Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  novembre 01 Domenica calendario

Biografia di Eugenio Fascetti


Eugenio Fascetti, nato a Viareggio, in provincia di Lucca, il 23 ottobre 1938 (82 anni). Calciatore. Allenatore. Commentatore sportivo • «Genio e sregolatezza, tanto per buttarla sul luogo comune» (Marco Tarozzi, Calcio 2000, dicembre 2002) • «Uno dei personaggi più amati del calcio italiano, forse perché dice sempre quello che pensa. Senza ipocrisia» (Enrico Salvadori, La Nazione, 22/10/2018) • «Burbero, sincero, ruvido, icastico, sempre fedele alle sue idee. Sempre fuori dal coro» (Xavier Jacobelli, Corriere dello Sport, 24/11/2017) • Già centrocampista del Bologna, della Juventus, del Messina, della Lazio, di nuovo del Messina, del Savona, del Lecco, infine del Viareggio. Uno scudetto (con la Juventus nel 1961, anche se in realtà lui giocò solo due partite). Diventato allenatore, ottenne cinque promozioni in serie A: Lecce 1985, Lazio 1988, Torino 1990, Verona 1991, Bari 1997. Allenò anche Avellino, Lucchese, Torino, Fiorentina e Como • Grande mito per i tifosi della Lazio perché, nel 1986-1987, anche se la squadra, coinvolta nello scandalo Totonero-bis, partiva con nove punti di penalizzazione, riuscì a salvarla per un soffio dalla retrocessione in serie C • Fu lui a far esordire in serie A giovani di talento, tra cui Antonio Conte e Antonio Cassano • «Un maestro degli anni Ottanta» (Nicola Binda, La Gazzetta dello Sport 4/2/2016) • «Uno con i coglioni, un uomo vero, un raro caso di fascista portato in palmo di mano dai comunisti» (Antonio Pennacchi) • «Con Fascetti nessun giocatore può dirsi sicuro di andare in campo: solo la domenica, nello spogliatoio, conosciamo la formazione» (Gianluca Zambrotta) • «È capace di far giocare bene a calcio anche i paracarri» (Enrico Arcelli, suo preparatore atletico al Varese) • «La Lazio gli deve davvero tanto, forse tutto. È stato capace di essere amato a Bari e a Lecce, che portò in serie A per la prima volta. Un viaggio in Ungheria negli anni Cinquanta gli tolse sul nascere ogni dubbio, la sinistra non era fatta per lui. Ha inventato la teoria del casino organizzato, e un termine che, a suo dire, gli garba molto è “scorbutico”. Ecco, Eugenio Fascetti è un tipo scorbutico. Da sempre» (Marco Spiridigliozzi, La Verità, 19/8/2018) • Lui ha detto: «Si, è vero, sono un rompiscatole. Se è per quello mi considero anche un anarchico» • «Lo sa perché non ho mai avuto un’occasione importante da allenatore pur avendo ottenuto grandi risultati? Perché non ho mai accettato compromessi. Sono sempre rimasto fedele a me stesso».
Titoli di testa Ideò i suoi schemi guardando Benito Garozzo, campione di bridge, giocare a carte in un circolo di Viareggio. «L’idea è semplice: creare un casino organizzato, una squadra senza punti di riferimento per gli avversari, un gioco basato sull’imprevedibilità e la sorpresa. La squadra ideale è quella camaleontica. Che sa adattarsi a ogni tipo di partita. Quindi cerco giocatori che sappiano adattarsi in ogni parte del campo, che non abbiano schemi fissi. A volte ci troviamo con il terzino che fa l’attaccante. Ecco spiegato come mai nella mia squadra non esiste un goleador. Voglio un contropiede di massa».
