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 2020  dicembre 01 Martedì calendario

Biografia di Daniel Pennac


Daniel Pennac, nato a Casablanca, in Marocco, il 1° dicembre 1944 (76 anni). Scrittore. Il suo vero nome è Daniel Pennacchioni. Esordì con un pamphlet antimilitarista, Le service militaire au service de qui? (1973), e decise di firmarsi con uno pseudonimo per non nuocere al padre, militare in carriera • «Noto per una serie di romanzi di straordinario successo, che hanno per protagonisti Benjamin Malaussène, la sua squinternata famiglia e il quartiere parigino di Belleville, dove si muove una folla pittoresca di immigrati e opera una comunità di artisti» (Treccani) • I libri del ciclo dei Malaussène: Il paradiso degli orchi (1985), La fata carabina (1987), La prosivendola (1989), Signor Malaussène (1995), Signor Malaussène a teatro (1995), Cristiani e Mori (1996), La passione secondo Thérèse (1998), Il caso Malaussène. Mi hanno mentito (2017). Poi, otto romanzi: Les enfants de Yalta (1977), Père Noël (1979), Signori bambini (1997), Ecco la storia (2003), Grazie (2003), Diario di scuola (2007), Storia di un corpo (2012), La legge del sognatore (2020). Tre libri per ragazzi: Abbaiare stanca (1982), L’occhio del lupo (1984), Ernest e Celestine (2012). Tre saggi: Come un romanzo (1992), Gardiens et Passeurs (2000), Mio fratello (2018). Due fumetti: Gli esuberanti (2000) e Un amore esemplare (2015). Una raccolta di racconti: La lunga notte del dottor Galvan (2005) • «Prima ancora di essere uno degli scrittori più letti del mondo, Daniel Pennac è un insegnante, un professore di lettere. Lo si direbbe anche senza saperlo, basta osservare la pazienza con la quale ascolta le domande, la calma con cui si prende il tempo per pensare e, poi, per rispondere, la tendenza a cercare lo sguardo di tutti i presenti quando parla. Addirittura, più che un insegnante Pennac ha l’aura del maestro, uno di quelli pazienti e acuti che capisce sempre chi ha davanti, uno di quelli che cambiano la vita degli allievi che gli passano davanti» (Andrea Coccia, Linkiesta, 16/9/2017) • Ha detto: «I libri sono tentativi. Tentativi di portare un po’ di luce in una stanza buia. Tentativi di rimettere un minimo d’ordine nel casino immane in cui tutto va per la sua strada».
Titoli di testa «È difficile spiegare quanto Daniel Pennacchioni, soprattutto tra Ottanta e Novanta, sia stato importante per milioni di lettori. Difficile perché sembra di parlare di ere geologiche lontanissime, quando le edicole erano ancora vive, le librerie non dovevano affrontare una nemesi chiamata Amazon e – addirittura – era ancora lecito credere che la vita ti desse il tempo e il lusso per a) leggere, b) sognare, c) applicare entrambe le cose alla propria quotidianità» (Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano, 28/11/2019).
