21 giugno 2020
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Biografia di Aung San Suu Kyi
Aung San Suu Kyi, nata a Rangoon, in Birmania, il 19 giugno 1945 (75 anni) • «Pronuncia “su ci”» (Michele Farina, Corriere della Sera, 23/9/2007) • Icona dell’opposizione alla dittatura militare birmana • Detta «la Signora» • «È una Gandhi buddista, che predica la resistenza passiva e la non violenza per piegare uno dei regimi più feroci del pianeta» (Federico Rampini, la Repubblica, 23/9/2007) • Leader dell’Alleanza Nazionale per la democrazia, il suo partito vinse le elezioni del 1990 con l’82% dei voti, ma la giunta militare annullò il voto. Agli arresti domiciliari dall’89 al ‘95, dal ‘95 al 2000 non le fu permesso di uscire dalla capitale Rangoon. Di nuovo al domicilio coatto dal settembre 2000, fu liberata il 13 novembre 2010 • Premio Nobel per la pace nel 1991. Premio Sacharov del Parlamento europeo per i diritti umani nello stesso anno • Eletta al parlamento birmano nel 2012. Nel 2016 fu brevemente ministro dell’Istruzione e ministro dell’Energia. Dal 2016 è ministro degli Esteri e Consigliere di Stato, carica che corrisponde a quella di capo del governo • «È un’esile bellissima signora» (Adriano Sofri, la Repubblica, 17/6/2012) • «Nota per essere idealista e irriducibile, ha sfoderato un pragmatismo che col tempo ha disarmato i generali» • Ha detto: «Credo sinceramente che tutti i popoli e le religioni possano coesistere in pace, che qualsiasi sia la nostra origine o la nostra religione, possiamo tutti imparare a concordare su alcuni valori fondamentali essenziali per lo sviluppo della società umana».
Titoli di testa «La Birmania è davvero un altro mondo. Luogo remoto in epoca coloniale e isolato dalle sanzioni in epoca moderna, la Birmania viene descritta come la Thailandia di 50 anni fa. Per me, ci sono molte analogie con l’India che ho visto la prima volta negli anni ‘80: uomini in strada che battono lettere ufficiali su vecchie macchine da scrivere; gente che parla ai telefoni installati ai lati della strada; rudimentali sale da tè improvvisate sui marciapiedi con sedie e tavoli di plastica. La maggior parte della popolazione indossa sarong colorati o longyi. Molte donne s’imbrattano il viso con una sorta di pittura di guerra gialla, una pasta ricavata dalla corteccia dell’albero di thanaka, che le fa sembrare quasi dei fantasmi» (David Pilling, Financial Times, ripubblicato dal Sole 24 Ore, 29/1/2011).
Vita Terza figlia di Aung San e Daw Khin Kyi. Lui è il generale eroe dell’indipendenza dagli inglesi. Lei una giovane insegnate e infermiera di fede cristiana. Hanno già due figli maschi ma vorrebbero tanto una femmina. «Quando finalmente nacque, Aung San provò una grandissima emozione. Era minuta e bellissima, il visino di porcellana, spuntava allegro dal letto di coltri bianche e leggere su cui era adagiata, protetta da una altrettanto candida zanzariera. Volle metterle il nome di Suu, che in birmano vuol dire, “regalo”. Aung San Suu Kyi significava pertanto, regalo di Aung San a sua moglie Kyi» (Cecilia Brighi) • Aung San ha vinto le elezioni, è destinato a governare il Paese, finalmente libero, ma nel 1947 viene assassinato da una fazione rivale • «Alla fine della seconda guerra mondiale la Birmania era, fra i Paesi appena diventati indipendenti, quello con le maggiori possibilità di mettersi al passo col resto del mondo. Aveva tutte le risorse naturali di cui un Paese in via di sviluppo sogna: petrolio, gas, carbone, pietre preziose ed enormi foreste ricche di legno pregiato. Il livello di educazione della sua gente, grazie alle scuole dei monasteri, era uno dei più alti in Asia. La sua struttura amministrativa era efficiente. Grazie alla presenza di una comunità indiana e una cinese, il suo sistema commerciale era altamente competitivo. Rangoon, la capitale, era una delle più avanzate dell’Asia con le migliori librerie e i migliori alberghi. Si trattava di sfruttare tutte queste risorse nel quadro di un programma di modernizzazione che avrebbe portato il progresso. Ci provò un regime democratico, ma il colpo di stato di Ne Win nel 1962 interruppe l’operazione. La priorità di Ne Win, un generale che aveva preso parte alla guerra anti-coloniale, non era il progresso. La sua idea