Vita «La mia Versilia era qualcosa di magico. A scuola andavo poco. Per carità, la mattina partivo all’ora giusta, ma attraversando la pineta trovavo spesso qualcuno che giocava a pallone. E allora, i libri finivano appoggiati a un pino» • «Non mi piaceva andare a catechismo, né alla messa, ma se non andavo il mitico parroco don Bruno non mi faceva giocare nella squadretta dell’oratorio. La vera scuola calcistica della mia vita. Sembra ancora di vederlo con la sua tonaca nera impolverata e l’indice a fare “no”, “no” davanti al suo viso un po’ risentito, ma avevo un asso nella manica, ero bravino, e con me la squadra era forte. Così con Don Bruno arrivammo a un compromesso: io sarei andato a messa e al catechismo, in cambio la squadra avrebbe giocato con una maglia nero–azzurra, quella della mia squadra del cuore l’Inter» • «Una volta con alcuni amici sfidammo Julinho sulla spiaggia. Sì, il campione della Fiorentina. Dopo un gol subito prese il pallone e andò via. Ma la mattina dopo ritornò» • «Sulla spiaggia imparavi la tecnica. I rimbalzi sono imprevedibili. Ora, invece, nelle scuole calcio si insegnano subito la zona e il pressing. Eppure il calcio è semplice: dribbli un avversario e sei in superiorità numerica» • Tifoso dell’Inter. «Da bambino mi voleva il Viareggio ma ho scelto il Pisa. Perché aveva i colori nerazzurri» • «Bologna. Estate del ’56: Eugenio ha diciotto anni e tocca il cielo con un dito. Gli si spalancano davanti le porte della Serie A: “Era la prima grande occasione della mia carriera. In quella squadra c’erano Pavinato, Capra, Pivatelli, Pascutti, c’era il nucleo di quella che poi divenne la squadra dell’ultimo scudetto. Giocavo ala, mezz’ala, mediano”» (Tarozzi) • Lo chiamano «il Marlon della 2ª B». «Ero ancora al liceo: 2ª B. Mi piaceva la matematica, se incontro qualche frase latina, provo a tradurla. Evitavo la filosofia: il prof aveva idee politiche diverse dalle mie» • Lo chiamano alla Juventus, ci si trova bene, ma durante tutta la stagione disputa solo due partite. «Forse andare a Torino fu uno sbaglio. Voglio dire, quella era una squadra che aveva come mezze ali Boniperti e Sivori, non so se mi spiego. E a quei tempi mica c’erano le tre sostituzioni come oggi, o il calendario fitto di appuntamenti che incombono, mica esisteva il concetto di turn-over. Insomma, giocai poco o niente» • Va a Messina. «E lì soffrii due volte. Non volevo andarci e alla fine non volevo ripartire. Messina è bellissima» • Tenta di nuovo il grande calcio con la Lazio, gioca dodici partite senza segnare mai. «Esperienza dimenticabile. E certamente per causa mia. C’erano in ballo questioni personali, problemi miei fuori dal campo. Non c’ero con la testa, andò male» • «Si dice all’epoca: un talento inespresso, uno che ha i numeri ma non una strada precisa da seguire» (Tarozzi). Gioca per il Savona, il Lecco, il Viareggio. Quindi cala il sipario sul calcio giocato • «Avevo già capito che avrei allenato. Mi ritrovai a Latina. Quella è stata una parentesi importantissima della mia vita da allenatore. Allenavo la Fulgorcavi, a Borgo Piave, nel centro sportivo di una fabbrica. C’era tutto, attrezzature d’avanguardia. Ma anche disciplina, ordine. E c’erano tanti giovani» (a Spiridigliozzi) • La Fulgorcavi è un’azienda. Lui è assunto come impiegato nel reparto produzione. «Accettai e non me ne sono mai pentito. Anzi, è un’esperienza che consiglio a tutti. Partire dal basso fa bene, nel nostro mestiere un po’ di marciapiede aiuta a crescere. Su quei campi mi sono divertito». «Imparai