Vita Famiglia di origini corse e provenzali. Madre ebrea. Padre ingegnere, una carriera nell’esercito coloniale francese, si porta dietro mogli e figli nei suoi spostamenti in giro per il mondo: Marocco, Indonesia e Africa equatoriale. «Sono nato a Casablanca durante la guerra, il tempo di uno scalo. Mentre mia madre partoriva, mio padre, soldato, sbarcava sulle coste della Provenza. La nostra casa di famiglia si trova a La Colle-sur-Loup, nelle Alpi Marittime, ma abbiamo viaggiato molto seguendo le città di guarnigione, a Savigny-sur-Orge, in Germania, a Gibuti, in Indocina, a Chalons-sur-Marne… Ricordo, un giorno che eravamo a messa con i miei quattro fratelli, di aver ricevuto una sberla da mio padre perché, nonostante i suoi richiami, continuavo a battere i piedi. Quel rumore risuonava, si propagava in tutta la chiesa… Lo sento ancora. Eppure mio padre era un uomo gentile. Le domeniche della mia infanzia sono legate anche al ricordo di mio fratello Bernard, più grande di cinque anni. Né io né lui ricordiamo di avere litigato nemmeno una volta. Eravamo molto uniti» • Daniel è l’ultimo di quattro figli. È dislessico e a scuola va malissimo. «I miei genitori non avevano avuto occasione di fare pratica con i miei fratelli maggiori, la cui carriera scolastica, seppur non eccezionalmente brillante, si era svolta senza intoppi». Lui invece è proprio un disastro: «al limite dell’ebetismo» • «Ogni sera della mia infanzia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l´ultimo della classe, ero il penultimo. Refrattario dapprima all’aritmetica, poi alla matematica, profondamente disortografico, poco incline alla memorizzazione delle date e alla localizzazione dei luoghi geografici, inadatto all’apprendimento delle lingue straniere, ritenuto pigro (lezioni non studiate, compiti non fatti), portavo a casa risultati pessimi che non erano riscattati né dalla musica, né dallo sport né peraltro da alcuna attività parascolastica. “Capisci? Capisci o no quello che ti spiego?” Non capivo» • In famiglia lo prendono in giro: dicono che in prima elementare è riuscito a imparare solo la lettera a. Il padre la butta sul ridere: «Niente panico, tra ventisei anni padroneggerà perfettamente l’alfabeto» • «Qual è il primo libro che ricorda di avere letto e amato?Il brutto anatroccolo di Andersen mi aveva emozionato in modo particolare, forse perché da piccolo mi capitava di non sentirmi all’altezza”» (Farian Sabahi, iO Donna, 19/3/2015) • «Fu salvato a fine liceo da un professore, che ne intuì la propensione alla scrittura – se non proprio il talento – e gli disse: “Tu con me non farai più temi, ma scriverai un romanzo a puntate”» (Scanzi) • Ripete due volte l’ultimo anno delle superiori. Il padre: «Non preoccuparti, anche per la maturità alla fine si acquisiscono degli automatismi...». E anche quando si laurea in lettere, nel 1968, all’Università di Nizza, scherza: «Ti ci è voluta una rivoluzione per la laurea, dobbiamo temere una guerra mondiale per il dottorato?» • Ma Daniel, invece di continuare gli studi, trova lavoro come insegnante. «Io non sono mai stato uno scrittore, ma un professore. Ho insegnato per trent’anni – dal 1969 al 1999 – e il mio lavoro era stare in classe con gli alunni. Non ho iniziato a scrivere per soldi – il mio stipendio mi consentiva una vita più che decorosa – ma per una necessità psicologica, forse patologica. Non ho mai scritto nemmeno per la fama, quella semplicemente è arrivata, e ha sorpreso me per primo» (a Silvia Nucini, Vanity Fair, 18/10/2018) • «Esordisce con un pamphlet ferocissimo contro l’esercito, da lui ritenuto non meno che un mefitico microcosmo tribale, tanto per rimarcare la fascinazione che gli aveva provocato l’impronta familiare. Scrive due libri di fantascienza con Tudor Eliad, ma non se li compra neanche da solo. Prova allora con la letteratura per bambini e va un po’ meglio: un libro in particolare, Abbaiare stanca, rimane una delle maniere migliori per innamorarsi dei cani e capire come si viva accanto a loro. Nel 1985 scommette con alcuni amici, assai scettici sulla sua capacità di scrivere un giallo, che con quel genere lì avrà successo. Ha ragione lui, perché Il paradiso degli orchi fa il botto. Erano anni – chissà perché – adatti alle saghe, sorta di serie tivù cartacee ante litteram: basta pensare, tra i tanti, al Pepe Carvalho di Manuel Vázquez Montalbán e al Fabio Montale di Jean Claude Izzo. Il paradiso degli orchi apre la saga Malaussène, che regala un successo irripetibile a Pennac. Più volte l’autore ha raccontato di avere attinto non poco da Stefano Benni: si vede e si sente. La