30 settembre 2020
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Biografia di Glauco Mauri
Glauco Mauri, nato a Pesaro il 1° ottobre 1930 (90 anni). Attore. Doppiatore. Regista teatrale • Capelli bianchi, occhi azzurri • «Uno dei grandi del teatro italiano» (Pierachille Dolfini, Avvenire, 27/10/2010) • «Etico maestro della scena» (Rodolfo Di Giammarco, la Repubblica, 31/12/2007) • «La sua intera vita è un archivio della memoria teatrale, come testimoniano le locandine appese alle pareti del suo studio, al piano terra di una magnifica palazzina nel quartiere Monti, a Roma: Re Lear e Riccardo III di Shakespeare, Il Bugiardo di Goldoni, le tre diverse edizioni del Faust di Goethe, Variazioni enigmatiche di Schmitt, Una pura formalità di Tornatore» (Katia Ippaso, Il Messaggero, 26/3/2018) • In tivù è stato Christian ne I Buddenbrook (1971) e Verchovenskij ne I demoni (1972) • Al cinema ha recitato in La costanza della ragione (Pasquale Festa Campanile, 1964), La Cina è vicina (Marco Bellocchio, 1967), L’ospite (Liliana Cavani, 1972) e Profondo Rosso (Dario Argento, 1975). È il padre di Nanni Moretti in Ecce bombo (1978) • Nel 1981 fondò, assieme a Roberto Sturno, una delle ultime compagnie di giro ancora in attività. Non si è mai sposato e, fino a quando ha avuto settant’anni, non ha nemmeno mai vissuto in una casa: passava di albergo in albergo, portandosi dietro due casse piene di libri • Ha detto: «Mi torna in mente quel ragazzo goffo di 15 anni: la prima volta che recitai nel teatrino parrocchiale, a fine spettacolo il sipario non venne giù come doveva. Ci fu un momento di generale imbarazzo, ma capii che il mio destino era segnato, il sipario non sarebbe mai calato: infatti tuttora è ancora alzato».
Titoli di testa «Oramai riconosco anche il tipo di applauso: c’è quello entusiasta, e poi c’è quello più bello, che sottintende un “grazie”, e lo ritrovi nel viso appagato delle persone» (a Alessandro Ferrucci, Il Fatto Quotidiano, 15/3/2020).
Vita «Sono nato in una famiglia poverissima di Pesaro, mio padre è morto quando avevo nove mesi, avevo due fratelli più grandi di dieci-undici anni, e mamma infermiera che parlava solo il dialetto e andava in giro con la bicicletta, casa per casa, per le iniezioni. Insomma, una luminosa povertà» • Chiamato Glauco come il Glauco, dramma di Ercole Luigi Morselli, autore pesarese, che aveva debuttato nel 1919 a Roma e aveva avuto un successo strepitoso • «Sono stato molto solo da ragazzo, quando i miei fratelli erano partiti per la guerra e ho passato tutti quegli anni, dal ’40 al ’44, senza di loro» • «Mia madre li aveva soprannominati “il bello” e “l’intelligente”, e a me m’aveva ribattezzato “il buono”» • «Mi diceva che avevo mangiato le gambe a Santa Rita, la testa a San Giuseppe, e un braccio a Sant’Antonio, e che perciò dovevo proprio essere buono» • «Era una donna di grande intelligenza e saggezza. È stata lei a darmi quella grinta luminosa che mi è servita ad avere il coraggio di essere quello che sono. Mi ha insegnato che bisogna sempre essere disposti a dirsi: se voglio, posso cambiare tutto» • Anche se si è fermata alla terza elementare, la madre porta Glauco all’opera. Il 25 luglio 1943, quando cade il fascismo, loro stanno vedendo Madama Butterfly in un piccolo teatro all’aperto. «Sono stati anni difficili. Per fortuna che mia madre era una donna coraggiosa. Una volta disinnescammo una bomba che avevamo trovato dentro la nostra casa» • «A Pesaro lo sfollamento fu obbligatorio, e ci sistemammo in ricoveri e tunnel: con mamma s’andava a cercare un pugnetto di riso nei negozi con le saracinesche rotte, o ci s’arrangiava col pane inzuppato nel vino. Poi ci rifugiammo in una casetta in un lotto popolare. Avevo per amici falegnami e scaricatori di porto. Mia madre […] curava Riccardo Zandonai e mi portava con lei, e a dodici anni io gli feci sentire un’Ave Maria composta da me. Il mio primo sentimento è stato per la musica […] prendevo lezioni gratuite di solfeggio. Più tardi mi sono convinto che la musica aiuta molto a recitare» (a Rodolfo Di Gianmarco, la Repubblica, 1/8/2010) • Un giorno quelli della filodrammatica parrocchiale gli chiedono: «Puoi venire a suggerire?». Debutta il 1° gennaio 1946, a quindici anni e tre mesi, come suggeritore. Dopo un po’ il direttore della compagnia gli fa: « Ascolta, vieni un po’ su tu» • «Sono stato sempre grasso, ero l’ultimo a correre, e sul palcoscenico ho trovato che potevo essere tutto quello che da ragazzo non potevo creare nella vita: potevo essere giovane, bello, alto, magro. Il palcoscenico è quel luogo magico dove un semplice può fare un dittatore, un incolto può fare un poeta. Lì è cominciato il mio amore per il teatro» (a Carlo Lorini, drammaturgia.net, 3/5/2006) • «Da Pesaro, quanto è stato complicato l’arrivo a Roma? “I miei fratelli non volevano, nonostante avessi una borsa di studio; fu mia madre a tranquillizzare le posizioni con un semplice ‘hai il diritto di seguire la tua strada’; così scesi alla stazione di Roma con la classica valigia in mano, ignaro di tutto, digiuno di tutto e finii a dormire sul divano di una sarta, a patto di alzarmi alle sette del mattino per lasciare libera la stanza da lavoro”. Non sapeva nulla. (Sorride) “Al punto che non avevo ancora mai visto un autobus”. Sensazioni iniziali? “Bellissimo. Bellissimo. Bel-lis-si-mo”» (Ferrucci) • Il direttore dell’Accademia, Silvio D’Amico, si accorge che Glauco ha una buona voce da tenore e gli impone di scegliere tra musica e teatro. «Non ci dormii una notte, mi sedetti sulla scalinata di San Pietro, arrivarono le guardie e mi chiesero se stavo male, e il giorno dopo decisi: fare l’attore» (a Di Giammarco, 2010) • «“In Accademia trovai persone uniche come Andrea Camilleri e altri; per la pausa pranzo finivamo in una bettola, poi un giorno un operaio ci svelò la tecnica per soddisfare i nostri appetiti giovanili: ‘Andate alla cucina dei ferrovieri, è dietro la stazione’. E lì… “La svolta. Dopo qualche giorno un cameriere capì che non eravamo ferrovieri: ‘Cosa fate qui?’. ‘Siamo teatranti’. ‘Come Eduardo? Totò?’. ‘Magari’. Sorrise, e nelle settimane a seguire ci ha raddoppiato le porzioni; ci chiamava ‘i drammatici’”» (Ferrucci) • «Eravamo giovani, la fame era tanta. Un giorno, Camilleri ed io, decidemmo lo stesso di andare in un bel ristorante del centro. Ci sistemammo prudentemente vicino all’uscita, quindi mangiammo e bevemmo senza farci mancare nulla e alla fine del pranzo, alla chetichella, ci squagliammo senza pagare il conto. Per anni sono passato alla larga da quel ristorante, per la paura di essere riconosciuto» (a Emilia Costantini, Corriere della Sera, 28/9/2011) • «Spesso andavamo a lezione senza aver dormito, giravamo tutta la notte, avevamo bisogno di scoprire, di curiosare, di vivere; in una di queste occasioni siamo crollati a dormire sulle rive del Tevere; al risveglio eravamo circondati da un gregge di pecore”. La “dolce vita” l’ha frequentata? “L’ho solo osservata, il cinema era un altro mondo, un mondo a sé, e non mi ha mai suscitato un particolare fascino” Gassman si è dedicato a entrambi. “Vittorio per un periodo venne in Accademia come insegnante per sostituire un grande maestro; lui era ammirato da tutti, era al massimo splendore, ma inizialmente si presentò con degli atteggiamenti eccessivi, per me imbarazzanti; un giorno, alla fine della lezione, e a quattr’occhi, gli manifestai la mia sensazione”. Risposta? “Gassman mi disse: ‘Sei proprio coglione, in realtà sono timido, e mi vergognavo di sostituire un grande’”» (Ferrucci) • Il giorno del suo debutto sul palcoscenico invece di “razzi” dice “caz..” «“Era il saggio d’Accademia con la regia del grande maestro Orazio Costa. Dovevo dire velocemente e con ritmo incalzante la battuta ‘casse di razzi si incendiano e gli scoppi si susseguono’: una specie di scioglilingua, di cui avevo già annusato il pericolo in agguato. E infatti...”. Che accadde? “Dopo la papera, un attimo di silenzio assordante in sala, poi un boato di risate del pubblico e, una delle attrici che stava recitando con me, Ave Ninchi, per trattenersi dalle risa si fece la pipì addosso!”» (Costantini) • «Una domenica pomeriggio del 1954, avevo 23 anni e recitavo all’Eliseo di Roma nei Fratelli Karamazov: era la prima volta che mia madre mi vedeva recitare e ricordo ancora la sua emozione. Una donna con la seconda elementare, infermiera, che parlava solo il dialetto affascinata dalla parola di Dostoevskij. Ecco la forza del teatro, del teatro nel quale credo, un teatro civile inteso come un’arte che aiuta a vivere ponendo interrogativi e suscitando inquietudini» (a Dolfini).
