro in più quattro o cinque volte. Era il mio preferito. Quando glielo dicevo, mi rispondeva: “Ciài propio er gusto dei burini”. Mi dava del burino perché sosteneva che, con un genitore toscano, non potevo definirmi romano de Roma. Metteva molta soggezione. Era esigente e terribile. M’ha pure menato... Sul set di Un sacco bello, la scena della telefonata, quando io telefono a mia madre a Ladispoli, e nella stanza accanto c’è la ragazza spagnola, Marisol, che fa all’amore col suo ragazzo. Lui voleva che facessi quella scena sudato e ansimante, e mi ordinò: fatti due giri del palazzo di corsa, e poi giriamo. Io pensai, mica sono matto: mi feci spruzzare di sudore finto, simulai il fiatone, e cominciammo a girare. Lui se ne accorse, diede lo stop (e non gli spettava, ero io il regista), mi si avvicinò, mi diede un ceffone terrificante e poi disse: “A stronzo, vatte a fa’ er giro der palazzo, poi giriamo”... La sera prima di iniziare Un sacco bello io non riuscivo a dormire, avevo una paura fottuta. Stavo in camera mia e verso le 11 viene mia madre e mi fa: “C’è Leone per te”. Entra e mi dice: “Mettete i calzoni e la majetta, famose du’ passi: tanto tu stasera non dormi”. Passeggiammo un paio d’ore fra Ponte Sisto e l’isola Tiberina, e mi diede un sacco di consigli. La mattina dopo mi venne a prendere lui in auto, mi portò alla Dear e il primo giorno mi fece da aiuto. E quale aiuto!» • «“Eravamo a Santa Maria in Trastevere. La scena doveva essere girata in presa diretta, senza doppiaggio, sia per naturalezza sia perché avevamo pochi soldi. Ma in piazza c’era un casino, c’era chi suonava la chitarra, chi cantava, e poi un rompicoioni che suonava la tromba, pe-pe-pe, tipo generale Custer, avrà avuto cinquant’anni. E non potevamo girare. ‘Ma che dovemo sta a aspetta’ le quattro di mattina pe’ gira’?’, dice Sergio Leone. Allora chiama uno dei capogruppo, sotto, Alfredo. Alfredo risponde: ‘Agli ordini!’. Devi pensare”, dice Verdone, “che all’epoca questi capogruppo erano quasi tutti ex pugili”. “Me levate dai coioni sto trombettista?”, dice Leone. “Sta tranquillo, tra un minuto giri”. “Si sente pe-pe-pe. PAM. PAM, e un rumore d’acqua. Praticamente prendono il trombettista, gli prendono la tromba, gliela rompono, e lo buttano dentro la fontana. E poi: a Sergio, mo’ potete gira’!. Capisci? Oggi finirebbe a colpi di pistola”» (Masneri).
Intermezzo «Verdone fa delle pause lunghissime in cui io sbrocco dall’ansia. Per fortuna c’è il friggizanzare. Fzz. Fzz. Mi ricorda un friggizanzare che i miei nonni avevano messo nella casa di campagna, un’estate, mentre noi eravamo in vacanza. Eravamo tornati e c’era questo friggizanzare, che ogni tanto faceva dei “fzz”, e si sentiva un odorino di insetto abbrustolito. Ci penso per scrollarmi di dosso l’ansia. “Nun lo scrive”, mi legge nel pensiero Verdone. “Che poi dicono: Verdone col friggizanzare, Verdone sta in una baracca”. Io taccio» (Masneri).
Amore È stato sposato con Gianna Scarpelli (sono separati dal 1996, ma non divorziati). Due figli, Giulia (1986), che lavora nel marketing di una multinazionale, e Paolo (1988), che ha studiato Politica internazionale. «Il giorno in cui io e Gianna andammo in tribunale per le pratiche mi presentai senza legale. Il giudice era sconvolto: “Ma lei non ha un avvocato?”. Implicitamente mi stava dicendo: “Guardi che sua moglie vincerà su tutta la linea”. Lo anticipai: “Decida lei, per me non è cambiato niente”. Fu brutto, ma Gianna si dimostrò speciale. Accettai ogni decisione senza fiatare e poi alla fine della liturgia lei si avvicinò: “Che fai quest’estate? Parti? Hai programmi?”. Allargai le braccia. “Cosa vuoi che faccia?”. “Io vado in Sardegna con i bambini, se non hai niente da fare vieni, loro saranno contenti”. Aveva già prenotato una stanza perché sapeva che le avrei detto di sì. Fu una cosa molto bella».
Dolore «Quando mia madre si è ammalata di una sindrome neurologica rara e spietata per me furono quattro anni di merda. Era la persona a cui volevo più bene al mondo, la vedevo sfiorire e il solo guardarla mi faceva disperare. Era arrivata a pesare 39 chili. Con la tristezza e il cuore rotto, dovevo continuare a far ridere e la scissione era brutale. Durante il giorno giravo Acqua e sapone e al tramonto tornavo da lei. Nuotare tra Natasha Hovey, la Sora Lella, Padre Spinetti e il dolore reale fu un’esperienza tremenda».