stessa ironia buona, la stessa capacità di inventare mondi impossibili e per questo possibilissimi. Il Pennac della seconda metà degli Ottanta è come condannato a non sbagliare mai: lo attestano La fata carabina e La prosivendola, che completano la trilogia perfetta (nel 1995 uscirà poi Signor Malaussène). La famiglia multietnica del povero Benjamin Malaussène, professione “capro espiatorio” perché la sua dote migliore è indurre tutti a compatirlo, entra nel cuore di tutti, al punto che un pellegrinaggio a Belleville – il quartiere parigino dove i Malaussène vivono – nei Novanta era obbligatorio o giù di lì» (Scanzi) • Lui racconta: «La storia esilarante di Malaussène parte dalla mia fascinazione intellettuale, terribilmente seria, per l’opera del filosofo René Girard, che nella sua teoria del capro espiatorio analizza storicamente i sistemi della persecuzione e dell’attribuzione della colpa e il riconoscimento in certe società di vittime sacrificali. Ho immaginato un personaggio che fosse salariato per farsi insultare e strapazzare al posto degli altri, e ne ho parlato con Girard che ha trovato la mia idea divertentissima. Siccome abito a Belleville dal 1969 e conosco bene il quartiere, nei libri ho messo tanto del milieu: le mie strade, i miei amici, la mia vita. Per Malaussène ho inventato una scrittura metaforica, molto classica ma anche popolare e piena di argot» • «Mi sono reso conto di essere diventato famoso quando la gente ha iniziato a salutarmi per strada: “Bonjour Monsieur Pennac”» (alla Nucini) • «Perché ha avuto questo straordinario successo in Italia?
 “Per una serie di motivi. Primo fra tutti Stefano Benni che mi ha presentato al meglio. Poi grazie alle traduzioni di Yasmina Mélaouah che, come tutti i grandi traduttori, è anche una brava scrittrice. E infine, credo, per questa idea di famiglia che si porta con sé Malaussène”» (Nucini) • «Nel 1994 Alessandro Baricco era già narciso (giustamente) e non ancora renziano (per fortuna). Conduceva un programma su Rai3, Pickwick, dove aveva il potere di farti innamorare di tutto quello che piaceva a lui. Lo fece anche con Pennac, e che Dio lo benedica» (Scanzi) • «“Ogni mio libro mi ha guarito: scrivere è energetico e totalizzante”.
Ma anche faticoso, o no? “Faticosissimo. Mia moglie Minne mi dice sempre: quei libri ti manderanno all’ospedale. Io scrivo senza regole, quando mi pare. Nessuno per fortuna mi fa pressioni per pubblicare, così ho la libertà di finire i libri quando lo dico io”. Quand’è che un libro è finito? “Non certo quando hai scritto la parola ‘fine’. Un libro è finito quando hai esaurito tutte le tematiche di cui ti volevi occupare: politiche, affettive, stilistiche. Un libro è finito quando tu hai finito con lui”» (Nucini).
Politica «L’Unione Sovietica era appena crollata, e la sinistra italiana si ritrovava a domandarsi quale diamine fosse la sua identità, ovvero, come si diceva allora, il suo grande album di famiglia. Dal punto di vista strettamente politico, si salvavano solo i fuoriusciti, gli esclusi: Gramsci e Guevara, poco altro. Ma, dato che a destra regnava già Silvio (identificato come una sorta di vuoto pneumatico intellettuale), e dato che molto del passato non poteva più essere utilizzato come modello, né pratico né esplicito, nacque una smania identitaria che andava a pescare da lidi curiosi. Dalla commedia all’italiana e dal teatro. Dal Piccolo Principe o da La casa degli spiriti. Dal Messico di Cacucci o da Francesco De Gregori unplugged. Dai vhs di Easy Rider e del Grande Freddo di Veltroni, e dal Gabbiano Jonathan Livingston, e dalla Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare. E c’era il giallo di provincia, c’era il bar sport, l’Emilia Romagna. E Caracas. Così, per la media borghesia italiana, anche i romanzi di Daniel Pennac – un po’ come i primi Camilleri, o come la nascita del Benigni d’autore – non rappresentavano soltanto dei libri piacevolissimi, ironici, fantasiosi e garbati (questo erano, e sono), ma una questione di appartenenza, una speranza, e un manifesto. Si trattava, in sostanza, della domanda: “Chi siamo?”, e la risposta solare diceva: “Lettori”. Oppure: “Fruitori culturali”. Ma vasti. Lettori contro ciò che sembrava un attacco al passato, una tabula rasa di valori, di principi, di cinquant’anni di storia d’Italia: l’uomo nuovo, la seconda Repubblica… Però lettori leggeri, minimalisti, ironici, d’intrattenimento. Non era più ai grandi ideologi che si guardava, ma ai narratori, ai giallisti, ai comici. Ecco, sì, questa era la nostra cultura. Questa la nostra identità» (Errico Buonanno, Studio, 4/5/2017).
