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 2019  marzo 03 Domenica calendario

Su "Madrigale senza suono" di Andrea Tarabbia (Bollati Boringhieri)

Sulla soglia del nuovo libro di Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, il lettore trova ad accoglierlo una scimmia, misteriosamente apparsa nel giardino della casa di Igor Stravinskij a Los Angeles. Alta non più di un bambino di due anni, scura, curva e inquietante, essa anticipa l’ingresso in scena di uno dei due protagonisti del romanzo, Gioacchino, il servo nano e deforme di Carlo Gesualdo, la sua anima nera, il suo alter-ego demoniaco, nonché l’immaginario autore del manoscritto rinvenuto da Stravinskij in una libreria antiquaria veneziana e da cui la vicenda prende avvio.

Già in Landolfi, e prima ancora in una delle Familiari di Petrarca, l’emblema della scimmia alludeva alla scrittura come imitazione, scimmiottante e dunque parodica, della tradizione. E in effetti il manoscritto fortunosamente capitato tra le mani di Stravinskij (che lo condurrà nella finzione del romanzo al progetto di traduzione strumentale di alcuni madrigali di Gesualdo, poi eseguiti realmente a Venezia, Monumentum pro Gesualdo del 1960) è probabilmente un falso, un apocrifo, una cronaca infedele e inattendibile delle vicende storiche che portarono il principe di Venosa a trucidare la moglie, Maria d’Avalos, e il suo amante Fabrizio Carafa nel 1590. Ma la scimia imitativa è anche quella che si impossessa di Stravinskij, che non solo riscrive i madrigali gesualdiani ma qui, nel romanzo, recupera la Cronaca di Gioacchino e la pubblica corredandola dei suoi commenti e contrappunti. Ed è, ancora, la scimmia che anima la scrittura di Tarabbia e lo guida a costruire un testo simil-secentesco depurato di ogni barocchismo, dove l’autore si confronta con il «punto cieco» di tutta la sua opera: il male, l’orrore, il pozzo nero della crudeltà umana.

Ancora una volta, come ne Il demone di Beslan (2011) e nel Giardino delle mosche (2015), l’abbrivio è dato da una vicenda storica, scandagliata nei suoi fondi più macabri e terribili; questa volta però Tarabbia reinventa la lunga tradizione del manoscritto ritrovato e, denunciandone fin dall’inizio la probabile inattendibilità, conduce il lettore a ragionare sui doppi fondi della letteratura e della storia, dunque sui nostri rapporti col passato. Ma Tarabbia lavora anche sulla tradizione del romanzo gotico, innestandovi il tema purtroppo attualissimo del femminicidio e declinandolo in una direzione che definirei metafisica: intanto perché la Cronaca di Gioacchino si presenta come un libro d’ore, come un diario punteggiato dai riferimenti cronologici esatti e da meditazioni sulla natura dell’anima e del corpo. In secondo luogo perché l’incipit è esplicitamente il rovesciamento (dunque ancora la parodia) dei primi versetti del Vangelo di Giovanni: «In principio era il verme, e il verme era presso Dio, e il verme ero io».

Madrigale senza suono nasconde al suo interno una sorta di antiteodicea, dove il male è previsto dall’ordine stesso delle cose, una «epopea negativa» (per usare la fortunata categoria di Giovanni Macchia) dove l’architettura è tanto rigorosa quanto terrificante. Il dato metafisico emerge poi scopertamente quando Stravinskji, in una delle sue note a corollario della Cronaca, pone l’interrogativo fondante della narrazione: «Come può, Gesualdo, aver scritto una musica tanto bella e aver compiuto un gesto tanto orribile?». Può la bellezza avvicinarci a Dio (come prevederebbe la natura dei madrigali e dei responsori) e nello stesso tempo essere trascinata verso la dimensione più mostruosa dell’umano? Dopo l’assassinio di Maria, Gesualdo e Gioacchino compiono una sorta d’abominevole gesto maieutico e traggono dal suo utero il frutto dell’adulterio: Ignazio, questo il nome del bambino, verrà allevato nelle tenebre come una bestia, immagine del furor paterno e sorta di nuovo minotauro, «un Giobbe delle segrete, un Petruška animale». Eppure, in modo incongruo ed enigmatico, dal grembo di Maria si sprigiona anche la musica di Gesualdo, il Plange quasi virgo, una delle prove più alte e ardite della sua produzione.

Riproducendo le forme canoniche del romanzo gotico, Tarabbia in realtà le restaura: come Gesualdo rinnovò la musica manierista lacerando il testo, facendolo quasi sanguinare in direzione anti-Monteverdi, così Stravinskij si impossessò dei madrigali gesualdiani, consapevole che «per entrare nella sua musica, ho dovuto scardinarla, romperla, infinitamente variarla». Entrambi esasperano il linguaggio musicale della tradizione precedente, lo rinnovano facendolo apparire mai sentito prima, chiudono un’epoca e ne inaugurano un’altra. Si confrontano da un lato con i padri, dall’altro con il vuoto.

In modo paradossale, ma conseguente e congruente rispetto ai romanzi precedenti, Tarabbia scrive un libro morale: il confronto con la morale secentesca dell’onore (e del delitto d’onore) è continuo e si apre alla riflessione sul perdono e la penitenza (dopo l’omicidio di Maria D’Avalos, Gesualdo percuote incessantemente una ferita e così spiega il suo atto: «Mi fa male, è per questo che la percuoto: per punirla»). Ma Madrigale senza suono è un libro morale anche perché risponde audacemente a quell’imperativo posto da Jacques-Bénigne Bossuet (e disatteso da Manzoni) secondo cui la vita dei malvagi può essere utile tanto quanto quella dei santi, purché se ne mostri la miseria e l’orrore.