la Repubblica, 9 gennaio 2020
Antonio Manzini e l’ispirazione. Tra Simonetta Cesaroni e "Orsacchiotto Bubù"
Me lo chiedo da anni, dove è saltato fuori questo amore? Questa voglia di scrivere di un vicequestore che indaga? Non sono mai stato un lettore di gialli. Poirot, Nero Wolfe, Sam Spade, erano letture distratte. Da adolescente preferivo King e Lovercraft, e poi mi piaceva Calvino, vivevo una sorta di adorazione per Steinbeck e Jack London.
Dunque? Penso. Forse per l’attività di sceneggiatore? La maggior parte delle produzioni televisive, ancora oggi, schiaccia l’occhio ai gialli. Piste da seguire, colpevoli da trovare, la maggior parte degli sceneggiatori batte sempre quel chiodo. Ma era lavoro, ci mettevo un po’ di passione, quel tanto che serviva per non cadere nella depressione più cupa al ventesimo cadavere ucciso da qualche organizzazione mafioso-massonica, o dal poco credibile serial killer, personaggio mutuato in questo paese dalle tonnellate di libri statunitensi dove abbonando malati di mente pronti a fare esercizi di stile criminale pur di eliminare una povera disgraziata.
Ma libero dal lavoro frequentavo altro. Provavo a scrivere altro. E allora da dove viene questa infatuazione? Perché di questo si tratta. Un film sul caso di Via Poma. Orrendo delitto che ricordavo benissimo forse perché accaduto il giorno del mio compleanno nel quartiere Prati nel 1990. Conoscevo poco o niente il fattaccio, sapevo che era un caso irrisolto, come i tre quarti degli omicidi in questo paese. Il produttore di quel film mi passò le carte processuali, mi mandò a chiacchierare coi protagonisti di quella vicenda. Mi ero infilato in una storia complessa, fatta di omertà e Servizi che insabbiavano; in mezzo quella ragazza poco più che ventenne, unica colpa trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Terribile guardare le fotografie, leggere le testimonianze reticenti e contraddittorie, assistere a un’indagine se non superficiale quanto meno distratta. E mi sono ritrovato a piangere per la disperazione dei genitori, a bestemmiare per uno Stato che non solo non protegge, ma assiste inerme, se non complice, allo strazio di una ragazza di 21 anni.
È scattato allora, mi chiedo, il desiderio di quel tipo di racconto? Ha scavato così a fondo da lasciarmi disarmato e impotente, come un innamorato di fronte all’oggetto del suo amore? Sono sempre stato convinto che l’infatuazione, perché di quello sto parlando, nasca sempre dal riconoscere nell’altro un dettaglio che ti porti dentro, da un particolare che fa parte del tuo puzzle esistenziale, del tuo corredo insomma. Credo che ci si possa innamorare di una donna o di un uomo solo perché qualcosa dei suoi tratti, del suo odore, oppure la sua ironia appartengono anche in minima parte al tuo lessico famigliare; risponde cioè alle tue aspettative segrete, che nascono dai ricordi, dal dna forse.
In fondo ci si riconosce prima di innamorarsi, di questo ne sono piuttosto convinto. E allora se mi sono innamorato di quella forma di narrazione, il motivo è da ricercare più indietro nel tempo. Mi telefona mia madre. Da quando papà se n’è andato spuntano fuori oggetti che lui teneva stipati nei suoi luoghi segreti. Come il mare che rilascia oggetti più disparati sulla spiaggia, così tornano sul bagnasciuga della vita quaderni dimenticati, fogli scarabocchiati, fotografie, magliette dell’Inter. Orsacchiotto Bubù e altre storie.
Di questo si tratta. Era un giornalino che facevamo io e il mio amico del cuore Massimo. Ne esistevano solo due copie, la mia e la sua, diciamo che era dunque un prodotto di stra-nicchia. Consisteva, il giornalino, in un normale quaderno a quadretti cui avevamo strappato la copertina. Sul primo foglio c’era disegnato un orso con un tamburo, sulla pelle del tamburo il titolo del giornaletto, in alto gli autori della terza B (firmavamo con cognome, nome e poi la classe). Sotto i titoli delle storie.
Sfogliando saltano agli occhi due dettagli. Il primo che nessuna narrazione includeva l’orsacchiotto. Il secondo, avevamo incontrato diverse difficoltà nel tratto. I personaggi, vignetta dopo vignetta, non erano sempre uguali. Nasi crescevano o si rimpiccolivano, capelli apparivano e scomparivano, occhi erano una volta tondi la volta dopo a mandorla. Avevamo ovviato a questa difficoltà colorando i vestiti. Quindi il protagonista lo si può riconoscere perché ha sempre i pantaloni gialli e la giacca/camicia/maglietta verde. Promettevamo, sempre sulla copertina, di narrare "Storie Spaziali, Wester, Medioevali!" riporto la scritta così com’è.
Sfogliando e leggendo la prima delle tre storie mi sono accorto che era un giallo. Cioè c’era un omicidio, la polizia eccetera eccetera. La seconda era una storia "Wester" ma sempre uno sceriffo che doveva arrestare il capo di una banda di ladri di cavalli (i cavalli non ci sono, non li sapevamo disegnare. Mi chiedo perché non preferimmo una banda di rapinatori di banche). Il terzo era "Spaziale", ma anche lì, l’equipaggio di una navicella era alla ricerca di un sasso rarissimo e pieno di energia che un cattivo, riconoscibile dal pizzo e dalla tunica viola, aveva rubato e nascosto in un vulcano spento.
Ricordavo vagamente Orsacchiotto Bubù come uno dei tanti giochi che si fanno a otto anni. Pensavo al tempo impegnato e alla fatica per farlo, in duplice copia per altro, non credo esistessero le fotocopiatrici nel ’72. Però in un giornalino su un quaderno a quadretti c’è la risposta che cercavo. Quell’amore, o fissazione, viene da lontano, molto più di quanto pensassi. Dall’infanzia, il periodo più prezioso di ogni essere umano, i primi anni che poi insegui per tutta la vita e hanno già, nascoste da qualche parte, tutte le risposte che cerchi negli anni a venire.
Il libro. "Ah l’amore l’amore" di Antonio Manzini (Sellerio, pagg. 352, euro 15) è la nuova avventura noir con protagonista Rocco Schiavone. Che stavolta, da un letto d’ospedale, indaga su un caso di malasanitàmù.