era di eliminare dalla società birmana le tracce del colonialismo, di “birmanizzare” il Paese e di salvarlo così da quel che pareva essere il suo destino di occidentalizzarsi. Ne Win credette di aver trovato la risposta alla domanda che tutti i Paesi indipendenti si facevano a quel tempo: come svilupparsi senza perdere la propria identità, come modernizzarsi senza occidentalizzarsi. La sua meta era la creazione di un paradiso buddista sulla terra, la sua formula si chiamò “la via birmana al socialismo”. Per realizzare questo Nirvana e proteggerlo da tutti gli influssi esterni, Ne Win isolò il Paese dal resto del mondo […] Nella sua residenza, a Rangoon, fece portare il trono del Leone che era stato dell’ultimo re mandato in esilio dagli inglesi e in uno dei suoi sette matrimoni sposò una discendente diretta della famiglia reale. A chi si oppose rispose con inaudita violenza. Quando un gruppo di studenti si chiuse in un edificio dell’Università per protestare contro la dittatura, Ne Win fece saltare il fabbricato e i suoi occupanti con delle cariche di dinamite. Alle minoranze etniche che chiedevano una qualche autonomia nel quadro dell’Unione Birmana Ne Win rispose dichiarando una guerra civile che in trent’anni ha fatto più di 130 mila morti» (Tiziano Terzani, Corriere della Sera, 12/2/1991) • Suu Kyi cresce lontano da tutto questo. «Se ne era andata dalla Birmania a 14 anni, quando sua madre aveva accettato un incarico da ambasciatrice a Nuova Delhi. Dopo l’India, Suu Kyi ha trascorso gran parte dei trent’anni successivi in Inghilterra» (Pilling) • Si iscrive a Oxford: studia economia, filosofia e scienze politiche. Sposa Michael Aris, studioso di storia e letteratura tibetana. Hanno due figli e danno loro un doppio nome, uno birmano e uno inglese. Suu Kyi prima delle nozze dice al marito: «Ti chiedo solo una cosa. Se il mio popolo avesse bisogno di me, tu mi dovrai aiutare a fare il mio dovere» • «Quel momento arriva in un tranquillo pomeriggio a Oxford, quando riceve una telefonata con cui la avvisano che sua madre ha avuto un ictus. “Mise giù il telefono e cominciò subito a fare i bagagli”, avrebbe scritto più tardi Aris. “Ebbi il presentimento che le nostre vite sarebbero cambiate per sempre”.
Due giorni dopo, Suu Kyi si ritrova all’ospedale di Rangoon, dove sua madre è ricoverata. L’ospedale è in subbuglio: ci stanno portando la maggior parte dei dimostranti feriti. Senza volerlo, Suu Kyi è finita nel bel mezzo della sanguinosa sommossa del 1988» (Pilling) • «Trent’anni d’isolamento e di stagnazione economica […] hanno notevolmente immiserito la vita dei normali birmani il cui reddito medio pro capite è oggi di appena 210 dollari all’anno […] La povertà della gente ha mutato il paesaggio umano del Paese. Nel dopo guerra, quando la Birmania era ancora uno dei grandi esportatori di riso, i mendicanti erano praticamente inesistenti. Oggi che il Paese soffre per la prima volta la fame, si vedono a giro per le città e i villaggi uomini in stracci, armati di pinze di bambù con cui raccolgono per le strade i sacchetti di plastica usati. Attorno ai mercati si affollano mendicanti che si nutrono di rifiuti. Bande di bambini, con le mani tese, assediano i turisti stranieri fuori dagli alberghi e all’ingresso dei templi implorando: “Un kyat ... un kyat”» (Terzani) • A Rangoon studenti, lavoratori, monaci buddisti scendono in piazza, mettono le loro ciotole di riso rivolte verso il basso in segno di protesta. Quando i militari sparano, l’interno Paese si unisce alle manifestazioni contro la dittatura e Suu Kyi, il 26 agosto 1988, deicide di tenere un comizio davanti alla pagoda di Shwe Dagon. «Il suo fu un discorso semplice e chiaro. Un giuramento di fedeltà al popolo birmano. Un giuramento che anteponeva il suo popolo e il suo paese agli affetti personali, alla sua stessa vita. Giustificò la sua lunga lontananza dalla politica birmana, come segno di rispetto per suo padre, che una volta ottenuta l’indipendenza non avrebbe voluto prendere parte alla politica di potere che ne sarebbe seguita. Ora lei non avrebbe potuto rimanere indifferente a tutto quello che stava succedendo» (Brighi) • «Di fronte all’esasperazione della gente il dittatore di allora, il generale Ne Win […] concesse le elezioni