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 2019  luglio 10 Mercoledì calendario

La morte di Calipari

Giuliana Sgrena fu rapita quindici anni fa. Quando fu liberata l’uomo che gestì sapientemente l’operazione, per conto del governo italiano, fu ucciso dal fuoco aperto da una pattuglia americana. Non la vedevo da quei giorni, quando tutti ci mobilitammo perché non fosse uccisa. Ora la incontro con suo marito, Pier Scolari, mio vecchio amico. «Ero già stata varie volte in Iraq. Non ero un’inesperta».
Mi hanno rapita all’uscita di una moschea dove ero andata per incontrare dei profughi di Falluja. Uno sceicco mi fece parlare con lui, fece due strane telefonate e poi mi intimò di andar via. Avevano organizzato tutto. Mi prelevarono dalla macchina. Stavo chiamando dei giornalisti italiani con cui dovevo pranzare. Mi cadde il cellulare, sentirono tutto e avvertirono l’Italia. Fui portata in una villetta a schiera, poco fuori Bagdad. Ricordo che c’erano fuori delle biciclette. Era abitata da una famiglia. Non l’ho mai raccontato ma una volta, andavo al bagno, un bambino mi vide e trasalì. Mi avevano tolto tutto. Non avevo nulla, se non me stessa. Volevano farti sentire alla loro mercé. Una volta, stavo tornando dal bagno, ho chiesto: “Mi fate vedere un attimo la televisione?”. “Va bene” e hanno girato su un canale che potessi capire, Euronews. In quel momento ho visto l’immagine della vostra manifestazione in Campidoglio, inquadrarono le due Simona, che erano state rapite e rilasciate e questa cosa un po’ mi aveva rassicurato. Ho pensato: non mi abbandonano. Però subito dopo c’era la rivendicazione della jihad islamica che diceva, era domenica, “se entro lunedì sera non ritirate le truppe, noi l’ammazziamo”. Quella notte, è stata agghiacciante.
Passavo le giornate a letto perché faceva freddo e non c’era il riscaldamento A Bagdad non c’era quasi mai l’elettricità.
Avevo paura di perdere la memoria e non sapevo come fare. Allora ogni giorno mi imponevo di ricordare un pezzo della mia vita, per tenermi legata a qualcosa, per cercare di mantenere la mia identità. Naturalmente dopo due minuti la cosa spariva, allora ritentavo all’infinito. Così ho ripercorso parte della mia vita.
Il primo appello video me l’hanno fatto fare imponendomi più o meno quello che dovevo dire. Insistevano perché mi rivolgessi direttamente a mio marito, volevano un forte impatto emotivo. Questo mi ha provocato una grande emozione perché mi rivolgevo a lui e lo caricavo di una responsabilità enorme. La seconda volta era la domenica prima del mio rilascio, avvenuto il venerdì. Hanno registrato questa cosa e poi è ricominciata la settimana. Chiedevo e loro mi dicevano: “Sì sì adesso vediamo, sì sì siamo d’accordo”. Ma restavo lì. Doveva essere successo qualcosa».
I rapitori
A un certo punto mi dicono: tornerai a casa sana e salva, ma gli americani non vogliono Penso subito che sia una loro tirata ideologica
Pier Scolari, il marito di Giuliana, ha vissuto l’altra faccia della storia. Da Roma, con il direttore del Manifesto Gabriele Polo, a contatto con i vertici della politica e della sicurezza. Racconta: «Un giorno, credo che fosse il venerdì prima, ci chiamano da Letta. C’era Pollari che ci informa di una novità: la Croce Rossa, attraverso il presidente Scelli, che è nella stanza a fianco, ha stabilito un nuovo, possibile contatto. A questo punto dobbiamo decidere se continuare con il nostro contatto oppure se scegliere quest’altra strada. Voi cosa dite? Siamo perplessi e stupiti ma diciamo no. Ci eravamo pienamente fidati di Calipari, che si muoveva con tatto e intelligenza, e volevamo andare avanti così. Scelli voleva intromettersi nella vicenda e aveva con questo ritardato la conclusione, perché i rapitori vista la possibilità di una doppia trattativa pensavano di giocare al rialzo. Calipari era una persona normale, affabile, intelligente, competente. Dopo il primo video ci tranquillizzò: “Il segnale è positivo perché non è velata, parla in francese. Le hanno detto di dire quelle cose, poi certo si è messa a piangere ma insomma questo è comprensibile. Però il video è un segnale positivo, quindi noi continuiamo”.
