1 novembre 2020
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Biografia di Tim Robbins
Tim Robbins, nato a West Covina, in California, il 16 ottobre 1958 (62 anni). Attore. Regista. Sceneggiatore • Il suo nome completo è Timothy Francis • Tra i suoi film: Top Gun (Tony Scott, 1986), Bull Durham - Un gioco a tre mani (Ron Shelton, 1988), Jungle Fever (Spike Lee, 1991), I protagonisti (Robert Altman, 1991), America oggi (Robert Altman, 1993), Le ali della libertà (Frank Darabont, 1994), Prêt-à-Porter (Robert Altman, 1994), Mister Hula Hoop (Joel e Ethan Coen, 1994), Mission to Mars (Brian De Palma, 2000), Alta fedeltà (Stephen Frears, 2000), Mystic River (Clint Eastwood, 2003), La guerra dei mondi (Steven Spielberg, 2005), Lanterna Verde (Martin Campbell, 2011) e Perfect Day (Todd Haynes, 2019) • È il regista di Dead Man Walking – Condannato a morte (1995), in cui recita Susan Sarandon, sua compagna di allora • Una stella sulla Walk of Fame di Hollywood. Un premio Oscar. Tre Golden Globe. Un premio come miglior attore al Festival Cannes • «Interprete puntuale e incisivo, in grado di misurarsi con ruoli eterogenei e di passare dalla commedia al dramma, ha improntato la propria attività registica a un marcato impegno civile e politico» (Treccani) • «Profonde radici nel teatro» (Roberta Gialotti, il manifesto, 19/6/2015) • «Raffinato e complesso sul set» (Paolo Giordano, il Giornale, 26/5/2011) • Ha detto: «Sono l’attore ideale per tipi in crisi, uomini la cui vita d’un tratto va a rotoli».
Titoli di testa «Alto quasi due metri, camicia blu e pantaloni neri, atletico, sorridente, giovane e si capisce come l’astuta compagna Susan Sarandon di qualche anno più matura, se lo tenga stretto: attraente, bravo, simpatico, e persino democratico, figura d’artista ormai obsoleta persino negli Stati Uniti» (Natalia Aspesi, inviata a Cannes, la Repubblica, 13/5/1994)
Vita «Da dove le è venuto questo amore per il teatro? “Leggendo Peter Brook, Il teatro e il suo spazio, dall’incontro con George Bigot del Theatre du Soleil di Arianne Mnouchkine, e prima con Andrei Serban, che vidi a undici anni. Ma soprattutto crescendo nel Greenwich Village degli anni Sessanta e Settanta. Periodo formidabile. Ci voglio fare un film» (Anna Bandettini, la Repubblica, 7/4/2014) • Tim è il più giovane dei quattro figli di Gilbert Lee e Mary Cecilia Robbins. Suo padre è il cantante degli Highwaymen, un gruppo folk. Sua madre è attrice. I suoi fratelli si chiamano David, Adele e Giselle. Da quando Tim è molto piccolo, anche se lui è nato in California, i Robbins vivono nel Greenwich Village, il quartiere degli artisti di New York • «Ero adolescente, con un papà folksinger c’era sempre musica intorno. Frequentavamo Tom Paxton, Dave Van Ronk, andavo sempre al Gaslight, dove aveva iniziato anche Dylan» (alla Aspesi) • «A dieci anni ci ho visto suonare Sonny Terry e Brownie McGhee, John Hurt... La mattina frequentavo la scuola cattolica di New York, quella dei figli degli immigrati italiani e irlandesi, tutti omofobi e razzisti, la sera vivevo l’ambiente della folk music di mio padre, liberale, tollerante, progressista. E poi c’era quello di mia sorella, degli artisti hippy, la droga, la nuova musica, Lou Reed, Talking Heads. Era come vivere tre vite diverse. Fu lì che vidi i Cockettes, il gruppo di attori gay di Hibiscus, cioè George Harris, l’attore biondo che metteva fiori nei cannoni nella celeberrima foto del Flower Power, la storica marcia pacifista sul Pentagono del 1967. Sua sorella, attrice, fu la mia prima ragazza. E così iniziò anche il mio amore per il teatro» (Bandettini) • «A 12 anni entra in una compagnia teatrale, “Theatre for the New City”, e vi rimane per sette anni. Nel frattempo frequenta la scuola di arte drammatica alla Stuyvesant High School. Dopo un breve periodo alla State University di Plattsturgh, si trasferisce a Los Angeles dove si iscrive alla UCLA. Per mantenersi lavora come cameriere allo Hillcrest Country Club. Dopo la laurea a pieni voti, nell’81 è co-fondatore della Actor’s Gang, compagnia teatrale sperimentale dove può esprimere il proprio pensiero democratico e l’impegno politico