La Stampa, 2 dicembre 2019
Le mutilazioni genitali femminili in Italia e nel mondo
Una piccola somala di 6 anni. Perde sangue dalla vagina, ha ferite esterne. Soffre e non riesce ad andare in bagno. Sua madre la porta all’Istituto San Gallicano di Roma, specializzato in dermatologia e venereologia. La visita il professor Aldo Morrone, uno dei massimi esperti italiani di mutilazioni genitali femminili, a cui si dedica da 30 anni. «Il sospetto che la piccola avesse subìto una mutilazione recente, in Italia, è stato forte. Ho avvisato subito i servizi sociali che hanno allertato la Procura. Abbiamo parlato a lungo con la madre, ma lei ha negato che si trattasse di una lesione volontaria. Fatto sta che dopo i primi colloqui, mamma e bimba sono sparite, non le abbiamo più viste. E il tutto è sfumato in quanto non è stato possibile provare la mutilazione. Di casi dubbi, di bambine con emorragie non riferibili a patologie genitali, me ne capitano almeno 4-5 all’anno. Ma è difficile trattarli, sia per mancanza di prove, anche perché esistono alterazioni genetiche genitali che provocano problemi analoghi, sia perché è complicato affrontare il tema con i genitori e conquistare la loro fiducia».
Il fenomeno
Una pratica ancora molto diffusa nel mondo, quella delle Mutilazioni genitali femminili (Mgf), che coinvolge 30 Paesi africani, qualcuno del Medio Oriente più altri asiatici e sudamericani, per un totale di oltre 200 milioni di vittime. Vengono praticate per lo più senza anestesia, da persone che nella maggior parte dei casi non hanno qualifiche mediche. E ogni anno a livello mondiale sono a rischio 3 milioni di bambine, dai primi mesi di vita ai 14 anni. Ci sono vari tipi di lesioni: dall’asportazione del clitoride (grado 1) all’eliminazione delle labbra (grado 2) fino al restringimento vaginale parziale o quasi totale (gradi 3 e 4). Alcuni Paesi africani hanno varato leggi che proibiscono la pratica, ma sono ancora molti quelli in cui è tollerata. In Egitto, Paese a cui si fa risalire il rito, il 91 % delle donne è mutilato. «Nei casi più gravi viene lasciato solo un piccolo buco per la fuoriuscita di urine e ciclo mestruale – spiega Stefania De Fazio, chirurga estetica, presidente del primo Summit sulle mutilazioni genitali femminili, organizzato nei giorni scorsi a Napoli dalla Società italiana di chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica – Violenze che nulla hanno a che vedere con la religione, frutto di un retaggio culturale che impone alla donna di essere “pura”. Ma i tagli hanno implicazioni urologiche e ginecologiche, e occorrono protocolli multidisciplinari di cura».
In Italia: una legge a metà
Il fenomeno coinvolge anche l’Italia dai primi anni ‘90. Oggi, a 13 anni dalla legge 7 del 2006 che ha introdotto l’arresto per chi pratica questo rito nel nostro Paese, vivono qui 80 mila donne mutilate. E «ogni anno 4-5mila bambine rischiano di esserne vittime in Italia», come sottolinea Morrone. Il problema è che le linee guida ipotizzate dalla legge, che prevedevano campagne informative e iniziative per l’integrazione, sono rimaste sulla carta. «L’Europa non è esente, anche se non abbiamo certezza che la pratica venga effettuata in Italia o nei Paesi europei – nota l’esperto– Al San Gallicano in dieci anni abbiamo trattato circa 3mila casi. Una 28enne somala laureata venne da noi chiedendo di essere mutilata. Noi le abbiamo spiegato che è vietato. Sette mesi dopo l’abbiamo rivista per una visita ed era stata tagliata. Ma se ci fossero maggiore integrazione e strutture ad hoc per trattare il tema, il rischio per le bambine, e anche per le adulte, sarebbe molto inferiore». Gli esperti non escludono che in alcune comunità africane residenti in Italia le mutilazioni vengano praticate ma «certezze non ci sono, altrimenti la Procura sarebbe informata», dice Morrone. Intorno al fenomeno c’è molto riserbo e le forze dell’ordine spesso non vengono coinvolte (polizia e carabinieri dicono di non aver trattato casi recenti). «Episodi in Italia? – nota Omar Abdulcadir, ginecologo somalo residente in Toscana, paladino del contrasto alle Mgf – Nessuno lo riferisce perché tutti sanno che è illegale, nelle stesse comunità nessuno denuncerebbe l’altro. La maggior parte va nei Paesi di origine a praticarle. Ma ora alle frontiere di alcuni Stati europei le bimbe, prima e dopo le vacanze nella madrepatria, vengono visitate, proprio per controllare. Solo che a volte le piccole vengono trattenute in Africa per due anni, in modo tale che le cicatrici guariscano». In più, negli ultimi anni, l’immigrazione ha portato in Italia migliaia di donne che hanno subìto lesioni. Fenomeno che rende ancora più urgente che medici e soccorritori italiani siano ben formati su come affrontare i casi. «L’80% delle immigrate viene da Paesi, come Ciad e Nigeria, dove le mutilazioni sono accettate. E nei centri d’accoglienza queste problematiche emergono», aggiunge Abdulcadir.