Le poche volte che io l’ho visto ho avuto una sensazione di sicurezza, quella che fornisce sempre la competenza e l’equilibrio interiore del tuo interlocutore. Calipari era una persona tranquilla, molto professionale, per nulla impegnata a esibire il suo ruolo».
Riprende Giuliana: «Il venerdì sento in casa del trambusto. Viene uno dei carcerieri e mi dice: “Stai tranquilla, l’unico problema è il momento della liberazione. Perché ci sono troppi americani in giro ed è un po’ rischioso”. Io la sera sento l’ultima chiamata alla preghiera e penso che non accadrà nulla, ancora una volta. Invece entrano, vestiti di tutto punto, e mi dicono: “Complimenti torni a Roma. Mettiti la sciarpa sulla testa, perché se ti riconoscono si apre il fuoco e tutti saltiamo per aria”. Mi fanno mettere gli occhiali da sole e sugli occhi del cotone in modo che non veda fuori e poi mi dicono: “Abbiamo promesso alla tua famiglia che tu ritornerai sana e salva in Italia, ma gli americani non vogliono”. Penso che sia una loro tirata ideologica. Avevano, questo non l’ho mai detto, il ritratto di Saddam sul calcio della pistola. Mi portano su una macchina, seduta dietro. Andiamo per un po’, ho calcolato venti minuti e ad un certo punto sento che la macchina si ferma, come bloccata da una pozzanghera. Aveva piovuto, quel giorno.
Invece loro dicono: “Siamo arrivati. Adesso tu aspetti in macchina, ti verranno a prendere”. Loro scendono, io sento che si allontanano ma li ascolto parlare in lontananza, quindi non sono molto distanti. Sento un elicottero che volteggia e ho paura. Torna uno dei rapitori e mi dice di aspettare ancora dieci minuti. Dopo un po’ avverto dei fari contro la macchina. Sono terrorizzata, non vedo, non posso capire. Sono vestita tutta di nero, compresi spolverino e sciarpa, e per non farmi vedere scivolo indietro sul sedile, per confondermi con la tappezzeria. Infatti non mi notano e vanno via. Dopo un po’ torna questa macchina, si avvicina. Sento aprire la portiera. Una voce mi dice: “Giuliana tranquilla, sono Nicola, amico di Gabriele, di Pier. Adesso ti portiamo via”. La prima volta Calipari era arrivato all’appuntamento e se ne era andato, pensando che il posto fosse sbagliato. Al buio non era facile scorgermi. Potevano pensare fosse una trappola, che aprendo la portiera saltasse tutto. Ma mentre uscivano dalla stradina qualcuno gli ha detto che ero lì. E allora sono tornati, hanno rischiato e sono venuti a prendermi. Poi uno mi porta sulla loro macchina e mi fa sedere dietro l’autista. Vicino a me si mette Calipari: “Mi siedo vicino a te così stai più tranquilla”. Solo dopo che ci siamo allontanati un pochino mi dice: “Adesso puoi togliere gli occhiali, anche la sciarpa, adesso tu sei libera”. Calipari mi parla di amici comuni, e intanto tenta di chiamare in Italia. Vuole farmi parlare con Pollari e invece non riesce a prendere la linea. Ad un certo punto l’autista Carpani, che io non ho mai visto neanche dopo, dice “mancano novecento metri e siamo all’aeroporto”. Mi spiegano che all’aeroporto c’è un aereo che ci riporta a casa. Proprio allora Calipari riesce a prendere la linea con l’Italia. Ma nello stesso momento dice: “Ci attaccano”. Cominciano ad arrivare spari da destra, dalla strada. Ma non c’è nessun posto di blocco, solo dei jersey di cemento per rallentare la velocità. La macchina è quasi ferma ma continuano a sparare contro di noi. Calipari, immediatamente dopo aver detto “ci attaccano” mi spinge giù tra i due sedili e si butta sopra di me. Da quel momento io non sento più Calipari parlare. Sento l’autista che urla “siamo italiani, siamo italiani”, poi scende dalla macchina ed è circondato da soldati americani che nel frattempo sono arrivati. Erano fuori dalla strada con uno di questi checkpoint mobili. Carpani è circondato e gli urlano di spegnere il telefono. Lui dice: “Ma sono in linea col governo italiano” e loro rispondono secchi “spegni il telefono”, non gliene frega proprio niente. Io sono lì e non sento più Calipari, avverto che si appesantisce su di me. Sono nel terrore: prima parlava sempre e adesso non parla più. Sono lì sotto schiacciata con questo peso e non so più cosa pensare. Prima, quando ci ha detto “ci attaccano” ho pensato solo, ma chi ci può attaccare?
