La Lettura, 4 agosto 2019
Intervista a Justin E.H. Smith su "Irrazionalità" (Ponte alle Grazie)
Rassegniamoci. Si può tentare di rimuoverlo, nasconderlo, combatterlo, esorcizzarlo, negarlo. Ma l’irrazionale non scompare né dal mondo né dalla vita degli uomini né, va da sé, dalla filosofia. «L’irrazionalità è tanto potenzialmente pericolosa quanto umanamente ineliminabile», anzi è «irrazionale cercare di eliminare l’irrazionale dalla società e dall’esercizio delle nostre facoltà mentali», scrive Justin E. H. Smith in Irrationality (Princeton University Press): niente di nuovo, avverte l’autore, però si tratta pur sempre di una consapevolezza che rientra tra «le cose che sappiamo ma non sappiamo». Dobbiamo guardarci da un doppio pericolo: il rischio di «mitizzare il passato» e quello opposto di restare delusi dal tentativo di «imporre un ordine razionale al nostro futuro».
Docente a Parigi, storico del pensiero e della scienza, Smith aveva già dato prova in Il filosofo (Einaudi, 2016) di un certo gusto per le classificazioni. E nel nuovo libro sul «lato oscuro della ragione» analizza le molteplici manifestazioni dell’irrazionale, che sia la logica o il sonno, l’arte o il mito, il web o l’umorismo.
Professore, il suo libro è costruito sulla coesistenza della razionalità e del suo opposto nella storia umana e sull’irriducibilità filosofica di quest’opposizione. Quand’è stata per la prima volta concettualizzata e accettata?
«Non penso sia stata ancora accettata, ed è il motivo per cui vengo attaccato sia da chi condanna le tendenze irrazionaliste come la new age, il creazionismo o le teorie cospirazioniste sull’11 settembre, sostenendo che sono troppo morbido, sia da fanatici della meditazione e dell’astrologia che giudicano il mio lavoro una condanna di tutto ciò che non è gelidamente logico e ragionevole. Chiunque può trovare nel libro qualcosa da odiare».
Se assumiamo la razionalità e il suo opposto come tesi e antitesi, quale può essere la sintesi fra i due?
«Preferisco un modello aristotelico a uno hegeliano: cioè non una sintesi tra razionalità e irrazionalità, piuttosto un giusto mezzo tra gli estremi di una pericolosa irrazionalità e di un’insostenibile iper-razionalità».
La nostra società è abbastanza matura da riconoscere questi due poli e le loro implicazioni?
«Gli uomini sono gli stessi, da un’epoca e da una cultura all’altra. Affrontare l’irrazionalità in un certo luogo o in un certo tempo dipende più dai controlli sociali e istituzionali, dagli accorgimenti perché l’irrazionalità dell’individuo non nuoccia. Questo ha a che fare con l’organizzazione della società e non con la maturità o meno degli individui. Va bene che degli individui si riuniscano in una bolgia urlante: se alla gente piace, chi sono per giudicare? Non va bene invece se questi assembramenti finiscono per mandare la persona intorno alla quale sono organizzati nella sala di comando del Paese più potente del mondo».
Le società non occidentali, in particolare asiatiche, sono meglio equipaggiate per trovare un equilibrio tra razionalità e irrazionalità?
«In questo libro ho deliberatamente scelto solo pensatori europei e americani. Ridurre lo spettro mi ha permesso di affrontare un argomento immenso. E poi l’ho detto: gli esseri umani sono fondamentalmente gli stessi ovunque e sempre e le differenze culturali interessano di fatto solo la superficie. Ci sono state in Cina scuole di logica non meno categoriche degli aristotelici nella loro fiducia nella dialettica e la scuola Nyaya dell’India classica fa apparire i filosofi analitici angloamericani come dei frastornati allievi di Derrida (Smith demolisce in una pagina i «falsi sentieri» del filosofo francese e i «mandarini accademici» dell’«irrazionalismo parigino», ndr). La percezione di una grande separatezza culturale è la scoria di un orientalismo naïf ».