Danni permanenti
La cosa più difficile, spiegano gli specialisti, è far prendere consapevolezza alle vittime che quel “rito” ha conseguenze gravi per la salute. Infezioni, difficoltà ad urinare e durante il ciclo, rapporti sessuali dolorosi, parti complessi che possono arrivare a causare anche la morte. «Per chi ha subìto l’infibulazione, il rischio è che la testina del neonato non passi, e la madre rischia la morte per emorragie», dice Luca Bello, ginecologo dirigente all’ospedale Maria Vittoria di Torino, in prima linea nella lotta contro le mutilazioni. I disagi emergono anche a scuola: per fare pipì possono essere necessari 10-15 minuti. Parlarne è essenziale per informare le vittime e la società in cui vivono. «Mesi fa ho visitato un’africana 50enne che nei rapporti sessuali col marito aveva dolore – racconta Bello – Era mutilata, ma lei pensava che le donne “fossero tutte così”».
Ricostruzione, una via d’uscita
Intervenire a livello fisico per attutire i disagi è possibile. «Maggiore consapevolezza dei rischi c’è soprattutto tra le giovani – dice Aurora Almadori, da 14 anni volontaria di onlus tra cui Acmid e chirurga plastica – Ho operato decine di donne tra Roma e Londra che hanno deciso di fare una ricostruzione per scopi curativi ed estetici, e molte dicono che preserveranno le figlie». Non è un caso che siano in aumento gli interventi di tipo ricostruttivo – la cui spesa è sostenuta dal servizio sanitario nazionale – che puntano a ripristinare la funzionalità della vulva ai fini del parto, della sessualità e non solo. «Si usa il tessuto adiposo per rigenerare e combattere le atrofie della vagina – spiega Stefania De Fazio – e anche per recuperare sensibilità». Numerosi medici si stanno attrezzando in ospedali e centri ad hoc. «A Torino ho proposto di aprire un consultorio nel nostro Centro Multisciplinare per la Salute Sessuale», dice Bello. E l’obiettivo, perseguito dalla Sicpre, guidata da Francesco D’Andrea, è istituire linee guida per curare queste donne. L’idea è costituire delle Mgf Unit sul modello delle Breast Unit (i Centri di senologia), con «squadre di medici, psicologi compresi perché ci possono anche essere disagi psicologici, sempre a disposizione, e senza spese ulteriori per il servizio sanitario nazionale», precisa De Fazio.
Obiettivo: integrazione
Il medico somalo Abdulcadir, con la moglie e collega Lucrezia Catania, nel 2006 ha provato a introdurre in Toscana un rito alternativo alle mutilazioni: pungere lievemente il clitoride, in anestesia, per perpetrare il rito in sé, ma tutelando le donne. Iniziativa che non è stata accettata in Italia, ma che si è diffusa in Somalia. Lo spiega Abdulcadir: «Inutile dire “tolleranza zero” o “eliminiamo le Mgf”. In Occidente non c’è ancora consapevolezza di quella tradizione per via delle differenze culturali. Ci vuole gradualità». E come dice Morroni, anche «formare in Africa le donne che praticano le mutilazioni e trasformarle in operatrici sanitarie è una chiave per superare il rito». Puntando sulla salute e favorendo di più l’integrazione. «Le africane che vivono qui non rinnegano le origini pur apprezzando la cultura occidentale – dice Almadori – È come se vivessero scisse. Una di loro mi ha detto: “Il mio confine fra le due realtà è la mutilazione genitale”. E non stiamo parlando di sessualità, ma dell’intera cultura».