Verso l’aeroporto
Calipari si siede vicino
a me, mi parla di amici comuni. All’improvviso grida: ci attaccano, e mi protegge con il suo corpo
Giuliana Sgrena
Però non arrivo neanche a pensare che siano gli americani a spararci contro, solo dopo mi viene in mente quello che mi hanno detto i rapitori. Sono talmente scioccata che non ho avvertito il colpo che mi è arrivato nella spalla. Di Calipari sento il rantolo, perché sta morendo. Vengono da me, mi tirano giù, mi stendono in mezzo alla strada. Mi manca il fiato, non riesco a respirare. Poi arriva un soldato americano che vuole infilarmi una flebo in un braccio, ma l’ago è troppo grande e infatti arrivo in ospedale e il braccio è già blu. Mi tagliano con una forbice la camicia e c’è un lago di sangue, perché il proiettile è esploso dentro. Ho un buco di 4 centimetri nella spalla e urlo che voglio acqua, voglio un po’ di acqua. Non riesco a respirare. Ho un pneumotorace e mi portano all’ospedale militare americano. L’ambasciatore italiano mi fa parlare al telefono con Letta che mi dice: “Domani ti portiamo via da lì”».
Pier Scolari ha vissuto la scena da Palazzo Chigi: «Andiamo io e Gabriele. Siamo lì e arriva Berlusconi, Berlusconi non si era mai visto, aveva fatto tutto Letta. Abbracci, eravamo tutti felici. Pollari si assenta un attimo perché parla con Carpani. Rientra di corsa, bianco in volto, dicendo: “Gli stanno sparando, gli hanno sparato, Calipari è morto”. Carpani è al telefono e Berlusconi credo gli chieda: “Ma la signora come sta?”. Carpani l’ha vista, è viva. A quel punto Pollari a Carpani che gli diceva: “Vogliono che spenga il telefono” risponde: “Ma tu spiegagli”. Chiuse la telefonata. Siamo lì e non c’è nessuna comunicazione, non si sa che cosa sta succedendo, che cosa succederà. Io urlo: “Ma telefonate a qualcuno. Chiamate l’ambasciatore, Bush!”. Berlusconi mi fa capire che è inutile chiami lui. Letta prende in mano la situazione e chiama l’ambasciatore. Berlusconi dice: “Partite e andate a prenderla, portate anche Pier”. Per fortuna. Quindi io chiedo a Berlusconi: “Ma presidente cosa devo dire?”. Perché io non sapevo niente. Non sapevo se c’erano altri italiani coinvolti, se c’era un’operazione in corso: “Io cosa dico alla gente che mi chiederà?”. Berlusconi mi dice: “Tutta la verità”».