a gestire un gruppo, a capire le diverse personalità dei ragazzi. Furono anni di marciapiede, anni formativi. Poi, finito di allenare, c’era tutto il litorale, che è molto bello, a sud di Roma. Ci si ritrovava spesso ad Anzio, al ristorante del papà di un giocatore, il signor Alceste, un grande personaggio, persona di altri tempi. Quante belle chiacchierate di calcio. Il figliolo Gino era bravino, ed erano tutti tifosi incalliti della Lazio. Li ritrovai qualche anno dopo». Eugenio porta la Fulgorcavi alla serie D. Poi prende il patentino da allenatore a Coverciano, si diploma con voti altissimi e inizia a fare sul serio • Comincia dal Varese. Sceglie il settore giovanile, poi lo promuovono alla prima squadra. Allena i suoi ragazzi su una collina alta circa ottanta metri, soprannominata Golgota. Li fa correre su e giù per centoquaranta volte, fino a venticinque scatti, al massimo dello sforzo, anche con i pesi. «Non si tratta di un’idea mia. L’ho copiata dal tecnico del Celtic» • «Mi vanto anche di aver portato nel calcio insieme al professor Arcelli metodologie di allenamento per quei tempi rivoluzionarie» • Enrico Arcelli, suo preparatore atletico: «Abbiamo scoperto che l’allenamento in salita è importantissimo. Il giocatore durante l’allenamento atletico deve produrre molto acido lattico per abituarsi a smaltirlo in fretta durante la partita. L’acido lattico non permette al sistema nervoso centrale di reagire al meglio. Da qui i riflessi rallentati e una concentrazione insufficiente» • Dice: «Ragazzi, il contropiede paga sempre. Se poi volete chiamarlo ripartenza, fate pure. Nel calcio si può dare un po’ di spettacolo in più, ma quello spettacolo fine a se stesso. E siccome vince chi fa più gol, io preferisco vincere e giocare male, che perdere e giocar bene. Il bello di questo sport sta proprio nel fatto che una squadra di serie C può battere quella campione d’Italia» • Nel 1980 porta il Varese in B. «Il calcio sta cambiando e cambiano i metodi di allenamento. Il giovane è più generoso. Quando tocca con mano i risultati, dà tutto. Per questo non molliamo mai. Il miracolo-Varese si spiega con tre anni di lavoro duro. Perché con i ragazzini si possono applicare nuove teorie, con quelli affermati invece è impossibile. È la vita» • Alla vigilia del Mondiale di Spagna 1982 critica apertamente il modulo di gioco di Enzo Bearzot: «Mi vergogno di come Bearzot fa giocare l’Italia». Quando poi l’Italia vince la coppa del mondo, la moglie ha un mancamento: «Mio marito non lavorerà più». Il 23 luglio, quando il torneo è finito già da due settimane, viene deferito alla procura federale e squalificato. «Avrei preferito essere deferito subito e non dopo la conquista del Mundial. Io non ho cambiato opinione, resto della mia idea. Anche se mi rendo conto di aver sbagliato nella forma» • «Ho paura delle persone che vanno d’accordo con tutti e io sono uno che le cose non le manda a dire. Ma al mattino mi guardo allo specchio con piacere. Anche le polemiche ci vogliono, movimentano la vita» • «Nel calcio è necessario, se si vogliono raggiungere certi traguardi. Non mi faccio certo venire l’infarto tenendo dentro le mie amarezze e le mie rabbie. Sputo tutto fuori e l’infarto lo faccio venire agli altri» • «E così è nato il personaggio del Fascetti polemico e bastian contrario, quel tipo di toscano poco accomodante, un personaggio che lo ha perseguitato e limitato nonostante ci fosse da parlare di un allenatore molto avanti rispetto ai suoi tempi» (Stefano Olivari, Guerin Sportivo, 23/10/2018).