Lei denuncia i pericoli dell’irrazionalità che tuttavia è un aspetto costitutivo dell’esperienza artistica, che a sua volta è fonte sia di piacere sia di conoscenza. Come coesistono razionalità e irrazionalità nell’arte?
«Nella maggior parte dei periodi storici e dei contesti geografici l’arte è stata indistinguibile dalla manualità, dalla capacità artigianale. Capacità di fare seguendo un rigido set di regole. È con la modernità che è emersa l’idea che la creazione artistica sia la sede del genio, inteso come la persona alla quale non possono essere imposte regole. Risultato: l’arte è stata vista come una valvola di sfiato per la montante pressione in una società ordinata su base razionale e ha attratto persone che sentivano la necessità o il desiderio di sfogarsi. Non sta a me giudicare se questa sia stata una svolta felice nella storia della creatività o no».
C’è un capitolo dedicato alla pseudoscienza: che cosa fare per contrastarla?
«Mi vengono solo risposte ovvie: migliore educazione scientifica di base e più esercizio del pensiero critico; migliori leggi contro la disinformazione. Oggi le leggi che proteggono le fondamenta della libertà sono inadeguate ad affrontare le nuove tecnologie che diffondono e amplificano i messaggi».
Lei menziona politici come Trump, filosofi come Žižek, dispositivi come internet: perché ci lasciamo sedurre così facilmente dall’irrazionale?
«Ho conosciuto un sacco di gente come Trump. Il padrone di casa del mio appartamentino a New York negli anni Novanta era un piccolo Trump, tutto insinuazioni minacciose, innamorato dell’autorità, persino vanitoso nella sua bruttura. Il mondo è zeppo di gente così. E finché il problema è un lavandino che perde, amen. Il guaio è che un sistema elettorale irrazionale e tecnologia fuori controllo hanno scaraventato Trump in una posizione decisamente al di là del mondo dei proprietari degli inquilini di scalcinati appartamenti newyorkesi. Non è che dobbiamo eliminare le persone disturbate nell’anima e nella mente esemplificate da Trump, perché anche solo provarci sarebbe da pazzi, cioè estremamente irrazionale: dobbiamo solo migliorare i meccanismi attraverso i quali le persone raggiungono il potere».
Lei denuncia il modo in cui internet distrugge il nostro mondo: lo definisce «lo Shiva moderno»...
«Ogni sviluppo della storia umana, almeno da quando abbiamo imparato a controllare il fuoco, ha avuto aspetti buoni e cattivi, ovvio. E trovo folle dare un giudizio uniformemente negativo dell’impatto del web, benché personalmente preferirei che chiudesse del tutto, tranne Wikipedia, le collezioni digitalizzate delle biblioteche e un qualche tipo di messaggistica privata. La questione è se internet sopravvivrà alle speranze che vi abbiamo riposto non più di una decina d’anni fa, e la risposta è ovviamente: no. Perché il web faccia il bene della società, anziché radere al suolo tutte le istituzioni e le norme che abbiamo amato, sarebbe necessaria una vera supervisione dei social. In altre parole, va smantellato Facebook e i social vanno trasformati legalmente in servizi pubblici».
Perché è importante la «gelastica», cioè una filosofia dell’umorismo (che è intriso d’irrazionale)?
«La gelastica è la grande branca perduta della filosofia. Una via di mezzo fra logica ed estetica. Come l’estetica la gela
stica riguarda un’esperienza non-cognitiva, in questo caso del divertente anziché del bello; e con l’esperienza del bello condivide sia una dipendenza dal contesto sia la resistenza a essere trasposta in termini oggettivi anziché meramente intersoggettivi. Come la logica, poi, la gelasti
ca riguarda affermazioni, in questo caso le battute, che hanno una certa struttura formale, difficili da analizzare. Le battute possono essere considerate come deduzioni logiche “pervertite”. Allo stesso modo, come le deduzioni logiche, le battute sono spesso potentemente rivelatorie di verità essenziali e nascoste»