1 dicembre 2020
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Biografia di Mario Martone
Mario Martone, nato a Napoli il 20 novembre 1959 (61 anni) • «Uno dei registi italiani più importanti e poliedrici» (Angela Calvini, Avvenire, 4/1/2019) • «Quarant’anni di carriera fra teatro, cinema e opera lirica» (Enrico Fiore, La Lettura, 17/6/2018) • Quattro David di Donatello. Tre Nastri d’argento. Un Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia • «Aria timida da bravo studente, occhialini tondi, modi garbati, aspetto di saggio distacco» (Anna Bandettini, la Repubblica, 31/7/2011) • Divenne famoso poco più che ventenne, con spettacoli che univano elementi del teatro, del cinema, della musica e delle arti visive come: Tango glaciale (1982), Il desiderio preso per la coda (da Picasso, 1985), Ritorno ad Alphaville (da Godard, 1986) • Nel 1987 è tra i fondatori, assieme a Antonio Neiwiller e Toni Servillo, dei Teatri Uniti, compagnia teatrale simbolo del cosiddetto rinascimento napoletano degli anni Novanta • Tra i suoi film: Morte di un matematico napoletano (1992), Rasoi (1993), L’amore molesto (1995), Teatro di guerra (1998), L’odore del sangue (2004), Noi credevamo (2010), Il giovane favoloso (2014), Capri-Revolution (2018), Il sindaco del rione Sanità (2019), Qui rido io (2020) • Già direttore artistico del Teatro Argentina di Roma (1999-2001). Già direttore artistico del Teatro Stabile di Torino (2007-2017). Già membro del comitato artistico del Teatro Stabile di Roma (2003-2006) • Ha diretto opere liriche al Maggio Fiorentino, all’Opera di Roma, all’Opera Bastille di Parigi e alla Scala di Milano (nel 2017 anche il giorno di Sant’Ambrogio) • Nel 2001 partecipò al documentario collettivo Un altro mondo è possibile, sulla contestazione al G8 di Genova • Nel 2018, per festeggiare i quarant’anni di carriera, ha realizzato un film-flusso di nove ore e mezza assemblando spezzoni di 40 anni di performance. Veniva trasmesso su quattro schermi ai quattro lati di una sala. Gli spettatori, seduti al centro su quaranta sedie girevoli provviste di cuffie, potevano sintonizzarsi su vari canali audio corrispondenti a momenti diversi della pellicola, e crearsi da sé la propria personale visione dell’opera • Ha detto: «L’arte ha sempre avuto e continuerà ad avere un potere rivoluzionario: è più che mai necessaria oggi per contrastare la violenza, gli schematismi, i muri».
Titoli di testa «Seduto al bar, in un caldo pomeriggio romano, pantaloni blu, camicia blu, poggia sul tavolino accanto all’acqua un bel libro sui tanti lavori che ha realizzato a Torino per i 150 anni dell’Unità d’Italia e mostra un sorriso rilassato. “Mi sento già in vacanza” dice “Certo, dovrei prima finire di liberare lo studio, ancora invaso da tutto quello che mi è servito per il film: libri, articoli, documenti di storia che adesso finalmente posso rimettere negli scaffali, dopo tanto tempo”. Il film, naturalmente, è Noi credevamo, sette David, premi e riconoscimenti di pubblico e critica» (Bandettini).