Politica «Credo che, a lungo andare, tutto questo grande casino che stiamo vivendo porterà per forza di cose a una nuova Democrazia Cristiana. Ci vorrà tempo, ma sarà la gente a chiederlo, sentirà il bisogno di tornare a mettere dei paletti dal punto di vista etico, istituzionale. Non è che io lo auspichi, dico solo che molto probabilmente succederà».
Religione Credente. «Lo sono, anche se ogni tanto perdo la fede, però quando penso al Padreterno mi sento abbracciato da un qualcosa che non so dire» (a Piero Santonastaso, Il Messaggero, 27/2/2012). Gli piace scattare foto alle nuvole, per lui è una forma di preghiera silenziosa. Ne ha fatte più di tremila, per lui guardare il cielo è come provare a capire l’umore di Dio. «Per me che soffro di agorafobia la nuvola è una specie di coperta che mi dà sicurezza».
Tifo Romanista.
Vizi Sta cercando di smettere di fumare: «Ci sto vicinissimo. Cioè, sto vicinissimo alla decisione di smettere. Ho cominciato a 13 anni, ormai il danno è fatto, però vorrei evitare almeno l’enfisema polmonare» (Enrica Brocardo, 2014, nel 2020 non c’era ancora riuscito).
Curiosità Alto un metro e 74 • Abita in un attico in via Dandolo, sul Gianicolo, a Roma, con una bellissima terrazza da cui si vede tutta la città. «Ma nell’appartamento di sopra la vista è più bella» • Casa in campagna in Sabina • Vicino di Nanni Moretti. «Non ci frequentiamo. Lui è una persona molto riservata e io lo rispetto. Se ci incrociamo al ristorante facciamo due chiacchiere su quello che stiamo facendo o stanno facendo i nostri figli. Tempo pochi minuti e arrivederci» • La sorella Silvia ha sposato Christian De Sica • Bocciato in quarta ginnasio. «Stavo sulle palle alla professoressa di matematica» • «Ti sa dire a memoria la composizione di qualsiasi ritrovato medico» (Nancy Brilli) • «Non sono un depresso, ma ho un lato malinconico, crepuscolare, leopardiano. E non l’ho mai nascosto. Non sopporto quegli attori comici che si fanno vedere sempre sorridenti, con la battuta pronta, e poi magari nel privato sono tutto il contrario. Penso che a un certo punto devi mostrarti per quello che sei davvero. Vede, io non sono un misantropo, ma so bastare a me stesso» • «Guardandosi indietro, che pregio si riconosce? “Ho sempre affrontato il mio lavoro in modo disciplinato. Non ho mai fatto vita mondana e continuo a impormi degli orari. Mi considero un soldato”. È per questo che non ci sono mai stati gossip o paparazzate piccanti sul suo conto? “Su di me non c’è molto da dire. Non frequento i posti in cui si va per farsi vedere. Sto appartato con pochi amici”» (Gloria Satta, Il Messaggero, 24/12/2018) • «Io ho smesso di seguire le facce. Sarei grottesco, sarei patetico, oggi. Guarda che faccia ho io. Non ho più la maschera giusta. Sono stempiato, non sono più quello di allora» (a Masneri) • «Oggi è più difficile trovare i personaggi per strada. Hanno tutti il cellulare in mano, i discorsi sono a brandelli, non si ascoltano le risposte, e forse perché nessuno si guarda più neanche negli occhi» (ad Alessandro Ferrucci, Il Fatto Quotidiano, 22/11/2018).
Titoli di coda «Non resisto, all’idea di un consulto con Verdone, per me lui è sempre quello di “copro fino al delirio schizoide”, la valigia di farmaci di Maledetto il giorno che t’ho incontrato, e gli racconto dell’insonnia che mi perseguita. Gli dico il sonnifero che prendo. “Ma che sei matto!”, dice, come un personaggio di Verdone. “Ma è come buttare una molotov per uccidere un formicaio!” (qui sembra il professore, quando dice “mio figlio Gabriele”). “Tu devi prendere una benzodiazepina leggera, con un’emivita lunga, ecco. Fai così: due gocce di Anseren, la sera, tre ore prima di andare a dormire. E mai alcolici. Gli alcolici non me li prendere, se puoi”. “Poi mi associ due gocce di Laroxil, che ti fa la parte antidepressiva”. Ma io non sono depresso. “Tu sei un pochino depresso, scusa se te lo dico. Se non dormi... Si chiama depressione mascherata”. “Allora me ne prendi due gocce, poi passi a tre dopo una settimana, e poi a quattro”. “Te guarisco io”, dice Verdone, con lo stesso affetto che aveva per i suoi personaggi. “Li ho guariti tutti gli amici miei”. Poi sta zitto, di nuovo. Pausa mostruosa. Il friggizanzare fa un ultimo fzz. Usciamo sul pianerottolo. “Fammi sapere come va, eh. E niente alcolici”. “Il montacarichi no, che ti dà claustrofobia”» (Masneri).