Amori Anche se non s’è mai sposato, dice di avere avuto bellissime storie d’amore. Indicando un portaritratti: «Lì c’è la foto della ragazza con la quale dovevo sposarmi nel 1953 o ’54, siamo ancora amici, e la rinuncia ha salvato entrambi».
Dolori La madre morì nel 1967. «Sono stato male dentro di me per tre mesi, e poi, solo dopo, m’è venuto fuori un misto infinito di tristezza, malinconia, tormento» • «Glauco, per fortuna sei sempre allegro, mi dice tanta gente, perché do l’idea di non avere preoccupazioni, ho un sorriso piuttosto naturale, e d´abitudine una buona parola per chiunque. Ed è vero che non ho mai conosciuto a fondo l’infelicità, che mi sono sempre ribellato a un primo cenno di depressione. Ma le cose difficili, quelle non me le sono mai fatte mancare, e neanche i dispiaceri. Che poi fortificano, i dispiaceri. Una mia specialità consiste nell’arrovellarmi dentro. Ho finito per sapere benissimo come fare i conti con un dolore freddo che non ti fa piangere».
Politica «Crede che in Italia oggi ci sia abbastanza libertà? “In teatro se non appartieni a un clan sei tagliato fuori e questo è un problema. Ma un problema ancora più grosso per l’Italia è un altro: il nostro premier» (Francesca De Sanctis, l’Unità, 20/3/2010).
Religione «Non sono credente. Ma ho grande rispetto per chi ha questo dono. Ho fiducia nell’uomo, credo nella pietà e nella comprensione che siamo chiamati ad avere l’uno nei confronti dell’altro. Conservo, però, il libro di preghiere di mia madre».
Curiosità Da giovane scriveva poesie • «Scaramanzie? “Neanche una”» (Ferrucci) • Vive nel rione Monti a Roma • Oggi dice di non sentirsi solo perché, per lui, Sturno, la di lui compagna e i loro figli, che abitano al piano sopra il suo, sono come una famiglia. «Ho la gioia di sentirmi circondato da affetti veri: sono i miei nipoti non di sangue ma d’amore» • «Come uomo mi sento pertanto appagato: dal punto di vista artistico sono insoddisfatto, perché mi sono sempre sentito al di sotto dei personaggi che ho interpretato» • «Le fa ancora strano avere una casa? “La prima sera qui sono andato a mangiare al piano di sopra, dove vive Roberto con la famiglia; quando sono sceso ho provato un senso di smarrimento, perché per tutta la vita ero stato abituato a salutare un portiere”. Le piaceva vivere in albergo? “Frequentavo e frequento sempre gli stessi; in alcuni ho visto crescere i figli, i nipoti, il passaggio delle generazioni; quando hanno chiuso l’hotel davanti al teatro Quirino, i proprietari mi hanno regalato l’ultimo spezzone di chiave, oramai ero diventato di casa”. Ci vuole il fisico. “Infatti ero forte, e ancora oggi sfido nel mondo a trovare un altro novantenne in grado di recitare il Re Lear”» (Ferrucci) • «Un tempo si viveva con il teatro, ora è veramente difficile, in pochi pagano; le do un esempio: recentemente andiamo in una grande città, non dico quale, e il nostro amministratore va alla cassa del teatro: 600 posti venduti, per un incasso di poco superiore ai 4.000 euro. E noi prendiamo una quota del totale» • «Sono più famoso per un ruolo in Profondo rosso che per le 580 repliche di Re Lear» • «Alla mia età chi me lo fa fare? Non posso fare a meno del teatro» • Nel febbraio 2019, mentre recitava la parte del padre Fëdor nei Fratelli Karamazov al teatro Eliseo di Roma, ha chiesto per due volte la chiusura del sipario. Aveva la pressione altissima, si sentì male e dovettero portarlo in ambulanza al policlinico Umberto I. Lo spettacolo fu annullato, le repliche cancellate • «Non sono uno stupido. So di essere al tramonto della vita, ma non penso mai al domani come a una cosa chiusa. Penso sempre che posso diventare migliore, come attore e come uomo» (alla Ippaso) • «Sento gli anni che passano: ma anche la ricchezza dell’esistenza che ho vissuto» • «Non ho alcuna paura. L’unico problema è l’eventuale vuoto che io posso lasciare negli altri» (a Di Giammarco).
Titoli di coda «Ho cercato tutta la vita di rendere felice chi amavo. Non sempre ci sono riuscito».