Corriere della Sera, 17 novembre 2019
Su "L’opera interminabile" di Vincenzo Trione (Einaudi)
Non mancano certo le guide (più o meno autorevoli, più o meno discutibili) per orientarsi nell’arte contemporanea. Sono lavori di sintesi, o raccolte di articoli concepite come rivelatori di tendenze e campi di energia, impegnative discriminazioni tra il valore e la futilità. L’opera interminabile di Vincenzo Trione, appena uscito per Einaudi, si distingue nel panorama della critica d’arte non solo per le qualità del critico, la sua erudizione, l’intelligenza del suo sguardo. È la scelta del metodo a smarcare Trione da molte costrizioni concettuali e inerzie argomentative, aprendogli un terreno d’azione assolutamente libero, dove esercitare al meglio le sue doti di empatia e la sua capacità di analisi dei linguaggi artistici. Trione infatti non ha scritto un libro sulle tendenze dell’arte contemporanea, e nemmeno ha composto una serie di profili di artisti ritenuti importanti. Meno che mai suddivide la sua materia seguendo i criteri delle poetiche o delle estetiche contemporanee.
Diceva il grande Ernst Gombrich, nel celebre inizio della sua Storia dell’arte, che non esiste una cosa chiamata «arte», esistono solo gli artisti. Trione procede oltre in questa sanissima gara di empirismo: per lui, esistono solo le opere. Ne sceglie quindici, di altrettanti artisti, sistemandole in un museo ideale o immaginario, una «Kunsthalle impossibile», come la chiama. E interroga ogni singola opera con una tecnica di minuziosa amplificazione verbale e una lente analitica già lungamente sperimentate dall’autore, ma che in questo libro arrivano a un grado supremo di maturazione.
Non voglio minimamente suggerire, dicendo che Trione punta tutte le sue carte sull’opera e organizza il suo discorso servendosi della metafora del museo, che Trione cada nell’errore di sottovalutare la vita di chi quelle opere le ha create. Perché si tratta di grandi opere, per ambizioni e per risultati, e dunque rappresentano anche punti di massima tensione e intensità nella vita degli artisti. Basterà, per rendere conto di cosa si intende per «grandezza», evocare l’opera a cui Trione assegna il ruolo privilegiato di cerniera tra XX e XXI secolo: i Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer dal 2014 all’HangarBicocca di Milano. Non conosco una persona che abbia visitato questa purissima e vertiginosa visione, questa profezia onirica e metafisica, senza ricavarne un’emozione indelebile. Ebbene, dopo aver letto il capitolo iniziale del libro di Trione, che ne indaga i presupposti filosofici, tecnici, letterari procedendo come per cerchi concentrici, ci rendiamo conto che le torri non sono una «svolta» nell’opera dell’artista tedesco, non è quella l’immagine giusta, non tutte le «svolte» sono così significative come fa credere la parola, semmai bisognerebbe parlare di un «nodo», di un luogo fatale in cui si aggrovigliano e si confondono tutto ciò che l’artista ha imparato e il suo futuro, ovvero ciò che l’artista non conosce ancora, che non sa ancora fare, che non sa ancora immaginare. Più che manufatti, questi sono processi, che a volte hanno bisogno di un tempo lunghissimo per maturare, attraversando materiali e generi artistici diversi. Idee che appaiono per la prima volta in forma di disegno e poi diventano video che diventano installazioni che diventano spettacoli teatrali, film, libri, e magari tornano allo stadio iniziale di disegno dopo aver percorso un viaggio durato decenni.
È singolare il fatto che in tutto il museo «impossibile» di Trione serpeggi il vecchio ideale post-romantico dell’opera d’arte «totale». Ma quello che nella teoria di Wagner era un’ideale di collaborazione tra le arti in vista del traguardo della scena, nei primi anni del nostro secolo si è complicato generando una serie di ibridazioni.
Nel capitolo dedicato a Orhan Pamuk e al suo Museo dell’innocenza, Trione ci mostra come la scrittura di un romanzo e la creazione di un museo siano diventati, per lo scrittore turco, due gesti complementari e reciprocamente generati, entrambi necessari a dar forma a un’intuizione. Cremaster di Mattew Barney invece è un ciclo di film concepito e realizzato da uno scultore e capace, a sua volta, di produrre dal suo interno nuove sculture, in questo modo riappropriandosi dello spazio, come è accaduto nella mostra del 2003 al Guggenheim di New York.
Oltre che dall’utopia della totalità, le opere raccontate da Trione sembrano accomunate da un’altra caratteristica che mi sembra evidente. In un modo o nell’altro, sono tutte immagini della memoria, ci mostrano la memoria individuale e collettiva nel loro funzionamento, come se si trattasse di organismi viventi. Si va da un limite di soggettivismo assoluto come quello di Sophie Calle, con le sue centosette versioni della lettera d’addio ricevuta da un’amante, al limite opposto rappresentato da Hermann Nitsch, con il suo teatro-rituale orgiastico irrorato di sangue ed escrementi, che pretende di dar voce a memorie così ancestrali da coincidere coi giacimenti più oscuri e notturni del genere umano.
In ogni singola sala del suo museo, Trione ci induce a meditare sul fatto che la memoria non è tanto uno strumento o una funzione, ma una forma, e che ogni atto di memoria è un gesto formale, qualcosa che è nello stesso tempo provvisorio e irreversibile. Grandiose e futili, queste opere così piene di detriti del passato sono le porte, gli spiriti guardiani del nuovo millennio.