Vita Nato e cresciuto a Napoli, nel quartiere Chiaia. Primo di due figli maschi. «Già quando giocavo con mio fratello al teatro dei soldatini, lui faceva il pubblico» • Suo padre è proprietario di una pellicceria. «Sono un’anima sognante ma con i piedi per terra, e in questo rivedo i miei genitori. Mamma era una donna che amava la cultura e mi ha trasmesso l’amore per il cinema e i libri. Mio padre era un artigiano, un uomo abituato a fare, più che a pensare. Questa commistione per me è stata importante: mi sento una persona che ha a che fare col pensiero, ma che si sa rimboccare le maniche e lavorare» • «Sono stato un bambino malinconico. Ogni tanto mio padre m’interrogava: che hai dentro?» • «L’anno cruciale è stato il ’73: in terza media non riuscivo più a studiare, davanti allo scrittoio per ore, inconcludente. Poi scoppiò il colera, scuola chiusa per un mese, mi ritrovai a fare chilometri in una Napoli meravigliosa e feroce» (a Raffaela Carretta, iO Donna, 5/11/2014) • Studente al liceo classico Umberto. Lui e Toni Servillo passano i pomeriggi alla cineteca di Mario Franco e alla galleria Lucio Amelio, dove arrivano gli artisti internazionali. «Soprattutto ci trovavamo nel Teatro Spazio Libero che era una sorta di Beat 72 di Napoli, cioè dove si faceva l’avanguardia. E dal ‘76, almeno, andavamo a Roma a vedere gli spettacoli. Tornavano a Napoli la notte, in treno per essere a scuola l´indomani. La scuola andava così e così, ma in compenso imparavamo un mucchio di altre cose» • «L’avanguardia teatrale degli anni Settanta fu per tanti giovani una scoperta: era il ribaltamento di quello che pareva scontato. Io andavo a teatro con la scuola, ma quasi sempre gli spettacoli di prosa tradizionale mi annoiavano, mentre a Roma vedevo cose magari per quattro persone che però mi rovesciavano il cuore. Non parliamo poi quando scoprii Carmelo Bene» (Bandettini) • Comincia a fare teatro con un paio di compagni di scuola. Il suo gruppo si chiama I Nobili di rosa, come un’antica moneta alchemica, perché mischiano teatro, cinema, musica e video. «L’alchimia c’entrava: mescolare gli elementi in qualcosa di inaspettato rispetto al punto di partenza è il processo dell’arte». Nel 1979 fonda Falso Movimento, come un film di Wim Wenders, e si dà alla sperimentazione. «A vent’anni già lo circondava l’aura ipercult dell’artista d’avanguardia» (Bandettini) • Nel 1982 va in scena Tango glaciale, il suo spettacolo manifesto, un successo in tre continenti. «Quello spettacolo nacque al Teatro Nuovo di Napoli pieno di puntelli per il terremoto e fu una cosa incredibile, nacque in un rapporto fortissimo con la città oltre che dal mio amore per il cinema, specie per Godard. Poi, come spesso mi è capitato, a un certo punto sento il bisogno di cambiare, di mettere in discussione quello che è sicuro. In Falso Movimento avevamo chiamato a lavorare con noi Antonio Neiwiller e Toni Servillo. Proposi loro di sciogliere ognuno la propria compagnia e creare tutti insieme un organismo nuovo. Nacque Teatri Uniti che è ancora oggi una esperienza unica: c’era sì, il nostro gruppo di base, ma diventarono più frequenti gli attraversamenti dal cinema al teatro e viceversa e gli incontri con altri artisti, Leo De Berardinis, Enzo Moscato con cui feci Rasoi, Fabrizia Ramorino che venne a scrivere Morte di un matematico napoletano, il mio primo film. Sono stati anni meravigliosi».
Amore «Le donne, anche nelle amicizie, sono state fondamentali, senza di loro non avrei fatto niente. In tutte ho amato l’intelligenza: è la cosa che più mi eccita e mi accende, anche eroticamente». Sposato dal 2010 con Ippolita Di Majo, storica dell’arte del Rinascimento e dell’età moderna, poi sua collaboratrice per le ricerche iconografiche, musicali e per la sceneggiatura dei suoi ultimi film. «È la prima donna che ho sposato. Quando l’ho conosciuta avevo 32 anni, lei 20, e per tanto tempo siamo stati solo amici. È un amore nato dalla scoperta travolgente che ciò di cui viviamo, i libri, il teatro, il cinema, fa tutt’uno con la nostra storia. La vita è fatta di prove, paure, irrequietezza: con lei ho trovato me stesso, ho capito che non dovevo averne paura. Non era mai successo. Mi è capitata una fortuna» • Una figlia, Luisa (n. 2003), avuta da una precedente relazione.