democratiche convinto di poterle manipolare. Fu un errore clamoroso, la prova che l’esercito non aveva il polso del paese reale» (Rampini) • La giunta permette all’Alleanza nazionale per la democrazia di Suu Kyi di partecipare alle elezioni, ma mette lei ai domiciliari, pensando di cavarsela così. «Invece a maggio del 1990 la NLD conquista l’82 per cento dei suffragi e chiede senza mezzi termini ai militari di farsi da parte e cedere tutto il potere. I generali si sentono messi con le spalle al muro, la Suu Kyi si sente sicura, ma si sbaglia. Nel frattempo è anche cambiato il contesto internazionale. Ne Win, con il suo socialismo buddista era stato per decenni un bastione filo americano mentre la Cina appoggiava la guerriglia filo comunista del nord. Con la normalizzazione dei rapporti tra Cina e Usa la guerriglia del nord è stata abbandonata a se stessa, per finanziare la sua lotta aumenta anche la coltivazione dell’oppio e la produzione di eroina. I generali si sentono isolati più che mai, così non riconoscono il risultato delle elezioni, imprigionano altri leader dell’NLD e Suu Kyi continua la sua detenzione. Nel 1991 conquista il Nobel per la pace. In risposta alle crescenti pressioni internazionali, la giunta dice di essere disponibilissima a favorire il ricongiungimento di Suu Kyi con il marito e i figli, purché lei lasci il Paese. Il dramma di Suu Kyi si fa serio. Tra la scelta di rivedere i figli e quella di dedicarsi alla patria sceglie quest’ultima. Come fece il padre» (Lisci) • Tra il 1989 e il 2010 passa quindici anni ai domiciliari. Vive seguendo una routine scrupolosa. «Penso che se possiedi dentro di te risorse sufficienti, puoi vivere in isolamento per lunghi periodi di tempo senza per questo sentirti sminuito» • «Oltre ad ascoltare incessantemente la Bbc, si esercitava al piano, studiava giapponese e meditava. Ha anche scoperto Tennyson. “Forse è un fatto legato all’età, ma ora apprezzo più la poesia della prosa”» (Pilling) • Le cose vanno avanti così per anni. Tutto cambia nel 2007. «Ieri cinquemila persone si erano radunate nella Pagoda d´Oro di Sewedagon, il principale tempio del paese, per pregare ed esprimere pacificamente il loro dissenso. Nel giro di appena un’ora la folla si è quadruplicata: la metà erano monaci e monache. L´enorme folla si è riversata nelle vie del centro dell’ex-capitale fino a raggiungere un altro luogo sacro molto importante, la Pagoda di Sule, e poi passare di fronte all’ambasciata degli Stati Uniti. “Rilasciate Suu Kyi”, era scritto nei cartelli agitati dai giovani» (Arturo Zampaglione, la Repubblica, 24/9/2007) • Gli occidentali minacciano sanzioni • «A quattrocento chilometri, a Naypydaw, nella finta capitale costruita dai despoti in mezzo alla giungla, lontano dal mondo e dalla ragione, i generali discutono sul da farsi. Isolati ma pericolosi. Possono sparare da un momento all’altro. La strage l’hanno già compiuta nel 1988. O possono aspettare. Forse per trattare o forse per barare, come sempre […] Abituati a bastonare e fucilare, abituati a non tollerare reazioni e opposizioni, non si aspettavano che 500 monaci, il 5 settembre, uscissero dalla pagoda di Pakokku, tirati fuori dallo sdegno e dallo sgomento dinanzi all’arroganza di chi governa contro la sua gente. I 500 sono diventati migliaia […] Persino i cinesi, timorosi che il contagio superi le linee del confine, riportano attraverso l’agenzia ufficiale Nuova Cina una notizia che informa della protesta. Significa che lo strappo è vicino. Pechino è allarmata. Appoggia la giunta ma non ne può più, è imbarazzata e, se i generali sparano, difenderli diventa difficile» (Fabio Cavalera, Corriere della Sera, 25/9/2007) • «Vestita di giallo, con le lacrime agli occhi, la Nobel della Pace Aung San Suu Kyi è uscita per la prima volta dopo quattro anni dalla sua casa sul lago Inya a Rangoon. Per quindici minuti, in una sfida senza precedenti alla giunta militare, la leader della Lega nazionale per la Democrazia ha recitato i Sutra buddisti assieme a oltre mille monaci e altrettanti cittadini che gridavano “lunga Vita ad Aung Sang Suu Kyi”, dopo essere giunti in corteo fino all’ingresso del giardino della sua abitazione al numero 54 di University Avenue» (Raimondo Bultrini, la Repubblica, 23/9/2007).