radicale con grande successo» (Trovacinema, la Repubblica, 12/2/2004) • «Nel 1984, anno delle Olimpiadi a Los Angeles (culmine del reaganismo, con l’Urss e tutto il blocco sovietico che boicottano i giochi) i nostri ragazzi restano affascinati da una compagnia teatrale francese, il Théâtre du Soleil, che ha portato in America uno Shakespeare rivisitato dall’aria di libertà del maggio ‘68 parigino» (Enrico Deaglio, il venerdì, 23/6/2016) • Nel frattempo, lavora anche per il grande e il piccolo schermo. Nel 1983 ottiene qualche ruolo televisivo e piccole comparse al cinema. Alla fine degli anni Novanta gira Erik il vichingo. Dice: «Penso che il mondo abbia bisogno di un buon film sui vichinghi». È un flop clamoroso • Il primo grande successo arriva nel 1988 con Bill Durham – Gioco a tre mani. Dopo Mister Hula Hoop dei fratelli Coen, con I Protagonisti di Robert Altman, vince il premio al miglior attore del Festival di Cannes. Oramai è famoso ma il mondo dei divi di Hollywood non fa per lui • «Trent’anni fa ha fondato in un teatro da 90 posti a Los Angeles, la Actors’ Gang, e non l’ha mai lasciata: fa regie, organizza laboratori, chiama a collaborare amici-colleghi (John Cusack, Helen Hunt, Kate Mulligan, Jackson Browne, David Crosby) fa spettacoli nelle carceri, nelle scuole, per i bambini (sua una edizione della Dodicesima notte con i supereroi dei fumetti). “Il teatro - dichiara - è un modo per sopravvivere a Los Angeles”. Che vuol dire? “Per vivere e lavorare a Hollywood sei costretto a fare un mucchio di compromessi. Io ci sto perché mio figlio fa lì il college e io, dopo la separazione, volevo stare vicino a lui. E poi bisogna guardare al lato positivo: se non fossi stato a Hollywood non sarei stato amico di Robert Altman, Harry Belafonte, Paul Newman, persone che mi hanno insegnato tantissimo. Ma il business è un’altra cosa. Nessuno rischia denaro, se hai avuto successo con un personaggio ti propongono sempre quello. Se vuoi fare film con idee nuove hai solo ostacoli, ti obbligano a prendere solo attori famosi”. E il teatro? “Il teatro è fare l’artista in modo onesto, il luogo dove ricaricarmi, ritrovare energia, motivazioni, contenuti. Dopo due serie tv, fare Shakespeare è come tornare a scuola. Quando ho cominciato col cinema ho preteso dalla mia agenzia di tenermi liberi sei mesi per fare teatro. Mi prendevano per matto: voleva dire rinunciare a scritture, a soldi. A Hollywood se fai troppo teatro, significa che la carriera nel cinema non sta andando troppo bene”. E lei che dice? “Sono felice della mia carriera. Ma se porti in giro uno spettacolo come 1984 da Orwell come abbiamo fatto noi, vedi che il teatro più del cinema tocca nel profondo le emozioni e l’intelletto delle persone. E io ho capito che è più importante illuminare di verità 400 persone che dire bugie a milioni”» (Bandettini).
Amore Per ventitré anni è stato assieme a Susan Sarandon, anche lei attrice, anche lei progressista, anche lei cresciuta con un’istruzione cattolica, ma dodici anni più vecchia di lui. Si conobbero nel 1986 sul set di Bull Durham, dove lui interpretava il battitore di una squadra di baseball e lei una sua ammiratrice. «Ti conviene: tutti quelli che sono venuti a letto con me hanno migliorato il loro rendimento» • Due figli maschi, John Henry (n. 1989) e Miles Gutrhie (n. 1992). Con loro viveva anche Eva (n. 1985), figlia della Sarandon e di Franco Amurri • Nel 2009, Susan, ormai 63enne, lo ha mollato per mettersi con un giovane sceneggiatore, poi con un finanziere trent’anni più giovane di lei.
Prole «I suoi figli stanno seguendo con successo le vostre orme. “Ne sono super-fiero. Jack è un filmmaker e io sto producendo i suoi film. Ha talento e senso dell’umorismo. Voglio essere il suo producer anche perché col suo primo lavoro, nel giro di un anno, mi ha già ripagato di tutto! (ride)”. E Miles, il più giovane? “Recita: in X-Files è il figlio di Anderson e Duchovny. E presto sarà in tour con la sua band. Mia figlia Eva, invece, scrive questo bellissimo blog Happily Eva After, sull’essere madre. Ha due bambini magnifici, sono un nonno felice”» (Alessandra Venezia, iO Donna, 10/3/2018).
