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 2019  dicembre 17 Martedì calendario

QQAN10 Su "Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro" di Branko Milanović (Laterza)

QQAN10

Ci voleva uno cresciuto in un Paese comunista per capovolgere la visione storica di Karl Marx: i regimi collettivisti, invece di rimpiazzare per sempre la proprietà privata, si sono rivelati una scorciatoia violenta verso un capitalismo autoctono per alcuni Paesi arretrati. Cosicché ora abbiamo solo capitalismo, in forme differenti, in tutto il mondo.

Capitalism, Alone (Princeton, 2019) è appunto il titolo dell’ultimo libro di Branko Milanović, autorevole studioso delle disuguaglianze sociali, nato 66 anni fa a Belgrado e ora cittadino Usa, già capo economista della Banca Mondiale, docente alla City University di New York. Per il settimanale The Economist è uno dei 5 più importanti testi dell’anno. In italiano uscirà da Laterza in maggio, titolo Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro.

Anche sotto la dittatura comunista di Pechino l’80% del valore aggiunto viene prodotto da imprese private. Nelle sue varie forme, il sistema del mercato non è affatto in crisi: le proteste che vediamo oggi in diversi Paesi, dice Milanović, «non sono rivolte contro il capitalismo, ma contro la ineguale distribuzione dei vantaggi ottenuti con la globalizzazione».

Lo stato presente delle cose non esalta. Nel capitalismo liberale di marca occidentale, il potere del denaro distorce la democrazia, chiude le élites rendendo difficile l’ascesa sociale per merito. Nel «capitalismo politico» di tipo cinese, la classe dirigente per continuare a dominare sugli interessi privati potrebbe far ripiombare l’economia nell’inefficienza.

Non saremmo arrivati a questo assetto del mondo seguendo ovunque la via occidentale allo sviluppo. Se la rivoluzione russa del 1917 fosse rimasta democratica, immagina Milanović, una assemblea costituente dominata dai social-rivoluzionari, partito dei contadini, avrebbe distribuito la terra a chi la lavorava.

I contadini sarebbero rimasti a coltivare i loro campi, mentre nelle città sarebbero mancati sia i capitali sia la forza lavoro necessari all’industrializzazione. Il salto in avanti ha invece richiesto «la guerra contro i contadini lanciata da Stalin nel 1928, con al minimo sei milioni di morti per fame».

A quell’orribile prezzo, la Russia crebbe. Ma la stessa ricetta dopo il 1945 in Europa ebbe effetti deludenti, specie nei Paesi già industriali come Germania Est e Cecoslovacchia che secondo la originale dottrina avrebbero dovuto offrire il terreno più adatto.

Le tappe forzate attraverso cui la Cina è divenuta la seconda potenza mondiale sono state stabilite, negli ultimi 40 anni, da una leadership capace invece di lasciare al mercato spazi sempre maggiori.

Per essere replicato altrove questo capitalismo politico ha però bisogno di tecnocrazie abili, che di rado si trovano. Gli eventi di Hong Kong mettono a dura prova l’attrattiva nel mondo che Milanović sembra attribuire al modello cinese. In prospettiva, la scommessa imperiale di Pechino si giocherà sulla capacità di investire a lungo termine sull’Africa, favorendone la crescita (per ora non pare).

Di contro, il capitalismo liberale non riesce a mantenere le promesse, con il rischio che le classi medio-basse se ne sentano escluse. Mettere in commercio tutto, anche il proprio tempo libero per lavori episodici, o la propria casa per affitto ai turisti, corrode il senso di far parte di una comunità senza il quale il mercato, alla fine, non funziona.

La corruzione risalta sempre più in entrambi i sistemi. In Cina il Partito è al di sopra della legge: chi vi comanda è tentato dall’arbitrio a suo tornaconto. In Occidente il denaro compra influenza sulla politica. Difficile trovare rimedi: anzi l’Italia compare come caso di «equilibrio di corruzione», con richiamo a un testo di Italo Calvino del 1980, l’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti.

Le democrazie sono poi insidiate dai contraccolpi delle migrazioni. Qui lo studioso serbo-americano, popolare a sinistra, scandalizza i suoi seguaci: per prevenire il rigetto propone di concedere agli immigrati solo diritti limitati (in Italia potremmo tradurre: assistenza sanitaria sì, indennità di disoccupazione e case popolari no).

Si può dubitare che non vi sia altro modo per evitare di essere travolti dalla xenofobia. Peraltro chi viene dalla ex Jugoslavia sa quanto possa divenir letale l’odio etnico. Milanović ricorda appunto che per lui il crollo del Muro di Berlino non fu solo una gioia, perché gli fece presentire in patria la guerra civile.