Giuliana riprende: «Il filmato girato da Lozano – il soldato americano che ha sparato e poi ha avuto il sangue freddo di riprendere il dopo – mostra che la macchina aveva le luci accese e non spente. Quei fari accesi volevano dire: siamo alleati, non nemici. E quel filmato è stata la conferma della versione che io e Carpani, senza parlarci, abbiamo fornito. Come sul fatto che la macchina procedesse lentamente. Ma loro hanno sparato dentro, l’ultimo proiettile contro il motore e gli altri cinquantasette dentro l’auto. L’unica cosa che posso immaginare è che gli americani ce l’avessero con gli italiani, in particolare con Calipari e quella componente dei Servizi che voleva trattare per la liberazione degli ostaggi e non farli ammazzare, come gli americani avrebbero voluto. Io penso sia l’unica possibile. Ma, al tempo stesso, mi sembra assurdo che questa sia una motivazione valida per uccidere il numero due della sicurezza italiana. Che era un Paese alleato con gli americani, in Iraq.
Rosa Calipari mi ha aiutato molto a combattere il mio senso di colpa per la morte di Calipari. Mi ha detto: “Era il suo mestiere, pensa se lui fosse arrivato vivo e tu morta. sarebbe stato distrutto”. È una donna forte e straordinaria. Io, da quel giorno, non sono più la stessa persona. Sono sopravvissuta. A una tragedia di cui sono stata vittima incolpevole anche io».
La data
Nicola è stato ucciso il 4 marzo. Lo stesso giorno in cui ci siamo conosciuti, nel quale è nata sua madre e anche suo figlio Filippo
Conosco Rosa Villecco Calipari da quella sera del 4 marzo. Andai, da sindaco di Roma, a casa sua. Da quel momento con lei e i suoi figli Silvia e Filippo si è stabilito un rapporto di amicizia e di solidarietà profonda. Forse per questo Rosa accetta di parlarmi di quei giorni. «Nicola si era occupato del rapimento delle due Simona, riuscendo a farle liberare. Il giorno del sequestro di Giuliana dovevamo partire per una settimana di vacanza – la prima che lui prendeva da anni – con i nostri figli e degli amici. Quando arrivò la notizia io, che ero abituata, gli dissi che sarei andata da sola. Lui mi chiese di aspettare e dopo disse che ci avrebbe accompagnato e poi lasciati lì. Partimmo all’alba del 5 febbraio, lui in viaggio ricevette delle telefonate anche difficili. Nel mese di febbraio l’avrò visto due volte. Nicola andava in Iraq e, quando era qui, stava chiuso a Palazzo Chigi o nel suo ufficio. Tornava tardi la notte e usciva presto al mattino. L’ultimo weekend della sua vita lui era a Roma ma io ero in Calabria per questioni familiari. Non ci siamo incrociati. Il lunedì mattina mi disse che doveva partire subito, sembrava che ci fosse un’apertura. Nicola parlava sempre poco. Non solo il suo mestiere lo spingeva ad essere riservato, ma il suo carattere. Non l’ho mai sentito gridare.
Mi chiamò il mercoledì. Era molto teso. Parlava a scatti, io riconoscevo da questo il suo stato d’animo. Mi disse: “Se ognuno si prendesse le sue responsabilità...”. Gli risposi che lui non doveva caricarsi ogni onere, che ciascuno facesse il suo. La mattina del venerdì, il suo ultimo giorno, lui fece tre telefonate. Al figlio, alla madre, a me. Mi sembrò più sereno. Mi disse: “Spero che le cose vadano meglio e si risolvano, potrebbe essere oggi”. Era il 4 marzo, giorno del compleanno di suo figlio e di sua madre. A me disse che, rientrando, avrebbe preso un pallone a Filippo. Io gli risposi di stare tranquillo, che quella sera saremmo stati a cena con i due festeggiati e che, al suo ritorno, saremmo stati tutti insieme.
Lo chiamai uscita dall’ufficio. Credo di averlo fatto mentre gli stavano sparando, gli orari coincidono. Era staccato. Poi andai dal parrucchiere e lì mi chiamò il mio capoufficio, il prefetto Del Mese, che mi chiese dove fossi e se sarei tornata a casa. Non capivo il senso di quelle domande. Quando aprii la porta li vidi tutti, i vertici dei servizi. Lanciai un urlo, buttai a terra la borsa e capii subito che era successo qualcosa di grave. Non mi dissero cosa, accennarono al fatto che qualcosa non era andato bene. In casa avevano fatto chiudere tutte le televisioni perché i ragazzi non avessero informazioni in quel modo. Ma vedevo le loro facce e capivo che era successo qualcosa di grave. Pensavo che Nicola e Giuliana fossero stati sequestrati dagli iracheni. Poi mi dissero che gli avevano sparato gli americani. “Che c’entrano gli americani, non sono nostri alleati?” chiedevo. Pensavo fosse ferito e dissi che volevo andare a Bagdad. Quando arrivò Pollari mi diedero la notizia. E io precipitai.