Impegno «L’arte non può avere solo lo scopo di intrattenere, di divertire, secondo me ha la forza di galvanizzare il pensiero e di provocare l’azione» • Si è battuto, tra le altre cose, per gli haitiani sieropositivi, per il riscatto dei carcerati, contro il disagio sociale, contro la guerra in Iraq, per l’ambiente, contro Donald Trump. Ha realizzato uno spettacolo in cui dodici attori di varie nazionalità, tutti migranti o figli di migranti, raccontano le tragedie delle migrazioni dal 1865 a oggi. «È difficile cambiare le cose a livello macro, ma puoi lasciare un segno lavorando sui micro-livelli. Esperienze così ti danno speranza per il futuro. Vedi cambiare le persone».
Curiosità Alto 1 metro e 96. È l’attore più alto ad aver mai vinto un Oscar • Film preferito: I sette samurai di Akira Kurosawa • «Vive a Venice e a volte lo vedi girare in bicicletta sulla spiaggia, con una ragazza sulla canna. Sempre sorridente» (Venezia) • Ha un complesso musicale, la Rogues Gallery Band. «Suona un robusto rockaccio alla Springsteen e Steve Earle» (Giordano) • Appassionato di hockey. Fu buttato fuori dalla squadra del liceo perché troppo falloso. Si considera il più grande tifoso al mondo dei New York Rangers • Segue anche il baseball e tiene per i New York Mets • Da ragazzo non ha giocato con l’hula hoop, gli pareva una sciocchezza. «Quel maledetto cerchio mi ha inflitto ore di umiliazioni sotto lo sguardo ironico della troupe e le minacce dei Coen: se non ce la fai dovremo ricorrere a una controfigura» • Iscritto ai Verdi americani. Una volta, a Roma, chiese di essere portato in giro con un auto a idrogeno perché non voleva inquinare • I nipoti non lo chiamano nonno, ma «Papi T» • L’11 settembre 2001 era a New York con Susan Sarandon e i figli. Cercarono di prendere un aereo per Los Angeles, ma tutti i voli erano sospesi. Allora, la mattina del 12 settembre, decisero di andarci in automobile. Impiegarono 56 ore • Grande ammiratore di Dario Fo, conserva una lettera che gli ha scritto lui. «È una delle cose più preziose che possegga. Morte accidentale di un anarchico mi ha fatto capire che si può scrivere di problemi complessi e seri senza rinunciare al sense of humour. Dario prese un caso reale e lo trasformò in farsa» • «Qual è lo stato dell’arte oggi in America? “Tragico. Tutta la produzione televisiva un tempo era in mano a 500 persone e ora a 12. E fanno a gara a proporre al pubblico il peggio della nostra natura: violenza, sopraffazione, razzismo. Il cinema ha perso coraggio e funzione: andarci è diventato una scusa per poter controllare la mail e mandare messaggi”. C’è qualcosa che salverebbe? “Jon Stewart, il suo show televisivo è vero teatro libero”» (Deaglio) • Rimpiange la Manhattan dei suoi tempi. «New York è una città per ricchi, i giovani se ne vanno. Oggi New Orleans è molto più vivace, piena di artisti, musicisti che invece di suonare in strada per i turisti When the saints go marching in fanno un jazz avanzatissimo. Rivedo lì lo stesso fermento creativo che c’era al Greenwich. Perché non sono io a essere ancora legato a quel momento, è che lì nacquero cose ancora vive» • «Qual è un sogno artistico che vorrebbe realizzare? “Una messinscena della Commedia dell’Arte che parli dell’oggi”. Perché? “Perché i vostri Arlecchino, Brighella, Pantalone raccontavano alle persone semplici le loro storie, prendendo di mira e sbeffeggiando i potenti. Erano spettacoli coraggiosi che si facevano per strada e non solo nei ricchi palazzi dell’epoca”. Ha mai pensato di scendere in politica? “No, perché sarei costretto a dei compromessi. Preferisco il teatro, mi sento più libero”» (Emilia Costantini, Corriere della Sera, 7/11/2018).
Titoli di coda «Non ho mai capito perché gli Oscar non premino mai attori comici: Eddie Murphy lo avrebbe meritato sicuramente» (a Angiola Codacci-Pisanelli, L’Espresso, 16/3/2006).