Al governo Aung San Suu Kyi è stata eletta al parlamento nel 2012 alle suppletive. Nel 2015 il suo partito ha avuto il 60% dei voti e, finalmente, è entrata nel governo del Paese.
Genocidio? «Gli inquirenti dell’Onu accusano i militari del Myanmar di aver condotto una serie di atrocità con “intento genocida” contro i Rohingya, minoranza musulmana in un Paese a grande maggioranza buddista. Sotto accusa è una campagna militare condotta nel 2017 nello Stato di Rakhine, sulla costa occidentale del Myanmar, che ha costretto 700mila persone a fuggire nel vicino Bangladesh. Si parla di villaggi rasi al suolo e dati alle fiamme, migliaia di morti e stupri sistematici. Il Myanmar considera i Rohingya immigrati irregolari e ha sempre negato loro la cittadinanza» • Il Gambia, sostenuto da 57 membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica accusa la Birmania di genocidio al tribunale dell’Aja. Lei, da ministro degli Esteri, si presenta alla corte per difendere le ragioni della Birmania • Dice Suu Kyi: «Non direi che si tratti di un conflitto etnico. È un contrasto completamente differente da quello in atto nelle altre parti del paese, alimentato da un senso di terrore che serpeggia in entrambe le comunità» • «Non siamo di fronte ad un conflitto etnico» • «Le loro accuse sono un’assurdità. Io e il mio partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per anni nessuno se n’è occupato con il risultato che migliaia di immigrati clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice del problema è tutta qui, oltre al fatto che in Birmania c’è la paura che elementi esterni possano destabilizzare il paese» • «Io condanno ogni tipo di violenza, ma se vuole che condanni solo la violenza dei buddisti contro i musulmani, allora non lo farò. Condannare una sola comunità serve solo ad istigare altra violenza e se le mie parole potrebbero essere fraintese chi ne farebbe le spese sarebbe il popolo, non io che le ho pronunciate».
Critiche «Chi avrebbe immaginato che il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, celebrata icona del coraggio civile contro la dittatura dei generali birmani, un giorno si sarebbe trovata ad accusare le organizzazioni umanitarie internazionali di esagerare volutamente i loro rapporti a proposito di una minoranza che le autorità continuano a discriminare legalmente» (Paolo Salom, Corriere della Sera, 20/12/2016) • «Le critiche alla signora Aung San Suu Kyi sono fondate, il suo comportamento non è purtroppo all’altezza della fama e del rispetto di cui gode. Speriamo presto si ravveda e capisca che i diritti umani per cui tanti si sono battuti in suo nome non conoscono ragione politica, e vanno sempre affermati, quando conviene e quando non conviene alla propria fazione» (Gianni Riotta, La Stampa 15/3/2013) • «Qualcuno ha chiesto che restituisca il Nobel per la Pace, vista la sua involuzione» • «Pratica la politica degli struzzi» (Amnesty International) • «Il punto più basso della parabola di una personalità un tempo simbolo della difesa dei diritti umani e della lotta contro la dittatura, lei stessa vittima di persecuzioni da parte del regime militare, pronta ora a giustificare o ignorare pratiche criminali» (Atlante Treccani).