Napoli «È difficile per me parlarne perché a Napoli devo tutto e la amo profondamente, le ho dedicato spettacoli teatrali e film e ancora attingo da lì, ma è una città feroce, strana, che ti si può chiudere addosso e improvvisamente aprire. È leopardiana, vive questo senso infelice del nulla e dell’ineluttabilità del tutto ma, allo stesso modo di Leopardi che nel movimento di una pianta mossa dal vento ritrova il senso della vita, Napoli ti riporta, appunto, la vita».
Roma «Tanto per cominciare è nato il Teatro India come spazio dedicato ai nuovi linguaggi. Ricordo che andavo personalmente da chi doveva fare la cabina elettrica, per esempio, perché avevo capito che se passavo per vie amministrative non avrei fatto nulla. Poi però la mia idea di dare al pubblico una visione diversa del teatro fu presa come un’intrusione, il sistema teatrale romano cominciò la tenaglia. A distanza di tempo, credo che già allora il paese cominciasse a cambiare, già soffiava il vento che ha portato alla chiusura degli anni successivi. Quanto a me, nella mia vita ho cambiato molte volte contesti. C’è una frase del Coriolano di Shakespeare che dice: “C’è un mondo altrove, c´è sempre un mondo altrove”. E poi io non credo alle direzioni a vita dei teatri pubblici. Da noi i direttori sono delle maestà e le monarchie non mi piacciono».
Torino «Per dieci anni, dal 2007 al ’17, lei è stato direttore artistico dello Stabile di Torino. Qualche rimpianto? “Rimpianti no, ma Torino mi manca molto. Se mi volto indietro sono orgoglioso di molti spettacoli che abbiamo realizzato, come le Operette morali o La morte di Danton o La serata a Colono, scommesse che non avrei mai immaginato di poter fare e vincere. Sono stati anni bellissimi grazie alle persone con cui ho collaborato e allo Stabile, dove c’è un modo appassionato e serio di lavorare. Molto torinese”» (Alberto Mattioli, La Stampa, 25/2/2019).
Stroncature «Trovo brutte e noiose molte delle cose che fa e supponenti e infondate molte delle cose che dice» (Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera, 13/4/2015).
Curiosità «Mi sono sempre visto brutto» • «Mi piace la carta. Amo comprare quaderni e taccuini» (a la Repubblica, 9/7/1998) • Vive a Roma. «Casa sobria e luminosa, un vecchio edificio con un ascensore piccolissimo, un quartiere dall’aria simpaticamente sgualcita, frequentato da cinesi e magrebini. “In quell’edificio abitano Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, è la nostra Beverly Hills”» (Carretta) • Tiene in casa una scultura di Leopardi di cartapesta presa dal set del Giovane favoloso • Quando portò sullo schermo L’amore molesto, tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, comunicò con lei solo tramite mail • Ad Alain Elkann, che gli chiedeva la differenza tra teatro e cinema, rispose: «Il teatro è diverso perché è quotidiano, ogni giorno si cambia e si può intervenire, invece nel cinema le scene che hai immaginato per mesi nella tua testa, avranno un giorno e un giorno soltanto per poter essere realizzate e poi non si potrà più tornare indietro. Nel cinema c’è qualcosa di fatale».
Titoli di coda «La sala, scavalcata dallo streaming, non rischia di sparire? “No. Il cinema si evolve: dal muto siamo passati al sonoro, dal bianco e nero al colore, gli schermi digitali si sono aggiunti a quelli tradizionali. Ma ci saranno sempre tante persone decise a non rinunciare al piacere della condivisione. La sala non morirà mai”» (Gloria Satta, Il Messaggero, 12/12/2018).