Politica «Digressione. Il calcio l’ha salvata dal comunismo? “Mamma mia. Nel dopoguerra, anche nel pallone serpeggiava una deriva socialista, definiamola così. Poi andammo per delle amichevoli in Ungheria. Era il 1956. A sentir parlare certi santoni sembrava che di là ci fosse il paradiso terrestre, ma io tutto ’sto benessere mica lo vidi. Ricordo solo fame, miseria e rovine. Come arrivammo all’aeroporto, senza chiederci permesso e con modi che non sto qui a spiegare, ci aprirono le valigie e controllarono tutto. Bene, avevo già capito tutto. Rimanemmo chiusi una settimana in albergo. Poi tornai in Italia e parlavano ancora di comunismo. Ma io avevo visto con i miei occhi” In sintesi non le garba la sinistra? “Senza tanti giri di parole, no. Per l’amor di Dio! Anzi l’unica cosa che mi piace a sinistra è la colonnina della classifica di calcio. Sono nato libero e voglio essere libero». «Arcelli: cambiò il calcio. Si iniziò a correre con intelligenza”» (Spiridigliozzo).
Vita privata «Il libero in famiglia è mia moglie Mirella». Lei lo chiama Neno. Si sono conosciuti sul lungomare da ragazzini e non si sono più lasciati. Sposati dal 1962. «Ho tre figli, un maschio e due femminile. Vivono a Londra, a Milano e una anche a Viareggio. Ho un nipotino di 12 anni che gioca in una squadretta legata al Chelsea. Tutto mancino, tutto talento. Deve avere qualcosa dei miei geni».
Pupilli Antonio Conte. «Che testa, che tenacia. Una furia. Oggi lo vedo troppo incazzoso, ma lui è così. È uno determinante e lascia un’impronta netta nelle squadre che allena» • Cassano. «Avesse avuto la testa di Conte, sarebbe uscito fuori un giocatore mostruoso. A livello di tecnica è un genio, un genio però che ha fatto molto meno di quello che avrebbe potuto fare. Giocatori come lui ne ho visti pochi. Purtroppo poi cedeva a certe scenate» • «Se potessi, metterei la testa di Conte sulle gambe di Cassano» • «Da Bari sono usciti giocatori importanti. Uno dice: Casssano. Vero, c’ò stato Cassano. Ma anche Zambrotta, Volpi, Sala. Gente in gamba» (a Marco Tarozzi).
Curiosità Ottima memoria • Amante degli scacchi • Ha scritto Elogio del Libero (con Morena Rossi e Antonella Fascetti, sua figlia, distribuito nel 2018 con la Gazzetta dello Sport) • Quando allenava teneva un diario ogni giorno • Rimasto amico di Antonio Cassano. Fu l’unico allenatore invitato al suo matrimonio: gli regalò una sveglia, a ricordo di quando lo rimproverava perché si alzava troppo tardi • Marco Malvaldi, scrittore e chimico laureato alla Normale, ha citato il suo «casino organizzato» in uno studio sull’imprevedibilità del gol: «Quanto più il disordine è organizzato tanto più si alza il picco di imprevedibilità che sul campo determina una squadra vincente e l’altra perdente. In natura il confronto sarebbe come quello tra il tornado e il contadino: il tornado sa sempre cosa fare, distruggere, il contadino a sua volta non sa mai come difendersi dalla calamità improvvisa e quindi soccombe» (a Massimiliano Castellani, Avvenire, 3/6/2016) • «Da tempo Fascetti si gode il suo mare di Viareggio e dispensa la saggezza di uomo di quel calcio che non abbiamo più» (Salvadori) • «Nel calcio non inventi niente. La grande Ungheria già aveva il falso nove, ad esempio. Non sopporto il tiki-taka. Con me chi esegue due passaggi laterali di fila finisce fuori. E non sopporto il nuovo lessico. Ripartenze, densità difensiva… ma non è meglio parlare di contropiede e catenaccio?» • «Dicono che il libero non serva più: ma come giocavano le squadre di Moore, Ulshoff, Beckenbauer, Passarella, Scirea, Franco Baresi, Picchi? E il Grande Torino di Valentino Mazzola, il mio mito?» • Non ha rimpianti • «Cosa mi immagino per il mio futuro? Voglio ancora vivere a lungo. A patto di avere ancora la testa lucida».
Titoli di coda «Le sarebbe piaciuto allenare Cristiano Ronaldo? “Dico di sì, ma con tutto il rispetto, se devo sognare, mi sarebbe piaciuto allenare Pelè”» (Spiridigliozzi).