Difesa «Nei salotti buoni di quell’Italia che sa localizzare su una mappa il Myanmar ci si indigna davanti ad un premio Nobel per la Pace incapace di gestire e condannare la violenta repressione della minoranza Rohingya presente nel Paese. Le recente notizie di cronaca non sono altro che l’ultima tappa di un conflitto a bassa intensità che indigna il mondo intero. Aung San Suu Kyi, che tanto ci ha fato sognare, resistendo per quasi due decenni agli arresti domiciliari, diventa ora il carnefice della principale emergenza umanitaria del Sud-est asiatico. Una storia che intriga, che trasforma l’eroe in mostro. L’ennesimo sogno democratico sfumato nei deliri di onnipotenza di un nuovo leader. Una storia avvincente, quanto falsa» (Giulio Gubert, lettera ai direttori dei maggiori quotidiani italiani, pubblicata su Il Foglio, 28/8/2017) • «Penso che i media abbiano raccontato in modo superficiale e a volte anche errando le difficili scelte della leader birmana» (Berti) • «Aung San Suu Kyi è stata criticata per non aver parlato dei Rohingya… “Nel Myanmar è difficile criticare senza prima chiedersi: sarebbe stato possibile questo? La situazione politica è in un momento di transizione, le possibilità sono da valutare anche in questa ottica” Sulla crisi hanno voluto inserirsi anche l’Isis e gruppi jihadisti… “C’erano gruppi terroristici che cercavano di approfittare dei Rohingya, che sono gente di pace. I militari giustificano il loro intervento per questi gruppi fondamentalisti. Io non ho scelto di parlare con questa gente ma con le loro vittime: il popolo che da una parte soffriva di questa discriminazione e dall’altra era “difeso” dai terroristi, ma poveretti!”» (papa Francesco, intervistato da Gian Guido Vecchi, Corriere della Sera, 3/12/2017) • «Se l’indignazione è doverosa, così lo è la verità che in molti tendono a ignorare. La Signora […] ben poco può di fronte a una situazione tanto complessa. Prima di precipitarsi a conclusioni affrettate è bene ricordarsi che il Myanmar è una democrazia giovane, frutto di un precario equilibrio tra governo eletto e militari. La transizione democratica avviatasi nel 2008 e culminata nelle elezioni generali del 2015 non è ancora conclusa. La Costituzione garantisce alle forze armate un peso determinate. Il 25 per cento dei seggi viene allocato d’ufficio ai militari, che controllano inoltre tre ministeri cardine: interni, frontiere e difesa. Le decisioni riguardanti la pubblica sicurezza vengono pertanto prese dai generali, con o senza il beneplacito del governo. Chi oggi critica la Signora sembra ignorare questo dettaglio fondamentale. Emblematici i fischi ad Aung San Suu Kyi nella sua ultima visita istituzionale in Europa, contrastati da un silenzio disarmante quando Austria e Germania hanno accolto calorosamente Min Aung Hlaing, comandante in capo delle forze armate» (Gubert).
Titoli di coda «Quei salotti buoni che la offendono senza cognizione di causa minano la credibilità di un premio Nobel che con impegno si batte ogni giorno per il processo di riconciliazione di un Paese divorato da 70 anni di guerre civili. Ignorano la Conferenza di Panglong del XXI secolo, ignorano le commissioni di inchiesta sul Rakhine autorizzate dal Governo, ignorano i progressi umanitari riconosciuti dalle Nazioni Unite, ignorano il complesso tessuto sociale birmano, ignorano il potere dei militari e, soprattutto, ignorano quanto le loro illazioni danneggino un processo democratico estremamente precario. La Lady rappresenta ancora la migliore speranza per il Myanmar. Schiacciata tra l’incudine e il martello dell’esercito e dell’opinione pubblica occidentale è quanto mai necessario che Aung San Suu Kyi sia supportata. Imperativo è impedire che i giochi sporchi di un élite militare calpestino i sogni di un intero Paese, vanificando 15 anni di arresti domiciliari di un premio Nobel che ha ancora tanto da dare al mondo» (Gubert).