Amore Sposato due volte, la prima con una Irene, la seconda con una Minne. La prima volta che si incontrarono lui le lesse Il visconte dimezzato di Calvino. Una figlia: Véronique. «Anche a Véronique piace leggermi romanzi ed è fenomenale per resistenza, molto più di me. Quando ci spostiamo in automobile per la Francia uno di noi guida e l’altro legge a voce alta, e lei può farlo per settecento chilometri o di più. Così identifichiamo i nostri viaggi con certi romanzi, per esempio L’amore al tempo del colera di Garcìa Marquez per noi equivale alla distanza tra Parigi e Biarritz» (a Leonetta Bentivoglio, la Repubblica, 31/1/2010).
Dolore Dopo la morte del fratello Bernard, nel 2007, non ha scritto per anni. «Mi sono lasciato andare. A Parigi ho rischiato più volte di finire sotto una macchina e mi sono fatto prendere a botte nella metropolitana, sono caduto da una scarpata, ho fatto un testacoda e sono finito con il muso dell’auto sopra un burrone».
Decalogo I dieci diritti del lettore secondo Pennac: 1) Il diritto di non leggere; 2) Il diritto di saltare le pagine; 3) Il diritto di non finire il libro; 4) Il diritto di rileggere; 5) Il diritto di leggere qualsiasi cosa; 6) Il diritto al bovarismo, cioè a farsi trascinare dalla storia; 7) Il diritto a leggere ovunque; 8) Il diritto di spizzicare; 9) Il diritto di leggere ad alta voce; 10) Il diritto di tacere (dal suo Come un romanzo, 1992).
Curiosità Casa a Belleville, in una corte tranquilla. «Sembra un po’ di stare in campagna». Studio con annesso cucinino, proprio sopra un fornaio, nell’arrondissement delle Grandes Écoles, Rive Gauche. «Non lontano da casa, ma abbastanza lontano per poter tenere separata la vita dal lavoro» • Scrive con un Mac • Da giovane, ha lavorato come tassista • Detesta i cellulari. «Se sono con qualcuno a cui suona il cellulare, e si mette al telefono, me ne vado» • Gli piace Fellini • Autori italiani preferiti: Calvino, Svevo, Gadda • Legge molti fumetti • «Lei è sempre stato pubblicato da Feltrinelli. Che ricordo conserva di Inge? “Quando ho saputo della sua morte, ho pianto. Lei era pura energia, e mi è sembrato strano che l’energia potesse finire, morire. Nella mia testa e nelle mie orecchie rimane il suono della sua risata. Nei miei ricordi quella sensazione bellissima di stupore che aveva sempre, anche dopo aver vissuto così tanto”» (Nucini) • Ricorda sempre una frase di suo padre: «Invecchiare, che orrore! Ma è l’unico modo che ho trovato per non morire giovane» • «Nessuno legge più libri? Lo sento ripetere da 50 anni eppure siamo ancora qui».
Titoli di coda «Il mondo di Benjamin Malaussène era – e resta – un calderone di umanità varia e mai avariata, dove persino gli omicidi hanno un che di gentile. Madri sempre incinte, protagonisti che non invecchiano, sorelle ora infermiere ora fotografe e ora (forse) veggenti. Povere bimbe chiamate “Verdun” in onore di vecchietti reduci dall’omonima battaglia. Cani buffi e pestilenziali. Risate, sorprese, sogni. Una meraviglia perdurante e immortale. Grazie di tutto, Daniel. E tanti auguri» (Scanzi).