Giuliana la vidi al Celio. Volli andare a conoscerla, la mia richiesta sorprese molti. Incrociai i procuratori Amelio, che segue con cura la vicenda ancora oggi, Ionta e Pietro Saviotti, che era un vecchio amico di Nicola e aveva le lacrime agli occhi. Giuliana era l’unica che mi potesse raccontare gli ultimi momenti di Nicola. Quando sono entrata ho visto questa donna ferita, spaurita, che faceva fatica a respirare. Era fragile. Non ho mai pensato che lei avesse delle responsabilità. C’erano responsabilità, ma non erano certo le sue. E avrei voluto che fossero tutte acclarate, la parte nazionale e quella internazionale. Con Giuliana ho avuto subito la sensazione che noi due, donne, fossimo unite da una tragedia che ci aveva colpito, entrambe. Quella morte era il nostro filo di sangue e ci univa, come fossimo parenti».
Giovane per sempre
Lui, con quel suo sorriso dolce, torna da me ogni momento. Lui è giovane, io sono invecchiata. Ma siamo sempre insieme
Rosa Calipari
Chiedo a Rosa quale sia il più bel ricordo di Nicola. Lei mi risponde: «Il mio incontro con lui. Fu per caso. A una festa di amici. Lui ha sempre sostenuto di essersi innamorato a prima vista. Io non ci ho mai creduto. Ma lui mi colpì. Quella sera fu protagonista, fu divertente, pieno di ironia, ma anche pieno di garbo. Nicola era un introverso, uno che ascoltava gli altri. L’attuale questore di Roma, Esposito, mi ha raccontato un episodio di quando lui era un giovane funzionario della Criminalpol di Napoli. Nicola era alla mobile di Roma e si occupava del contrasto del traffico di droga. Aveva saputo che c’erano dei napoletani che avrebbero fatto passare un carico da Fiumicino e aveva organizzato il loro arresto. Il giovane funzionario partenopeo gli chiese se poteva lasciare che facessero loro l’operazione. Nicola accettò, fece seguire i trafficanti fino al punto concordato in cui la Criminalpol di Napoli, che stava seguendo il caso, prese il carico e, insieme, il merito. Era inclusivo, pacato, meditava parole e scelte. Torniamo a quella sera. Io dovevo partire per la Germania, ma rimasi colpita da quel ragazzo. Io avevo 24 anni, lui 29. Lui lasciò la fidanzata e si presentò ai miei. Faceva sul serio, come ha sempre fatto nella vita. Se devo dirti la sensazione più forte che mi trasmette il ricordo di Nicola è questa: non era alto né grande, ma ti dava un infinito, enorme, senso di sicurezza. Sapevo che per qualunque cosa lui c’era».
Mentre Rosa parla mi vengono alla mente le parole che Nicola ha detto a Giuliana in macchina, il gesto di sedersi vicino a lei e di coprirla con il suo corpo. Proteggere gli altri: esiste qualcosa di più chiaro, di più corretto, per definire la figura dell’eroe?
Rosa aspetta con tristezza la data del quindicesimo anniversario della morte di Nicola. Il 4 marzo. Mi dice: «Quella data è scolpita nella vita della nostra famiglia. In quel giorno è nata la mamma di Nicola. È nato Filippo, suo figlio. Quella cena, quella del nostro incontro, fu il 4 marzo 1983. E lui è morto il 4 marzo del 2005. Ora forse riesco a liberarmi del rapporto tra Nicola e la tragedia. Ora Nicola torna da me ogni momento, nella memoria. Torna con il suo sorriso dolce e la sicurezza che effondeva. Lui è rimasto giovane, io sono invecchiata. Ma siamo sempre insieme».